
“Due menti senza un singolo pensiero” - era l’aforisma con cui Stan Laurel era solito descrivere “Stanlio e Ollio”, il duo comico a cui Oliver Hardy e lo stesso Laurel davano vita sullo schermo. Solamente supporre davvero di non venire mai turbati da alcun pensiero sembrerebbe alquanto utopistico. Stanlio e Ollio, nelle loro disavventure, avevano eccome di che pensare! Alle volte dovevano escogitare il modo di sbarcare il lunario, racimolare quanto occorreva per consumare un frugale pasto tanto i loro personaggi pativano la povertà; altre volte dovevano, invece, ponderare le opportune soluzioni per tirarsi fuori dai guai, vagliare un escamotage per “sopravvivere” ad un nuovo, difficile giorno, in una società costituita da biechi prepotenti. Era chiaro sin da subito che Stan Laurel con quella sua frase non volesse realmente intendere che Stanlio e Ollio non venissero mai “attraversati” dalla benché minima attività cerebrale. Il significato di quanto affermava era ben più profondo, anche se apparentemente elusivo. Non avere un singolo pensiero in due significava vivere la vita ed affrontare le sfide, più o meno ardue della quotidianità, con la spensieratezza di chi riesce a ridere a crepapelle anche innanzi al più triste degli scenari snocciolatosi sotto i propri occhi. Stanlio e Ollio ridevano insieme e facevano ridere quando venivano maltrattati, sfruttati, sottopagati, rifiutati, scacciati, traditi o lasciati in mezzo ad una strada in pieno inverno con la temperatura che segnava pericolosamente il “sotto zero”. Ma perché, nonostante tutto, i due erano così “spensierati”? Perché incarnavano, nella loro intimità, l’animo di due bambini, soggetti infantili ma da sempre “anarchici” nei confronti di una società schiacciante. Mantenevano tale “meccanismo di difesa” persino nei riguardi delle loro famiglie, che potevano rivelarsi anch’esse opprimenti. Le sole armi di Stanlio e Ollio erano le loro risate, sberleffi siffatti di ilarità e rivolti a chi cercava di tarpare le ali di quella libertà che permetteva loro di volare via, di volteggiare rapidi e leggeri come un pensiero remoto, esattamente come può fare la fantasia senza freno di un bambino.
Sposare chi nell’animo resta un eterno “Peter Pan” è un sfida ostica per il mantenimento di un durevole, felice e sereno matrimonio. Dovevano saperlo sin dal principio Lottie e Betty (rispettivamente Mae Busch e Dorothy Christy), le consorti dei due amici in uno dei loro massimi classici: “I figli del deserto”, quinto lungometraggio della coppia comica più famosa della storia della settima arte. Uscito nelle sale cinematografiche tra la fine del 1933 e l’inizio del 1934 è l’unico lungometraggio dei due artisti ad essere stato diretto da William A. Seiter, regista specializzato nel genere rosa e nella commedia, la cui sensibilità imprime al film una sorta di impronta indelebile.
In questa commedia intramontabile, i due protagonisti anelano ad un desiderio di evasione smisurato, grande quanto l’inospitale deserto del Sahara. Il loro bisogno di divertimento e indipendenza si scontra con i tradizionali e dogmatici doveri coniugali e le mogli, tanto belle quanto inclini al comando, assurgono al ruolo di “antagoniste”, metaforiche catene che tentano di attanagliare e tenere stretto lo spirito fanciullesco di Stanlio e Ollio. Questi ultimi amano profondamente le loro spose ma non vorrebbero comunque rinunciare ad un attimo di svago. E, infatti, per poter essere presenti al raduno annuale dei “Figli del deserto”, associazione alla quale Stanlio e Ollio sono iscritti, i due amici devono mettere in scena una farsa. Ollio, disperato perché Lottie lo vorrebbe al suo fianco durante le vacanze in montagna, decide di fingersi malato, e così si fa aiutare da un “medico” compiacente (invero, un eccentrico veterinario), il quale gli prescrivere un periodo vacanziero a Honolulu. L’amico Stanlio gli dovrà fare di conseguenza da accompagnatore. Liberatisi ormai dalle partner i due vanno invece all’appuntamento di Chicago con i “Figli del deserto”.
Nel far rientro a casa scoprono che la nave di ritorno da Honolulu è affondata, e da qui si snodano tutta una serie di tragicomiche peripezie (degne della più spassosa commedia antica del teatro di Aristofane) che vedono Laurel e Hardy costretti a nascondersi nella soffitta della casa di Ollio. C’è da aggiungere pure che le mogli, in principio preoccupatissime per la sorte dei mariti, hanno modo di vederli proiettati sul grande schermo mentre entrambi si pavoneggiano davanti all’operatore che li riprende, scoprendo così l’inganno. Lottie e Betty, un tempo alleate, nel mentre meditano la loro vendetta, lasciano al contempo emergere una sana e competitiva rivalità su chi dei loro due mariti si rivelerà più sincero.
Mentre Ollio continuerà a mantenere la propria posizione menzognera, il pauroso Stanlio dirà tutto alla moglie, perché, in fondo, i bambini potranno pur essere spensierati, ma scoppieranno di certo a piangere se in loro prevarranno i sensi di colpa per aver detto un’innocente bubbola. I due protagonisti, completamente succubi delle mogli, accetteranno il loro destino per le spontanee risate di noi spettatori. Così Ollio sarà sommerso dalle stoviglie scaraventate sulla sua testa da Lottie, mentre Stanlio riceverà tutte le attenzioni di Betty, che lo premierà con coccole e leccornie per essere stato, almeno nel finale, sincero. Tra Stanlio e Betty prevarrà, per quella notte, un amore quieto; tra Ollio e Lottie, ancora una volta, un ironico amore burrascoso e litigioso. L’esilarante atto conclusivo del film vuol lasciare un messaggio basato sull’onestà ma soprattutto sul principio di fedeltà, cuore pulsante del perfetto funzionamento di un buon matrimonio.
“I figli del deserto” è strutturato con un susseguirsi di momenti divenuti celebri, memorabile la scena in cui Ollio canta, col suo inconfondibile timbro vocale, la canzone “Honolulu baby”. I caratteri decisamente nuovi che si riscontrano nel film sono riconoscibili nelle gag. Non si notano più le classiche corse infaticabili, le rocambolesche cadute e le ardimentose vicissitudini dei protagonisti. Sin dalle battute iniziali del lungometraggio ci si trova davanti a una nuova comicità basata sulla caratterizzazione ben distinta dei personaggi e sulla scrittura articolata degli episodi. I due arrivano in ritardo al congresso e subito, già sulla porta d’entrata, riescono a perdersi di vista, tendando in seguito di ritrovarsi. Quindi, mettendo scompiglio tra i presenti, raggiungono in modo goffo i loro posti. Appare evidente che la comicità non è data da una battuta, da una situazione particolare o da un episodio al limite del paradosso, ma è data dal contrasto tra l’incapacità dei due individui e la solennità dell’evento che si sta svolgendo. Non mancano però le vecchie tecniche già sperimentate e oltremodo collaudate. Basti pensare alla gag in cui Ollio, fingendosi ammalato, ha i piedi in una tinozza di acqua caldissima: prima viene ustionato dalla moglie che gli versa inavvertitamente addosso dell’acqua bollente, poi dalla superficialità di Stanlio che cade anch’egli dentro al mastello, dove per ultima andrà a finirci anche la stessa moglie. Ma per distacco, la sequenza a generare maggiore ilarità resta quella finale, dove lo sguardo perplesso e preoccupato di Ollio si volge direttamente alla cinepresa, ricercando la complicità degli spettatori con il suo celebre “camera-look”. Il volto paonazzo di Oliver fa traspirare la comicità di un uomo prossimo a scontare la propria “colpa” e che reclama ingenuamente un “aiuto” a chi ne sta osservando il divertente epilogo.
Ne “I figli del deserto”, il matrimonio viene riletto secondo una chiave umoristica farsesca, in cui il rapporto tra marito e moglie non si sviluppa su di un livello paritario ma vede la donna porsi autorevolmente al di sopra dell’uomo, prostrandolo con fare intimidatorio. Come se tale indumento conferisse una sorta di “potere”, sia Stanlio che Ollio fingono d’indossare i “pantaloni” nelle loro rispettive case, il che sarebbe anche vero, ciononostante dimenticano di confessare che entrambi cedono con consuetudine agli imperativi delle mogli, coloro le quali portano una “gonna”, ma in effetti mantengono uno status di assoluta “leadership”, dimostrando con quanta facilità si possa sfatare un “luogo comune”. Attenzione, però, le due protagoniste femminili nel film non sono, come può sembrare in una rilettura rapida e approssimativa, mere arpie irascibili e totalitarie, bensì donne forti e oramai mature, che proprio faticano a comprendere gli spiriti gioviali dei mariti. Vi è, dunque, una incompatibilità caratteriale tra la sfera bambinesca dei due e l’enigmatico mondo adulto personificato dalle due donne. Sia Betty che Lottie soffrono il fatto che Stan e Oliver preferiscano trascorrere il tempo con l’allegra combriccola dei figli del deserto piuttosto che con loro. Una nuova chiave di lettura della pellicola potrebbe essere altresì racchiusa nella recondita voglia, manifestata anche con rabbia e disapprovazione, delle due spose d’essere considerate dai loro mariti come assolute compagne di vita. Una vita considerata in ogni sua forma e che non si limiti, per l’appunto, soltanto al focolare domestico.
“I figli del deserto” è una meravigliosa commedia che esalta l’imprevedibilità degli eventi, la complessità degli equivoci e, soprattutto, le conseguenze del raccontare fanfaluche le quali, quasi sempre, vengono a galla.
Ripensando agli ultimi secondi dell’opera, prima che il sipario cali giù e ponga fine alla narrazione visiva, non si può che provare una certa immedesimazione in un personaggio in particolare. Davanti alla furia di una moglie delusa e arrabbiata, a noi uomini non resta che “incassare” i colpi, accettare una giusta punizione e preparare le opportune scuse da proferire verbalmente, magari accompagnandole con un sorrisetto malizioso come quello di un ragazzetto e sinceramente innamorato come quello di un marito.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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