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Le stagioni di Gianni Rodari

Primavera è una giovinetta
con in bocca la prima violetta.
Poi vien l'estate, nel giro eterno
ma per i poveri è sempre inverno.
Vien l'autunno dalla montagna
ed ha l'odore di castagna.
Vien l'inverno dai ghiacciai
e nel suo sacco non ha che guai
.”

Dopo la titanomachia e la vittoria delle divinità greche, i discendenti aventi diritto alla spartizione della sovranità universale erano sostanzialmente tre: Zeus, Ade e Poseidone. I tre fratelli decisero di dividersi equamente il potere e a ognuno di loro toccò il dominio di un reame. Fu la sorte a muovere la mano di un destino neutrale nelle volontà esecutive: Zeus estrasse la Folgore e divenne dio dell’Olimpo, Poseidone sorteggiò il Tridente e ottenne il regno del Mare, Ade s’impadronì della Falce e conquistò il trono dell’Oltretomba. Raramente si nominava quest’ultima divinità, tanto la si temeva. E a ragion veduta! Tra i primogeniti di Crono, il divoratore, e Rea, la regina madre, Ade era annoverato tra le divinità più potenti di cui la mitologia avesse mai raccontato il vissuto. Dal sangue freddo e dal coraggio smisurato, Ade, durante la guerra contro i giganti, abbatté con furia molti Titani, mutilando braccia e squarciando ventri, rimanendo sempre nell’invisibilità. Egli portava sul capo un elmo nero, e proteggeva il suo corpo immortale con un’armatura buia come la notte più profonda. Pareva che la sorte avesse agito con saggezza e non con imparziale autorità quando fece in modo che il regno oscuro e imperscrutato dell’ultraterreno spettasse proprio a lui, schivo e riservato, tenebroso e austero. L’aldilà dava l’idea d’essere il riflesso dello spirito gelido del proprio padrone. Sembrava mitigare nell’animo di Ade un freddo quanto perpetuo inverno, tanto il suo carattere emanava un alone di inscalfibile e impersonale compostezza. Non era buon costume menzionare con leggerezza tale divinità. Si aveva il timore che la si importunasse, o che addirittura la flebile pronunzia dell’appellativo che lo contraddistingueva lo facesse adirare. Io stesso provo solamente ad immaginare cosa mormorassero i greci sommessamente in quel tempo tanto lontano: “Meglio guardarsi dall’incappare in un’involontaria provocazione. Sarebbe certamente opportuno evitare anche la più innocente delle stuzzicherie, così che il carattere, probabilmente iracondo, di un tale Re non venga intaccato. Sapete, laggiù ci vuole ben poco per “reindirizzare” il volere delle Moire…”

Nessuno pronunziava invano il nome di Ade per la timorosa suggestione che egli potesse punire il reo addirittura con la morte. Ma non era che una mera paura infondata. Negli scritti della mitologia, Ade era sovente descritto come un dio taciturno, dallo sguardo severo e giudizioso, ma mai egli si rivelò perfido ed improbo. Si ha ancora oggi la predisposizione, peraltro sbagliata, di pensare al dio greco dei morti e reinterpretarlo come una figura oscura, minacciosa, maligna, forse infingarda, nonché desiderosa di spodestare il fratello minore, Zeus. Nulla di più sbagliato! Ade era un dio leale, pacato, introverso e persino sentimentale. Il solo associare Ade alla figura della morte crea tutt’oggi un ingannevole pretesto aduso a farlo passare come un personaggio malvagio. E’ un po’ l’errore che facevano gli antichi greci quando credevano che Ade fosse da temere per il solo essere dio dell’oltretomba. L’abito non fa il monaco, diremmo oggi traendo spunto dal famoso detto popolare, e in egual maniera, il regno in cui egli troneggiava non doveva dare l’impressione sbagliata di una personalità ben più complessa di quella di un cattivo dei racconti.

Andando più nel dettaglio, Ade aveva il volto maestoso ma al tempo stesso tetro, i capelli arruffati e la barba incolta. Il dominio di Ade portava il suo stesso nome, ed era situato al centro della Terra, nell’Erebo misterioso, e comunicava direttamente col mondo esteriore attraverso caverne dalle profondità smisurate. Tristi fiumi vi scorrevano e bagnavano sponde di consistenza rocciosa: lo Stige, fiume sudicio e ombroso, il Cocito, il fiume dei lamenti, il Piriflegetonte, il fiume del fuoco, il Lete, il fiume dell’oblio e l’Acheronte, il fiume del dolore. L’Acheronte circondava il paese e per attraversarlo bisognava servirsi della barca guidata dal vecchio e burbero Caronte, il quale, se non gli si pagava prima l’obolo e se il corpo a cui l’anima era appartenuta in vita non aveva ricevuto la debita sepoltura, scacciava l’anima stessa costringendola a errare in eterno lungo la desolata riva. Varcato il fiume si giungeva all’ingresso dell’Ade, custodito da Cerbero, il cane dalle tre teste e dalla voce di bronzo, mansueto nei rispetti di chi entrava, feroce nei riguardi di chi tentava di uscire. Oltre la soglia infernale tre giudici, Eaco, Minosse e Radamanto, esaminavano le anime e le assegnavano al nero Tartaro, ai Campi Elisi o alle Isole dei Beati. I cattivi e specialmente coloro che avevano peccato contro gli Dei erano destinati al Tartaro: ivi erano i Titani, e il gigante Tizio, cui due avvoltoi rodevano il fegato, e Tantalo, condannato a fame e sete eterne. I buoni erano guidati ai Campi Elisi, dove regnava una eterna primavera, splendeva la luce radiosa del sole e crescevano pioppi argentei. Cupe divinità si aggiravano nel regno di Ade: Thanatos e Hypnos, la personificazione della Morte e del Sonno, fratelli e figli della Notte, e tutta la schiera dei Sogni, quelli veritieri e quelli ingannatori, le Keres, seguaci di Marte, e le Erinni.

Le Erinni erano le dee della vendetta, persecutrici soprattutto di coloro che si rendevano colpevoli di inumanità verso i supplici e i forestieri o, peggio ancora, di empietà o di assassinio contro i parenti. Ade regnava assieme alla propria sposa Persefone, la regina degli Inferi. Persefone, conosciuta altresì come Proserpina dai romani, arrivò nell’oltretomba a seguito di un rapimento perpetuato dallo stesso Ade. La dea vi giunse quando il sole fulgido della primavera irradiava i boschi verdi della Terra. Nelle profondità dell’Ade vi trovò un clima differente, un mesto inverno.

 

  • Inverno

Paesaggio invernaledi R. M. Rilke

“Respiran lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo via via.

Le candide strade si fanno più zitte:                                                                                        le stanze raccolte più intente.

Rintoccano l'ore. Ne vibra
percosso ogni bimbo tremando.
Di sovra gli alari, lo schianto d'un ciocco
che in lampi e faville rovina.

In niveo brillar di lustrini,

il candido giorno là fuori s'accresce,
divien sempiterno Infinito.”

Ade era costantemente arrabbiato. Tollerava come un supplizio permanente le urla rauche dei dannati che echeggiavano come lamenti martellanti nelle lande desolate del suo regno. Ovunque posasse lo sguardo non vedeva che dolore e tristezza, se non nelle regioni dell’Eden, in cui comunque non poteva che recarsi solamente per delle brevissime soste. Il dio greco era solo e nella sua solitudine si consumava il dramma di un’esistenza vacua e isolata. C’era persino chi giurò di averlo visto versare rassegnate lacrime di insoddisfazione senza mai cedere ad alcun singhiozzio. In mezzo a cotanta desolazione, Ade sentiva di trascinarsi in un inverno figurato, invalicabile, astratto e duraturo, senza che però potesse beneficiare della gioia, di certo temporanea, effimera, ma ugualmente dolce alla vista della caduta della neve. Nessuna coltre bianca avrebbe addolcito quel buio. Ade sognava di avere un raggio di sole che rischiarasse le tenebre del suo mondo. Fu forse in quell’istante, quando realizzò cos’era che mancava nella sua vita, che egli si sentì raggiunto al cuore dalla freccia più tenue ma, al contempo, più difficile da estrarre: quella di Eros. Ade concepì l’amore come un bisogno inestinguibile, avvampante, che movesse la sua mano disperata. Prima di partire, però, guardò fugacemente il suo elmo che lo rendeva invisibile. Quale ironia, pensò tra sé, quell’arnese a cui era tanto legato lo rendeva realmente impossibile da vedere, eppure egli si sentiva invisibile anche senza che lo indossasse, poiché nessuna donna aveva mai posato lo sguardo su di lui, relegato nelle profondità della Terra da tempo immemore. Quando emerse dal sottosuolo, fu investito dai caldi raggi di un sole primaverile.

"Il ratto di Proserpina" - Gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini

 

  • Primavera

Fiorita di marzo di Ada Negri

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.

Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo; e al tuo passar l’erba germoglia,
o Primavera, o gioia de’ miei occhi.

Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell’orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,

essi, ne’ loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l’aria densa di languori;

e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di marzo, o Giovinezza!…”

In quei secoli sulla Terra, faceva sempre bel tempo. Demetra, la dea delle messi, della fertilità e dell’agricoltura, donava agli uomini un’alternanza di mesi caldi e temperati, e procurava agli stessi proficui raccolti. Rigogliosi fiori germogliavano colorati in ogni dove, le foreste “pullulavano” di alberi secolari e verdeggianti dalle radici robuste, e dalle sorgenti sgorgavano con forza trasbordante e viva fiumi d’acqua cristallina. Ade si trovò dinanzi ad un paesaggio bucolico ed idilliaco che a stento ricordava d’aver contemplato prima della reclusione nel sottoterra. L’estate era alle porte, ma Ade non sapeva neppure cosa fosse una simile stagione. Fu proprio quando calcò il soffice manto verde di una radura che scorse un gruppo di ragazze intente a raccogliere fiori nei pressi di un lago. Una fra tutte rapì il suo sguardo: ella avvicinava alla bocca il petalo di una piantina di violette. I suoi capelli sprigionavano, ogni qual volta venivano mossi dal vento, un effluvio dolce che rievocava il profumo delle primule sbocciate, e le sue iridi al sole cangiavano colore, da un nocciola chiaro ad uno scintillante verde smeraldo. Ade venne rapito istantaneamente dalla bellezza di colei che aveva raccolto più fiori di tutti: Persefone. Sbucò a quel punto dalla vegetazione, e spaventò inavvertitamente le giovani, che scapparono via. Tutte tranne Persefone, rimasta impietrita e forse sorpresa dall’imponenza del dio. Ade si macchiò di un gesto deplorevole, seppur non propriamente violento: prese Persefone con sé.

Ella si dimenò con tutte le sue forze per sfuggire alla presa, ma Ade per adempiere del tutto a quel suo gesto, la strinse con decisione, fino ad affondare le mani nella candida pelle della giovane. Quello bastò per farla desistere dal dimenarsi oltre. L’urlo spaventato della fanciulla venne avvertito dalla madre, proprio la dea Demetra.

Persefone si figurò agli occhi di Ade come una sposa siffatta di una luce rinfrancante, un’aurora.

  • Estate

Trebbiaturadi E. Panzacchi

Meriggio. La macchina trebbia

ansando con rombo profondo.

Il grano, rigagnolo biondo,

giù  scorre. Nell'aria è una nebbia

sottile. Sogguarda per l'aia

il nonno, con faccia rubizza.

Nell'aria una rondine guizza

radendo la bassa grondaia.

E intanto, che ressa sul ponte

tra i mucchi di spighe e di paglia,

col sole che gli occhi abbarbaglia,

col sole che affuoca ogni fronte!

Le donne di rosse pezzuole

avvolgon le trecce sudanti.

Non s'odon né risa né canti.

Ma il nonno: - Su, allegre, figliole!”

L’estate prossima a giungere sulla Terra si interruppe ancor prima d’arrivare, ma si propagò paradossalmente nell’oltretomba. La portò con sé Persefone, che riscaldò il cuore freddo di Ade.

Quando si accorse dell’assenza della figlia, e scoprì il rapimento, furibonda, Demetra si recò da Zeus per reclamare giustizia. Nel frattempo, Persefone, smarrita e spaventata, si struggeva di tristezza fin quando si accorse dei modi gentili che il dio dei morti riservava verso di lei. La durezza con cui in principio la prese per condurla negli inferi pareva essere stata del tutto accantonata a favore di qualche lieve carezza. Ade offrì alla donna la corona da regina e attese con un sentimento che mai aveva provato prima nel suo cuore, l’amore, d’intravedere sul viso della sua prossima consorte un sorriso incantevole. Ade per la prima volta cedette alla più umana delle speranze, alla più fragile delle volontà auspicate: l’aspettativa che il suo amore potesse essere ricambiato. Ma Persefone era ancora una prigioniera, confinata in una fortezza tenebrosa senza che lo avesse mai chiesto. Non poteva innamorarsi di colui che le aveva imposto una costrizione, aveva bisogno di scorgere in lui un’umanità benevola.

Zeus, il dio dell’Olimpo, era conscio di non avere potere su Ade né alcuna giurisdizione sugli inferi. In aggiunta a ciò, non voleva far indispettire né l’illustre fratello né Demetra, e cosi declamò una proposta: se Persefone non avesse mangiato nessun frutto del regno del sottosuolo, sarebbe potuta tornare dalla madre. Spaventata all’idea che la figlia avesse già toccato cibo, Demetra cominciò a piangere. Dalle sue gote scesero lacrime grosse come gocce di rugiada. Di riflesso, gli alberi del mondo iniziarono a piangere anch’essi, ma invece che lacrime, lasciarono cadere giù foglie ingiallite e avvizzite. Gli occhi di Demetra, inumiditi dal suo pianto incessante, le appannarono la vista e nel mondo la nebbia sulla Terra e la foschia sul mare calarono giù dal cielo come testimonianza di una fredda sofferenza intima.

  • Autunno

San Martino di G. Carducci

“La nebbia agli irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.”

Quando Demetra scese nell’Ade per reclamare la figlia era già troppo tardi. Persefone aveva mangiato sei semi del frutto del melograno, ed era pertanto condannata a giacere nell’oltretomba per sempre. In preda alla disperazione, Demetra implorò Ade di lasciare andare la giovane, ed egli mostrò pietà. Persefone sarebbe rimasta per sei mesi con lui, e negli altri sei sarebbe tornata sulla Terra dalla madre. Era il barlume di umanità che Persefone attendeva di trovare nel proprio futuro marito. La ragazza accettò, finalmente sorrise e sposò Ade.

Quando Persefone si trovava con il marito, la madre si angustiava per lei, e dai suoi lamenti e dalle sue geremiade gli uomini ricevevano l’autunno e il freddo inverno, ma quando Ade lasciava andare Persefone per i successivi sei mesi, Demetra tornava felice, il suo cuore palpitante di gioia rinvigoriva la natura e il clima terrestre, regalando agli uomini la primavera e la calda estate. Tutto il contrario accadeva nell’oltretomba in una perenne contrapposizione che non avrebbe mai avuto fine: quando Ade trascorreva le sue settimane con la moglie, gioiva e avvertiva sulla sua pelle la lieve carezza di un vento primaverile e il dolce bacio del sole di fine giugno. Quando doveva salutare la sposa, tornava a sopportare la malinconia di un autunno stanco e l’asprezza di un inverno di gelo colmo di solitudine. Quanta importanza recava nel cuore di un marito il matrimonio, e nel cuore di una madre la vicinanza famigliare…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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«Signore e signori buonasera! Comincio col darvi una notizia molto importante: ai tempi di Socrate non c'era la televisione. Proprio così, non c’era! E voi vi chiederete: "e che facevano i greci la sera, dopo cena?" Ascoltavano i miti.»

Questa frase venne pronunciata da Luciano De Crescenzo all’inizio della prima puntata della trasmissione “Zeus – Le gesta degli dei e degli eroi”. Era una garbata introduzione, un accogliente invito a prendere posto nel salotto della nostra casa, il quale per una ventina di minuti diveniva un tutt’uno con il salotto del Professor De Crescenzo. Curioso che lo scrittore napoletano tenesse a precisare che al tempo dei greci la televisione non ci fosse. Come potevamo non saperlo?! La simpatica esplicitazione aveva una particolarità, legata al fatto che De Crescenzo in quel preciso istante stava parlando di un’epoca così lontana, in cui la televisione non poteva esserci, e lo faceva proprio mediante un mezzo televisivo. Luciano De Crescenzo, seduto comodamente in poltrona, mentre reggeva sulle sue ginocchia un grosso tomo che con ritmata frequenza sfogliava, vestiva le immaginarie vesti di un cantore greco. De Crescenzo, per il pubblico italiano, quando il sole tramontava e la sera era oramai alle porte, diventava un moderno Omero. Un narratore che conferiva alle proprie parole il peso di una valenza scritta, impressa su di un foglio immacolato, quale poteva essere la mente di un ascoltatore che si apprestava a trarre informazioni da disquisizioni su di un argomento che non conosceva. De Crescenzo divulgava attraverso il potere “catturante” e “seduttivo” di una scatola rettangolare da cui fuoriescono suoni e immagini, e con essa valicava il limitare di una camera chiusa, entrando con la gentilezza di un affabulatore e con la signorilità di un maestro che ricava gioia nel trasfondere ciò che sa ai suoi allievi, di qualunque età essi siano.

Se un tempo la televisione non c’era, il popolo greco veniva intrattenuto dai miti che ne stimolavano la fantasia, alla pari di sequenze immaginate. De Crescenzo sfrutta il potere affascinante e persuasivo dell’invenzione per diffondere il verbo di una religione arcana.

De Crescenzo seguitava a paragonare il medium televisivo al racconto mitologico. I serial più articolati che venivano trasmessi in quegli anni, nelle loro trame avvincenti e imprevedibili, non si discostavano poi di molto dalla complessità della mitologia greca. Il mito greco era una narrazione strutturata in molteplici “episodi” che potevano cessare improvvisamente con quello che noi oggi definiremmo cliffhanger (colpo di scena) e condannare gli ascoltatori a giacere nel limbo di un’incertezza che sarebbe perdurata fino al giorno successivo, quando l’aedo lo avrebbe ripreso, come fosse stato un “arrivederci alla prossima puntata”. Una similitudine azzardata, direte voi lettori, ma che rende bene l’idea su come i greci si trastullassero nei loro momenti di noia. De Crescenzo affermava ironicamente che il mito più era corposo e di lunga durata più traeva vantaggio il narratore. Dividere la storia in svariate sezioni che andassero raccontate in altrettanti giorni garantiva al cantore la possibilità d’essere invitato per il medesimo numero di cene richiesto per completare il racconto. Dodici fatiche di Eracle equivalevano a 12 cene. E i cantori se piegati agli stenti della miseria potevano nutrire il loro stomaco in egual misura di come nutrivano la mente di chi ascoltava il loro arguto proferire. Ne andò di mezzo il povero Ulisse, che non riusciva in alcun modo a trovare la via di casa e a raggiungere la sua amata sposa a Itaca perché Omero aveva l’assoluto interesse a prolungare il racconto. Più durava la storia più inviti a cena avrebbe rimediato.

Intendiamoci, cari lettori, quella di De Crescenzo era una descrizione volutamente provocatoria, adusa a rendere simpatica l’idea di un “cantastorie” furbescamente opportunista.

Tali aneddoti costituivano la bellezza di quel programma, il modo in cui il professor De Crescenzo istruiva i suoi “alunni” di tutta Italia, impartendo lezioni con la genuinità di un saggio maestro dalla barba bianca e brizzolata che ama rendere semplice ciò che apparentemente non lo sembrerebbe affatto. Similmente a quanto fece l’indimenticabile maestro Manzi agli inizi degli anni ’60, quando educava con l’amorevole cura di colui che era disposto a servirti una nozione o un fondamento grammaticale come fosse poggiato su un cucchiaino d’argento e pronto ad essere portato alla bocca per venire “fagocitato” e pertanto “appreso” in un sol boccone, così De Crescenzo teneva le sue lezioni di mitologia con un linguaggio amicale, buffo, gradevole, di certo fruibile e piacevolmente interessante. La mitologia greca veniva così trattata in tutte le sue più svariare rappresentazioni. Persino chi non provava alcun interesse per una simile trattazione, udendo quei racconti non poteva che restarne rapito, affascinato, e sviluppare un sentimento d’ammirazione nei riguardi di una cultura così raffinata come quella greca.

Ma andiamo ancor più nel dettaglio. “Zeus – Le Gesta degli Dei e degli Eroi” venne mandato in onda dalla Rai negli anni Novanta, e fu un programma prodotto da Mario Orfini e Giovanna Romagnoli. Ogni puntata si apriva con una maestosa panoramica circolare dello splendido quadro del pittore Giulio Romano, custodito al palazzo Te di Mantova. Era una sorprendente raffigurazione della volta celeste, l’Olimpo pullulante di divinità che poggiavano i loro immortali corpi su nuvole di bianca consistenza. Questo moto circolare si apriva sulle siluette, immortalate in una posa plastica e d’immane bellezza, di Zeus ed Era. Il padre degli dei era intento a scagliare le folgori dal cielo, ed esse erano state dipinte come grosse criniere dorate, avvolte da scariche elettriche.  Il giro terminava nuovamente sulle figure del Re e della Regina degli dei, per poi progredire più in alto nella visione e soffermarsi in dissolvenza su di un’aquila con le ali spiegate.

De Crescenzo da sempre si è interessato a questo tema, tant’è che i miti greci hanno rappresentato il filo conduttore di molte sue opere pubblicate. Per tutta la durata della serie televisiva lo scrittore racconta le vicende in chiave umoristica, con una buona dose d’ironia, in una cornice prettamente teatrale. Lo studio dello scrittore era eterogeneo, una scrivania era disposta centralmente nella stanza ed era la postazione prediletta dal professore, sui cui sedeva e cominciava il suo racconto. Alle sue spalle, una libreria adornata con pile di magnifici libri posti in posizione verticale, dava lustro ai lati della scenografia. Centralmente, poco al di sopra del volto del maestro, solitamente, trovavano posto quattro piccoli dipinti, illustrati dai curatori del programma, che servivano da supporto al mito che da lì a poco sarebbe stato trattato. Tali quadretti cambiavano di episodio in episodio, ed erano cinti da ghirigori dorati. Gli angoli della scena erano impreziositi da due busti marmorei di stampo greco, che, a seconda dell’argomento narrato, mutavano fisionomia. Il busto a cui De Crescenzo prediligeva rivolgersi aveva i caratteri somatici di Socrate.

Sulle pareti laterali, anche i quadri venivano opportunamente vagliati e posizionati di volta in volta per fungere da mutevoli raffigurazioni dei variegati miti. Quelle calde pareti traspiravano sapienza, e quegli scorci ravvicinati emanavano il gusto per l’antico. La zona più appartata dello studio conteneva alcune poltrone e anche un televisore. De Crescenzo, tuttavia, non si limitava a raccontare staticamente le proprie storie all’interno dello studio. Spesso girava all’esterno, portava i suoi telespettatori a visitare sale di museo e a scoprire statue antiche, in un viaggio di formazione attraverso le bellezze paesaggistiche, scultoree e di contenuto del mondo greco.

Tutta la serie era organizzata secondo un’attenta progressione narrativa. Le gesta degli eroi e le inclementi decisioni degli dei sono scandite con estrema naturalezza sin dalle prime battute. Dopo essere partiti con i racconti sulla creazione del mondo e sui miti degli dei e le imprese degli eroi, si continuava poi con i miti riguardanti le grandi storie d’amore e si terminava con i racconti dell’Iliade.

Quando la serie terminò, venne raccolta e messa su supporto magnetico, nonché distribuita in edicola e suddivisa in quattro gruppi d’appartenenza:

  • I miti degli Dei
  • I miti degli Eroi
  • I miti dell’Amore
  • I miti della guerra di Troia

Ciascuno dei gruppi constava di un cofanetto con due videocassette e un libro a fumetti (24 volumi cartonati in totale) di approfondimento dell’argomento trattato, corredato di citazioni, aneddoti e curiosità. Con questi fumetti, lo scrittore raccontava nuovamente il mito facendolo vivere attraverso il disegno e lo sviluppo su "tavolozza".

La mitologia in senso generale spesso viene vista come una matassa difficile da dipanare. I fili degli innumerevoli racconti si intersecano, si aggrovigliano e si disperdono in essi stessi. Il complesso dei miti e delle leggende che l’antichità ha intessuto intorno alle creature eccellenti del mondo, gli dei e gli eroi hanno da sempre affascinato studiosi di ogni tempo, suscitando in loro interesse e curiosità.

De Crescenzo col potere della parola ci conduce per mano nel mondo sconfinato dei miti, ci fa viaggiare all’interno delle imprese degli eroi, tra vicende di gente non comune, in una realtà fittizia, creata dalla fantasia greca, ma sempre presente e ancora magicamente viva e palpitante. Le loro imprese e le loro sofferenze hanno significati profondi, radicati in un mondo e in una cultura millenari.  Le gesta, le fauste imprese, così come la gloria, gli amori, ma anche i patimenti e gli affanni degli eroi, le pagine narrative e di riflessione della letteratura greca sono spesso come le teche di una mostra, di un’esposizione, sia pure pregiata, unica, ma comunque astrusa da comprendere. E’ necessario quindi rendere tutto accessibile, di facile comprensione, goduto da ciascuno di noi.

In tutto questo c’è riuscito appieno Luciano De Crescenzo, che con un linguaggio semplice ed essenziale, alla portata sia della persona informata che del dotto, così come pure nei confronti dell’uomo della strada ha reso interessante ciò che per alcuni poteva risultare erroneamente noioso.

Nel viaggio ipotetico di De Crescenzo si scorgono sempre luoghi sconosciuti, s’incontrano genti nuove, si viene a conoscenza di storie, leggende e tradizioni provenienti da ogni angolo remoto della Grecia. Sarà per il fruitore del mezzo televisivo un continuo scoprire, appropriarsi di nuovo scibile, ma per qualcuno sarà anche un rivisitare, con occhio diverso, quelle realtà storiche e di sapere che già conosce.

I miti contengono un patrimonio di saperi, regole morali, modelli di comportamento, conoscenze che vengono prima di qualsiasi altra elaborazione concettuale.

Il lavoro di De Crescenzo fu sublime, egli rese il trasporto di un’informazione come fosse un lascito, un meraviglioso simposio dialogico tra un parlante e colui che avrebbe fatto proprie quelle parole.

Le musiche, come fossero composte da un suonatore di lira, spesso accompagnarono i passi del mito esternato vocalmente, sorreggendo le parole riguardanti tali bellezze antiche e supportandole a fluire nel cielo, e giungere fino alle costellazioni che tutt’oggi recano il nome dei protagonisti dei miti e a incastonarsi tra il firmamento dell’immortalità. Sinfonie e versi donati al sentimento e alla ragione.

Quella di “Zeus – le gesta degli dei e degli eroi” fu arte allo stato puro, un’eloquente messa in scena narrativa e d’apprendimento, che poggiava sulla bellezza della semplicità, del racconto perpetrato vocalmente per intrattenere gli ascoltatori e per dilettare il sentimentalismo e la razionalità, per riscaldare il cuore e accarezzare la mente.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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