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"Wade Watts/ Parzival" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il logo della “Warner Bros”, gradualmente, si dissolve sino a scomparire del tutto dallo schermo, e le luci della sala cedono il passo al buio. Nel momento in cui i titoli d’apertura si materializzano, una musica riecheggia nell’aria. La musica di “Ready Player One” risuona con compassata “cadenza”, come se non volesse farsi udire in un ritmato crescendo. Non si appresta neppure a far “rintoccare” le eteree melodie, prodotte a volume basso, come a non voler dare l’idea di provenire da una zona remota, dalla quale, man mano ci si porti vicino si riesce a sentire, nel ritmo coinvolgente, al massimo del proprio suono. La musica, in “Ready Player One”, si propaga con un’intensità tale da coinvolgere istantaneamente lo spettatore. Il brano in questione è una canzone molto celebre: si tratta di “Jump”, uno dei maggiori successi dei Van Halen.

Quando “Ready Player One” inizia a mostrarsi in tutta la sua crescente spettacolarità, sarebbe opportuno lavorare di fantasia. Con un po’ d’immaginazione, ci si può trovare a teatro, nel momento in cui, con il sipario appena alzatosi, il coro dal Golfo Mistico si accinge ad “intonare” il primo tema musicale dell’Opera. La musica, si sa, quando dà il via al proprio scorrere ha, tra i suoi intenti, niente affatto celati, il desiderio d’introdurre rapidamente alle atmosfere del film tutti coloro che siedono in platea. Se la colonna sonora riesce a catturare in maniera immantinente le attenzioni degli spettatori il gioco è fatto. Continuando, ancora per poco, a immaginare d’essere a teatro, potremmo considerare “Jump” come una sorta di prologo decantato. Non soltanto per il valore nostalgico della canzone in sé, che naturalmente ci rimanda agli anni ’80, ma anche perché tale canzone ha nel titolo il profondo significato di “Ready Player One”. “Jump” recita l’estratto del ritornello, “Salta!” noi potremmo ribattere nella nostra lingua. E’ proprio nel coraggio di compiere l’azione del “saltare” che si cela la didascalica morale del lungometraggio di Steven Spielberg, tratto dal romanzo di Ernest Cline.

Accompagnato dal pezzo dei Van Halen, il film comincia, seguendo il protagonista, Wade Watts, mentre viene giù da un alto palazzo con l’ausilio di una fune. Tutto intorno a Wade appare avvilente. Il protagonista è circondato da scenari consunti, caotici, come se la città fosse diventata un enorme agglomerato di rifiuti, un gigantesco ricettacolo di resti d’auto sozzi. Nel lento procedere di Wade per toccare terra, notiamo come tutte le persone, confinate nelle loro case, siano immerse in una realtà virtuale giocabile mediante un visore e dei guanti aptici. Anche Wade sta per raggiungere la sua postazione preferita per varcare i confini di OASIS. Le strade e le vie sono sormontate da palazzi dall’aspetto fatiscente. Le scenografie riscontrabili in “Ready Player One” rimandano alle ambientazioni che avvolgevano il piccolo robottino Wall-E, il quale svolgeva, in solitudine e da 500 anni, l’attività di “spazzino della Terra”. Spielberg ci conduce nel 2045, in un futuro dispotico in cui la sovrappopolazione e l’inquinamento hanno depauperato la natura e reso angusta la vita sul nostro pianeta. Le grandi metropoli sono decadute e la realtà circostante non offre che un paesaggio avvizzito dall’avidità umana.

La sola via di fuga è costituita da OASIS, il mondo virtuale partorito dal visionario James Halliday. Alla sua morte, come lascito, Halliday ha dato il via a tre difficilissime sfide per poter recuperare altrettante chiavi. Chi vincerà le sfide, le quali per essere aggiudicate necessitano la risoluzione di enigmi riguardanti sempre una parte importante della vita di Halliday, erediterà OASIS, e con esso il valore economico della creazione, nonché l’assoluto controllo.

Parzival guida sempre la DeLorean. Potete leggere di più su “Ritorno al futurocliccando qui.

 

Ready Player One” è un immenso buffet traboccante di squisite prelibatezze da assaporare con gli occhi, ad ogni battito di ciglia. I nostri sguardi famelici vengono così saziati dalle continue sequenze d’immagini che scorrono come succulente portate servite a ritmi frenetici, e cucinate da uno chef di prima grandezza, che risponde al nome di Steven Spielberg. Il regista vuol render satolli gli stomaci voraci di tutti coloro che traggono appetito dalla meraviglia della fantascienza. Il lungometraggio è una poesia tradotta in un tripudio d’immagini, declamata attraverso un eccezionale utilizzo degli effetti speciali e, attentamente, parafrasata con “figure retoriche” personificate in “avatar” che sfilano, come fossero su di un’immensa passerella. Spielberg è riuscito a catturare e a racchiudere nel palmo della propria mano l’essenza del romanzo, infondergli in essa il proprio inconfondibile tocco. “Ready Player One” è un madrigale alla cultura popolare degli anni ’80 ma non si limita a tributare con malinconia, ma trasporta il passato e lo mescola al presente degli spettatori e al futuro stesso dei protagonisti della storia, generando una soluzione unica, come un affresco universale.

Cosa, alla fin fine, non rende tangibilmente visibile Spielberg nel suo film?! Egli traspone di tutto: il Tirannosauro, King Kong, Alien, la DeLorean di Ritorno al futuro, Joker, Harley Quinn, Batman, Batgirl, Robocop, persino sua maestà, il Gigante di ferro. Cosa si potrebbe dire, senza lasciarsi influenzare dalla sfera emotiva, su un film in cui vi è una lunga scena in cui combatte Gundam, fiancheggiato da quel Gigante buono concepito dalla mente di Brad Bird, contro il terrificante MechaGodzilla? E cos’altro si potrebbe aggiungere su un film che rilegge, sempre rispettando il proprio stile, il cult “Shining”, facendo sì che i propri personaggi vengano trasportati all’interno dello spaventoso “set” di Stanley Kubrick in una sequenza sbalorditiva? E’ arduo poter commentare, con giudiziosa razionalità, l’emozione pura emessa dallo stupore visivo dell’opera di Spielberg.

Il Gigante di ferro, protagonista dell’omonimo capolavoro d’animazione, riveste in “Ready Player One”, naturalmente, un ruolo eroico e audace. Potete leggere di più sul film “The Iron Giant” cliccando qui.

 

Ready Player One” possiede la forza indomita della natura selvaggia de “Lo squalo” e di quella preistorica di “Jurassic Park”. L’ultima pellicola di fantascienza di Spielberg fa filtrare, nei propri personaggi principali, quello stesso anelito di rivalsa che esortava i dinosauri a spezzare le catene imposte dagli uomini. Ancora, il film è permeato da quel senso d’adrenalinica avventura che la tetralogia di Indiana Jones ha sempre fatto emergere con impareggiabile maestria. La pellicola ha, altresì, nella bontà dei due protagonisti, Wade e Samantha, la dolcezza fiabesca di “E.T.”, e nel loro amore, la vena sognante di “Hook – Capitan Uncino”.  “Ready Player One” è, a mio parere, la quintessenza tributaria del cinema Spielberghiano, perché riesce a coniugare la magnificenza di quel tipo di sogno che Spielberg ci ha da sempre regalato, e per mezzo del quale trasformiamo, ogniqualvolta vogliamo, la quotidianità in una fantastica avventura, fatta di una impalpabile magia che tende sempre al lieto fine.

In “Ready Player One” Spielberg non cita e dissemina solamente, egli plasma una storia semplice ma avvincente, genuina ma al contempo capace di rilasciare un messaggio da apprendere. “Ready Player One” è un film vecchio stile. Pur potendo fregiarsi di un’estetica che non ha paragoni, e una narrazione calata in un contesto avveniristico, ricorda le pellicole di un tempo, con quel particolare taglio che soltanto Spielberg sapeva e sa dare. Si tratta di un’opera che mi ha riscaldato il cuore nell’egual maniera di come facevano i film che vedevo da bambino, quelli impressi sul nastro di una videocassetta. “Ready Player One” ha conservato la bellezza incontaminata di un film generato negli anni ’80 e ’90, quel genere di pellicole in cui gli eroi, giovani e avventurosi, salvavano il mondo, fronteggiando forze apparentemente incontrastabili e, spesso, incarnate negli adulti. Era proprio la genuinità della narrazione, la spontaneità dei personaggi e quel loro spingersi oltre, al di là delle limitazioni che venivano loro imposte da terzi, a farmi adorare questo genere di film. “Ready Player One” è un film imperdibile, un luna park compendiato tra i limiti scenici di una macchina da presa, un diamante da custodire gelosamente e da rimirare quasi con devozione.

Parzival così come appare con il travestimento alla “Clark Kent”. In “Ready Player One” i protagonisti citano la seguente frase di Lex Luthor, tratta da “Superman” del 1978: “Signorina Teschmacher, alcuni possono leggere Guerra e pace e pensare che sia solamente un libro d'avventure; altri leggono gli ingredienti su una cartina di chewing-gum e scoprono i segreti dell'universo.” Potete leggere di più su Superman cliccando qui.

Wade è un orfano, ha perduto il padre e la madre quando non era che un bambino, e convive con l’ingenua zia e la di lei ultima conquista, vale a dire un uomo rozzo e violento. Il protagonista di questa storia non ha amici, eccetto quelli che ha conosciuto nella realtà virtuale, senza però averli mai incontrati personalmente: tra questi il suo migliore amico, Aech. Anche per Wade il gioco virtuale rappresenta una via di fuga, un modo per estraniarsi dal deprimente mondo che lo avviluppa. Padroneggiando il proprio Avatar, che risponde al nome di Parzival (riferimento al cavaliere medievale dell’omonimo testo), Wade si immerge nella realtà virtuale di OASIS, conoscendola e rileggendola sempre come la sua sola casa. E’ anch’egli un esule che ricerca una mera possibilità di ergersi su di una società decaduta e egoistica. Se per Wade la realtà è un afoso e soffocante deserto, OASIS è l’incarnazione olografica e virtuale di un’oasi sorta su verdi radure, bagnata da acque limpide e cristalline e circondata da palme che si levano alte, attenuando, con il loro possente fusto e le loro fronde, i cocenti raggi del sole, facendo sì che si generi sul terreno un’ombra in grado di rinvigorire il corpo e ristorare il cuore.

Tutti vogliono fuggire dalla “verità” che appare sotto i loro occhi, e tutti anelano solamente a trasferire la loro coscienza in una divertente illusione. In OASIS, Wade incontrerà altri amici, dapprima li conoscerà soltanto coi loro avatar, ma in seguito li vedrà per come sono realmente. Tutti loro formeranno una squadra per conquistare le tre chiavi ma, soprattutto, per salvare OASIS dalle perfide angherie e dagli oscuri voleri del losco Nolan Sorrento, massimo dirigente della multinazionale IOI.

E’ proprio in quel mondo irreale, eppure così vivibile e al contempo così fantasticamente intellegibile, che Wade conosce la ragazza di cui si innamorerà, la quale risponde al nome fittizio di Art3mis. Parzival dichiarerà ad Art3mis il proprio amore, ma lei lo rifiuterà perché intimorita dal fatto che nella vita reale non si sono mai incontrati. Art3mis, il cui vero nome è Samantha, è una ragazza bellissima, ma timorosa nel mostrarsi per com’è realmente dinanzi a Wade. Ella ha sulla faccia una voglia che le contorna l’occhio destro e si protrae ancora, fino a occuparle un lato della fronte. “Sam”, come preferisce farsi chiamare, copre sovente quella parte del volto con una ciocca dei suoi capelli rossi. Quando Wade riuscirà finalmente ad incontrarla, ed entrambi non saranno più velati dall’illusione dei loro avatar, egli le accarezzerà il viso, spostandole delicatamente i capelli fin dietro l’orecchio, così da poterla vedere senza nulla che la nasconda. Wade non nota alcuna differenza, e seguita, come prima, a confessarle il suo amore. Questo perché nessun avatar, così come neppure una graziosa chioma di capelli rossi, può celare la bellezza ammirata con gli occhi di un cuore innamorato. E’ qui che si snocciola il primo significato di “Ready Player One”, l’importanza della realtà e del modo in cui percepiamo il fantastico. Wade non si era di certo innamorato di un avatar ma di ciò che l’avatar di Art3mis testimoniava, in verità, la personalità di Samantha. Una volta conosciutala, Wade può comprendere realmente quanto il vederla, il poterla sfiorare davvero con il tocco della sua mano siano possibilità superiori a qualsivoglia espediente tecnologico. Samantha afferma, inoltre, che col tempo tutti hanno dimenticato la delicatezza del vento, riscontrabile sull’epidermide quando esso soffia forte, o la dolcezza di un sole appena sorto che illumina tutto coi suoi raggi. “Rinchiudendosi” in OASIS, l’umanità ha perduto ciò che ancora può essere apprezzato nel vero mondo.

Questo verrà ulteriormente capito dai giocatori quando si appelleranno alle parole del creatore, Halliday. Egli ha vissuto tutta la sua vita nella paura, nel patologico timore, scovando un rifugio nei videogiochi e nelle proprie creazioni, fino a quando il tempo inesorabile non ha reclamato la sua esistenza. Halliday si era innamorato di una donna, Kira, ma non ebbe mai il coraggio di dichiararsi. Non fece il “salto”, quello stesso “salto” ripetuto dalla canzone con cui il film apriva il proprio corso. Ecco perché quel brano fungeva da prologo, perché anticipava il messaggio più importante: affrontare con ardore ciò che ci spaventa. Wade con Samantha compirà il suo primo salto quando balleranno con i loro avatar sospesi nel vuoto di una discoteca virtuale, e proprio danzando su quel suolo sospeso per aria egli le dirà di amarla. Infine, quando Wade trionferà, non cederà alla paura e adempirà il suo ultimo salto: baciare la donna di cui si è perdutamente invaghito. Acquisito il controllo di Oasis, Wade, con la sua squadra, ricorderà a tutti che la realtà virtuale è un regno di fantasticherie. Ma senza trascurare esso, dobbiamo anche tornare a prenderci cura della nostra Terra e della nostra unica realtà, che ha come assoluta ed ineguagliabile bellezza, l’essere…reale!

La fantasia, la speranza e l’immaginazione sono tutti elementi che giungono in nostro aiuto e con i quali dobbiamo reinterpretare la realtà che ci circonda, senza però sostituirla. Nulla può prendere il sopravvento sul reale…la limpidezza di un sogno da ammirare deve rendere migliore la vera realtà, mai capovolgerla. Ecco perché “Ready Player Oneè un tuffo compiuto da un trampolino posto ad una ragguardevole altezza; da lassù possiamo tuffarci in libertà, precipitare giù in un vortice apparentemente senza fine, fino a planare agevolmente a terra…su di un suolo soffice come una realtà fatta di sogni e verità.

Voto: 8,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Il Gigante di ferro" - Disegno di Erminia A. Giordano per CineHunters

Il Gigante di ferro” apre il sipario in una di quelle tarde serate in cui il cielo appare come un immenso tetto buio, una “Notte Stellatadai gorghi colorati, serpeggianti e infuocati, nella cui vastità brillano di luce propria le stelle del firmamento sconfinato. E’ una di quelle notti in cui ci si sente fortunati a venire al mondo per poter contemplare, dalla Terra, la grandezza del cosmo. E così, immaginando d'essere in quei luoghi, rannicchiati in noi stessi, perseguiamo a mirare la volta celeste e, presumibilmente, tergiversiamo in un dialogo introspettivo, ci interroghiamo in merito alla nostra sconfortante minutezza se osiamo paragonarci alla smisurata vastità dello spazio.  Improvvisamente, da quel cielo ottenebrato, viene giù un colossale gigante siffatto di ferro. E quella sensazione di smarrimento e di pochezza al cospetto dell’infinito tende ad accrescersi nell’attimo in cui ci troviamo davanti alla testimonianza incommensurabile di un qualcosa di vivo e senziente che proviene dagli angoli più remoti di quella immensa tavola scura. Sotto quel cielo stellato il Gigante viene a contatto col suolo terrestre e perpetua il primo degli incontri desiderati dal lungometraggio di Brad Bird, quello tra il maestoso titano e il piccolo spettatore. Uno spettatore quasi insignificante dinanzi a un cielo laconico in una notte inquieta…

Siamo in piena guerra fredda, periodo in cui in America si percepiva e si viveva costantemente un esasperato allarmismo dovuto alla presunta “minaccia” perpetrata dal nemico, da quell’Unione Sovietica iconograficamente immaginata come implacabile rivale. Il pericolo della guerra nucleare aleggiava come uno spettro scarnificato sulla coscienza di ogni singolo cittadino russo e statunitense. In uno scorcio paranoico come questo precipita “il Gigante”, un visitatore venuto dai meandri più remoti. Dopo un violento contatto con dei cavi elettrici che lo folgorano, il Gigante, un enorme Robot realizzato interamente in ferro, non rammenta più quale fosse la sua missione iniziale. Smarrito e confuso, il Gigante si nasconde in una foresta, mimetizzandosi tra gli alberi secolari che lo proteggono dagli sguardi indiscreti. Un giorno, un bimbo di nome Hogart scopre il colosso di ferro nascosto tra la fitta vegetazione. Come avverrà in "E.T. – L’extraterrestre” di Steven Spielberg, l’amicizia che nasce tra due esseri così diversi è lo sbocco narrativo in cui vengono edificate le salde fondamenta su cui poi si ergeranno le successive tematiche dell’opera.

Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Il Gigante di ferro” nella sua poetica malinconica è la testimonianza effettiva di come l’animazione sia un'espressione artistica e cinematografica universale, la quale già da tempo doveva cominciare ad allontanarsi e di molto dai beceri e ignoranti cliché che la riducevano a mero intrattenimento infantile. In primo luogo, la mastodontica dimensione del personaggio principale è l’aspetto esteriore prescelto per instillare nel pubblico quel velato senso di frivolezza cui facevo cenno. Lo spettatore è piegato al cospetto di un essere di tale, ragguardevole, grandiosità. Nella comprensione delle rispettive diversità fisiche, si delinea l’avvicendamento emotivo tra Hogart, che non è altri che il nostro riflesso residuato sullo schermo, e il Gigante. Siamo noi, nelle nostre diversità interazionali, a fare amicizia con questo essere attraverso l’agire di Hogart.

Le animazioni con cui Brad Bird scelse di tratteggiare il film sono tinte pastello, chiare, e dai colori ben delineati; le scenografie retrò aiutano a far rivivere la metà del Novecento, garantendo una resa scenica affascinante e dal sapore nostalgicamente critico. La massima resa espressiva del Gigante è racchiusa nella profondità dei suoi occhi tondi e colmi di volontà comunicativa. Gli occhi del Gigante somigliano a due grosse lune piene argentate, incastonate su di una superficie metallica, i quali tendono a dischiudersi, ad allargare la propria circonferenza, e a schiarirsi, come delle palpebre destatesi dal torpore e sovrabbondanti di calore empatico. Il Gigante, oltre a far traspirare la dolcezza protettiva del suo sguardo, parla con una voce compassata e meccanica, con la quale impara a esprimersi, a conoscere le bellezze del mondo circostante, della vita, e di ciò che comporta essere vivi. In questo relazionarsi, emerge il tema della fine, del vivente che abbandona il proprio corpo, reso con un tocco di puro lirismo nella scena della morte del cervo.

Il Gigante assiste impotente all’uccisione di un cervo; poco prima lo aveva mirato muoversi tra le verdi radure. Il Gigante si interroga sull’ineffabilità della vita, capace di arrestarsi e cessare in un singolo istante. “Le anime non muoiono” afferma Hogart - rincuorandolo. Tutti gli esseri capaci di provare sentimenti e che vivono di amore e affetto nutrono la propria anima, l’essenza profonda e astratta che perdura anche dopo la morte.

Ecco che il Gigante indugia in una riflessione intima, domandandosi se lui stesso abbia ricevuto il dono di recare in sé, tra i suoi ingranaggi meccanici, un’anima. La certezza che la morte possa sopraggiungere così perentoriamente e inaspettatamente turba questo colosso di ferro. E’ la contraddizione più profonda dell’opera di Brad Bird: la macchina che prova paura per la propria dipartita. Quest’essere costruito con materiale ferroso teme infatti per la propria incolumità. Sotto questa astratta epidermide di metallo batte un immaginifico cuore pulsante paragonabile al sentimento umano. E’ chiaro come l’intelligenza artificiale sia una problematica preminente dell’opera di Brad Bird, eppure, si va oltre questo iniziale concetto, amplificando il tutto e trattando al contempo la sfera intellettiva e emozionale della macchina.

"Tu hai un'anima. E le anime non muoiono."

Un giorno accade l’inaspettato, quando Hogart scopre ciò che non poteva in alcun modo prevedere. In verità, il Gigante non è altro che un’arma, creata al solo scopo di arrecare distruzione. Di fatto, ogni qual volta Hogart punta un’arma giocattolo contro il Gigante, egli reagisce istintivamente senza ricordare cosa ha compiuto, folgorando chi gli si ponga davanti. Sebbene a conoscenza di questa atroce verità, Hogart seguiterà a fare di tutto per proteggerlo, perché cosciente della bontà che alberga nell’animo del Gigante, capace di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Si delinea così l’altra analisi dell’opera, quella in cui la macchina, a differenza dell’uomo, appare precostruita da una volontà non propria, quanto appartenente al proprio ideatore e costruttore. Il “dio” che ha donato forza e volontà di muoversi al Gigante l’ha fatto per farne un veicolo di morte. Sebbene tema d’arrecare sofferenza, esso è stato creato per generare annientamento. Il Gigante, in quanto robot, dovrebbe seguire le direttive impresse nei suoi meccanismi. Ne viene meno il libero arbitrio, prerogativa umana, e la possibilità di poter scegliere ciò che si vuole essere. Il Gigante di ferro è un disperato prigioniero che anela alla libertà assoluta. Libertà di vivere, libertà di divenire ciò che desidererebbe essere, libertà di morire. Anch’essa è una forma assoluta di libertà. Quando le forze militari americane scopriranno l’esistenza di questo enorme visitatore dello spazio, temendo che sia una minaccia concreta, non potranno che attaccarlo. E infatti, quando la situazione diverrà insostenibile, e in un atto di pura follia, le forze statunitensi sganceranno la bomba sulla città in cui si trova il Gigante, esso sceglierà volutamente di compiere l’estremo sacrificio per scongiurare un olocausto nucleare.

Tu sei chi scegli e cerchi di essere.” è la frase pronunciata da Hogart e che racchiude la morale del film, il tema della scelta, quella che ognuno di noi deve compiere nel corso della propria vita. Scegliere da che parte stare, in cosa credere, per cosa battersi e vivere. Il Colosso in ferro, nei suoi ultimi giorni di permanenza sulla Terra, aveva imparato a conoscere Superman, notando la sua sgargiante figura protrarsi in volo sulla copertina di un albo a fumetti. Come Superman, anche il Gigante è precipitato sul pianeta, forse da un mondo diverso, e come l’ultimo figlio di Krypton non conosceva inizialmente le proprie origini e quale era il suo scopo nella vita. Il Gigante per sua aspirazione andrà contro quella stessa “natura” che lo ha creato come una macchina distruttrice, diventando un eroe invece che un’arma. Il Gigante assurge a quel senso ineffabile di libertà. Una libertà ricompensata con il prezzo dell’esistenza, ma che si concretizza come un sacrificio necessario per urlare al mondo e a quel cielo dal quale giunse, il ferreo volere assoluto di poter essere ciò che si sceglie e si cerca di divenire; per l’appunto, di “essere”, senza alcuna imposizione ordinata da padroni e creatori.

Quando il missile nucleare è prossimo a discendere sulla città, il Gigante, poco prima di volare via, si commiata da Hogart. Se il piccolo E.T. quasi implorava Elliott di seguirlo, per poi congedarsi da lui ricordandogli che sarà sempre lì, nel suo cuore, il Gigante, invece, può solamente limitarsi a avvisare Hogart che non potrà raggiungerlo e che quel suo estremo sacrificio avverrà grazie a ciò che il piccolo gli ha insegnato: la vera possibilità di poter decidere lui stesso quale sarà il suo destino. Il suo volo nel cielo, con le braccia spianate verso l’orizzonte, ricorda l’eroico volo di Superman. Ispirato dal più grande eroe dei fumetti, il Gigante, poco prima di intercettare il razzo, si domanda cosa ha scelto di diventare: risponderà sommessamente “Superman”, prima di chiudere i suoi occhi, accennare un sorriso e morire.

Il finale è una miscela catartica in grado di unire la tragedia alla speranza. Un atto purificatore che tocca il cuore di ogni spettatore in una delle scene più emozionanti della storia del cinema. La morte del Gigante è una sequenza dalla potenza emotiva ineguagliata. Lacrime e singhiozzii possono ripresentarsi ogni qual volta l’immagine del sacrificio viene richiamata alla mente. Come gli ultimi versi di una toccante poesia, le rime finali vengono così trascritte su di un foglio bianco, il cui inchiostro nero sembra sbiadirsi tra le lacrime che cadono giù copiose dagli occhi di un lettore inconsolabile.

“Il Gigante di ferro” esterna, altresì con cristallina evidenza, il tema del diverso, qui accompagnato da una feroce critica sociale personificata in Mansley e nei soldati americani pronti a tutto pur di annientare un pericolo per lo più idealizzato, nato e alimentato dai pensieri avversi contro ciò che non si conosce. Il monumento finale che verrà dedicato al Gigante, meritevole di aver salvato una città intera con la sua morte, non sarà altro che il simbolo dell’ipocrisia umana, capace prima di distruggere e solo dopo di onorare ed esaltare.

“Il Gigante di ferro” non è soltanto uno dei più bei film d’animazione di ogni tempo, ma è oggettivamente uno dei film più riusciti di sempre. Perfetto nella sua scorrevolezza, “Il Gigante di ferro” è un capolavoro che dovrebbe, a mio giudizio, perdurare a rimanere sul podio dei primi tre più bei film d’animazione di sempre. Come spesso accade per le opere più meritevoli non conobbe da subito il successo sperato tra il pubblico. Alla sua uscita nei cinema fu un tonfo commerciale, rumoroso e assordante. Una pubblicità pressoché inesistente minò il valore del film che non riuscì a raccogliere, in termini di guadagno, quanto avrebbe meritato.  A distanza di poco tempo dal suo fallimento nelle sale cinematografiche, “Il Gigante di ferro” iniziò a raccogliere un vastissimo seguito di culto. D’altro canto il film ottenne il plauso universale della critica, ricevendo recensioni entusiaste, e dominò agli Annie Award, gli “Oscar dell’animazione”, vincendone 9, record assoluto per quegli anni. Il lungometraggio si aggiudicò, inoltre, il premio Bafta come miglior film e fu nominato al premio Hugo per la migliore opera drammatica.

“Il Gigante di ferro” è quel genere di film che nonostante si possa vedere e rivedere per anni e anni, continua a emozionare, a far scendere una lacrima e a strappare un sorriso con la stessa intensità del primo giorno. Spesso ci si interroga se sia più facile far ridere o far piangere. La lacrima può giungere dopo una profonda immedesimazione verso coloro che soffrono, il sorriso, dal canto suo, può invece nascere in modo sincero e spassionato anche dalla speranza e dalla piccola certezza che anche quando le cose sembrano finite nel peggiore dei modi, possono sempre cambiare. Come si può giudicare un film che riesce in entrambi i casi?

E nell’ultimo atto, sarà proprio la speranza a riaccendersi. I resti del Gigante, disseminati lungo tutta la Terra, cominciano a prendere vita e a muoversi verso i ghiacciai dell’Islanda. La camera prosegue il suo moto fino a giungere in queste lande ghiacciate, dal cui terreno di Langjökull staglia la sagoma del viso del Gigante intento ad assemblarsi. D’un tratto i suoi occhi si riaprono al mondo e il suo viso rilascia un caldo sorriso. Quei suoi grandi occhi bianchi tornano a risplendere e il cielo stellato viene nuovamente rischiarito da quelle lune d’argento.

Voto: 10/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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