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Era il settembre del 2011 quando nei cinema italiani campeggiava un cartonato promozionale, nel cui centro, a caratteri contenuti, vi era impresso un monito sinistro: “l’evoluzione diverrà rivoluzione”. Una Tagline accattivante, specie se combinata all’immagine che frastagliava dal basso e che finiva poi per occupare l’intero poster. Si trattava di Cesare, immortalato in una posa minacciosa, nell’attimo in cui era prossimo a sbattere con rabbia le nocche sul terreno. Si dipanava così il primo approccio visivo che il pubblico aveva con “L’alba del pianeta delle scimmie”, il primo capitolo di quella che sarebbe divenuta una delle trilogie più belle degli ultimi anni. Poco più di un lustro dopo quel primo, fatidico incontro che ho personalmente avuto io, ma credo così anche voi, con Cesare, la trilogia è giunta a compimento e l’ultimo tassello del puzzle ha trovato il suo posto prescelto su cui far combaciare le proprie scanalature e comporre la totalità del mosaico.

Scrivendo le mie sensazioni e il mio parere in merito a “The War – Il pianeta delle scimmie” non posso in alcun modo esimermi dal lasciar traspirare, in ognuna delle mie prossime parole, le emozioni provate dall’inizio alla fine della visione del film. Non vorrei limitarmi a dirvi se “The War” sia un buon o un pessimo film, né se a me, in maniera soggettiva, sia piaciuto o meno. Non sarebbe giusto e rispettoso nei confronti di un’opera che fa della complessità del proprio messaggio emotivo il fulcro del diletto dello spettatore. Per trattare di “The War” bisognerebbe anzitutto quantificare quanto riesca ad emozionare ognuno di noi, e solo in seguito dire se e quanto ci sia piaciuto. “The War – Il pianeta delle scimmie” è un’opera che va ben oltre una semplicistica dicotomia tra ciò che è bello e ciò che piace, perché risulta innegabile, anche per lo spettatore meno avvezzo ad apprezzare l’introspezione psicologica e caratteriale di un blockbster del genere, la quantità di sentimentalismo terso, riflessivo, tendente al lirismo che il film raggiunge e che riesce a rendere complementare al resto della saga. “The War” è un lungometraggio che induce all’analisi intima, essendo in grado di innescare un turbinio di sentimenti diversi in ognuno di noi. Il giudizio, di conseguenza, sarà ancor più soggettivo, poiché le scene introverse, quelle che dominano in silenzio, molti degli intensi minuti della pellicola, sono girate opportunamente per far indugiare ogni singolo spettatore a comprendere cosa il vedere quella determinata sequenza, stia generando in lui. “The War – Il pianeta delle scimmie” indaga quindi la bellezza riuscita di un film nella soggettività di ognuno di noi; del resto è ciò che avviene quando si fa dell’emozione analitica il moto dell’intera narrazione.

(Attenzione pericolo Spoiler!!!!)

  • Bugia scimmiesca

“The War” è una grande bugia. Dopotutto fu menzognera anche quella Tagline del film con cui aprivo il mio pezzo. Il terzo capitolo della saga fa sì che venga presentato come un film di fantascienza a carattere guerresco, che pone su due fronti opposti uomo e scimmie. Il che, sarebbe anche vero, se non fosse che la guerra non è che una dannazione cui Cesare e il suo popolo non possono sottrarsi pur desiderandolo con tutte le loro forze. Sono trascorsi alcuni inverni dal tradimento di Koba, lo scimpanzé che minò l’integrità della popolazione di Cesare mettendo in moto una reazione a catena che avrebbe portato allo scoppio della guerra. Cesare, stanco e affaticato dagli anni di stenua sopravvivenza, deve affrontare una nuova minaccia, rappresentata dal Colonnello McCullough (un despotico Woody Harrelson) a capo di un esercito votato alla distruzione delle Scimmie intelligenti. Durante un blitz notturno, il Colonnello uccide senza pietà la moglie e il figlio di Cesare, scatenando in lui un desiderio di vendetta.

Come scrivevo, “The War” è una grande fanfaluca, poiché se vi aspettate da questo momento un film di guerra, di costante azione travolgente e di cruente battaglie che condurranno allo sterminio della razza umana e alla nascita compiuta del pianeta delle scimmie, beh, vi sbagliate. Siete stati ingannati. Siamo stati ingannati. Già, e io direi anche: “Per fortuna!”. Ancora una volta il regista Matt Reeves fa della meditazione e della riflessione drammatica l’anima del suo film, estremamente comunicativo nei momenti in cui lascia che siano i gesti, gli atteggiamenti, gli sguardi e le movenze a dire più di quanto le parole potrebbero mai infondere significato a vocali e consonanti, a frasi e a interi periodi. Il lungo pellegrinaggio di Cesare, dalla sua dimora fino al centro militare in cui alberga il Colonnello, è l’ultima tappa di un ben più corposo viaggio iniziato in quel 2011, quando Cesare nasceva sotto i nostri occhi e veniva allevato tra le amorevoli cure di un padre umano. Quest’ultima traversata, compiuta per la maggior parte del tempo senza la colonia che a lui era così devota, e soltanto con la presenza del fraterno amico Maurice, Rocket, e una nuova, bizzarra conoscenza dal nome di Scimmia Cattiva, è lo step finale verso il raggiungimento della meta esistenziale di questo condottiero. Il popolo di Cesare, privato di un luogo sicuro in cui vivere, è costretto a spostarsi, a vagabondare senza una meta apparente quando l’eco del conflitto apocalittico fa da scorcio a tutto ciò che contempla il loro cammino. Un incedere progressivo e stoico, senza un mentore a dar senso al loro moto. Cesare li ha infatti lasciati per incamminarsi su una via da cui si aspetta di non tornare mai più.

  • Scimmie evolute, uomini regressi

Durante questa sua traversata avvenuta in pieno inverno, tra la coltre bianca nel terreno e la neve che fiocca giù copiosa, Cesare seguita ad essere alimentato dal suo odio. Lo spettro di Koba turba l’animo del protagonista, terrorizzato all’idea di diventare egli stesso colui che ha condannato le scimmie alla guerra. Durante tutto il film si avverte questo mutamento avvenuto nella psiche di Cesare, nato come eroe, guida, divenuto in seguito un capo e un difensore. L’aver abbandonato il suo popolo per inseguire ardenti voleri di vendetta sembrerebbe far pendere l’ago della bilancia verso una metamorfosi in ciò che fu la sua nemesi. Un fatale destino a cui Cesare scamperà ancora una volta grazie alla sua bontà di cuore, che tornerà a battere con la forza di un tempo anche grazie alla vicinanza di Nova, una piccola bambina scampata alla morte per merito di Maurice. Il rapporto di comunanza e comprensione tra Cesare e questo “cucciolo” di essere umano permette al protagonista di comprendere quanto l’uomo non debba necessariamente essere avviluppato da un odio profondo come quello nutrito da Koba, ma che potrebbe ancora esistere una integrazione, o per meglio dire, una tolleranza a debita distanza tra il popolo delle scimmie e ciò che resta della razza umana. E’ un viaggio purificatore quello adempiuto da Cesare. In “The War” le tematiche filosofiche ed esistenzialiste raggiungono vette poetiche di sublime e adamantina magnificenza. Le mirabili cure con cui Maurice alleva la dolce infante a cui darà il nome di Nova, (splendido omaggio al cult del 1968) e le toccanti sequenze in cui un gorilla ornerà il viso della piccola inserendo tra i suoi capelli un fiore rosa, toccano le corde del cuore fino a farle risuonare di una musica triste e malinconica.

E’ l’atto comunicativo tra due mondi che si stanno rovesciando a vicenda. Le scimmie evolute e dotate di fine intelletto e di parola sembrano elevarsi rispetto agli uomini la cui malattia contratta li sta regredendo, facendo loro perdere il dono più grande che la natura abbia mai elargito: la facoltà di parlare. La piccola Nova è muta, si esprime con il linguaggio dei segni imparato da Maurice, il quale invece sta cominciando a parlare fluentemente. Una contrapposizione che però, in questo caso, non erge le scimmie al di sopra degli uomini, anzi. Esse si pongono al pari livello della piccola bambina, come fossero due razze del tutto somiglianti e non solo imparentate come afferma la teoria dell’evoluzione. Qui avviene di fatto un’evoluzione al rovescio, ma come dicevo, che lascia intravedere un aspetto paritario.

Reeves fa delle sue scimmie creature complesse, dalla psicologia ricca e variegata ma anche per lo più buone e generose. Gli uomini, invece, sono figure nette e distinte, mai ambigue, o buone o cattive. Probabilmente il solo difetto del suo prodotto. Tuttavia, questa distinzione chiara, permette alle scimmie di rendersi compassionevoli e rispettose delle persone dolci e buone come la piccola Nova.

  • L’avete distrutta, maledetti per l’eternità, tutti!

Nel celebre explicit de “Il pianeta delle scimmie” del 1968, Charlton Heston urlava al cielo la rabbia e la frustrazione provata nel momento in cui comprendeva quanto la “bestia” uomo avesse arrecato morte al suo stesso fratello, condannando la Terra alla distruzione. Quasi cinquant’anni fa, ci era stato anticipato ciò che sarebbe successo in “The War”. Non sarebbero state le scimmie a condurre una vera e propria rivoluzione che avrebbe soverchiato la razza umana e piegata al proprio cospetto. Le scimmie, invero, ereditarono la terra. Furono gli uomini a distruggersi tra loro. Quello che veniva carpito nel classico del 1968, qui viene reso in modo tangibile in pellicola e avviene sotto i nostri occhi. La sagoma del Colonnello, despota folle e implacabile, che crede di guidare il suo esercito in una guerra santa per epurare la Terra dall’abominio dell’evoluzione scimmiesca e della regressione umana, (egli ordinerà l’assurda strage di ogni uomo che lentamente disimparerà a parlare) è la personificazione di ciò che condurrà gli uomini alla distruzione. Nel disperato tentativo di fermare il suo insano operato, la guerra che scoppierà tra gli uomini mieterà le restanti testimonianze della stirpe, di quella che un tempo fu la razza umana.

E’ questo il più grande inganno del film. Un inganno studiato ad arte fin dal principio, da quando fu scritto “l’evoluzione diverrà rivoluzione”. In “The war” la rivoluzione non avverrà perché come previsto non erano le scimmie a doverla condurre.  Le scimmie non si limitano ad essere spettatrici di questo conflitto, quanto vittime dell’agire dispotico del tiranno di turno. Verranno schiavizzate e con esse anche Cesare verrà deportato in un campo di concentramento, fino al momento in cui il protagonista troverà la sua personale vendetta col volere del destino.

  • La trilogia de “Il pianeta delle scimmie”

Questa saga reboot de “Il pianeta delle scimmie” si era prefissata l’obiettivo di raccontare una nuova storia, omaggiando quella che fu narrata un tempo. Questo inedito racconto è riuscito ad andare oltre le più rosee aspettative, imprimendo alla mitologia della saga una rinnovata linfa vitale, ancor più drammatica ed evocativa dell’originale. Gran merito della resa scenica di Cesare è di Andy Serkis, vero maestro in questa forma di arte attoriale e interpretativa. I tre capitoli possono essere visti come l’evoluzione psicologica e fisica del protagonista Cesare, un progressivo accrescimento spirituale e mentale che avviene attraverso il cambiamento dell’atmosfera e dell’azione stilistica avvenuto nei tre film. Il primo era un lungometraggio a carattere carcerario, in cui Cesare sperimentava una forma di schiavitù, di prigionia. Dalla sua genuflessione cominciò l’innalzamento. Il secondo capitolo, ancor più cupo, assunse i contorni del grande film fantascientifico e bellico. Cesare da ribelle divenne guida e voce di un popolo in un mondo post-apocalittico. In quest’ultimo capitolo, ancora un nuovo cambiamento condurrà il primate ad ascendere al proprio destino di messia di una nuova razza dominatrice del pianeta.

  • Cesare, condottiero e messia

“The War” è l’ascesa conclusiva di Cesare, paragonabile, a mio giudizio e con le proporzioni del caso, alla figura di Mosè. Come il profeta, anche Cesare deve guidare il suo popolo verso la salvezza, verso una nuova terra, scampando alla schiavitù, ad una nuova forma di prigionia in un campo di lavoro e di sterminio. Cesare per tutta la sua esistenza predicò pace, giustizia, pietà e rispetto. Incitò al combattimento soltanto se estremamente necessario, e si ricongiunse alla sua integrità morale e buonista sul finale. Non è un caso che verrà ferito a morte da un uomo da lui stesso risparmiato. Cesare non doveva morire in battaglia contro un acerrimo avversario, ma doveva invece essere sconfitto da colui che non meritava la sua clemenza, l’uomo crudele. Cesare non volle mai generalizzare e continuò ad essere un capo misericordioso, quella medesima misericordia che riacquistò per merito di un essere umano, questa volta, magnanimo: Nova.

Una volta raggiunta la mistica terra promessa, a Cesare non sarà concesso di poter ammirare cosa diventerà la stirpe da lui salvata. Come accadde a Mosè, anche a Cesare è impedito “l’accesso” al futuro del suo popolo, una volta divenuto forte e indipendente. Cesare, ferito e sopraffatto da una vita di dolore e resistenza, si spegnerà progressivamente, cadendo senza vita all’alba di un nuovo giorno, di una nuova era, che lui stesso ha garantito: l’alba del pianeta delle scimmie.

  • Conclusioni

“The War – Il pianeta delle scimmie” è il meraviglioso ultimo atto della trilogia di fantascienza migliore degli ultimi anni. Imponenti sequenze d’azione, spettacolari esplosioni e combattimenti adrenalinici per la sopravvivenza sono la scarlatta carta da regalo che Matt Reeves confeziona per celare al suo interno un dono di grande valore per gli amanti del genere. “The War” nel suo ritmo compassato è un elogio continuo alla riflessione umana e all’empatia. Un film che mi ha toccato davvero il cuore. Per tale ragione, in questi ultimi passi, continuo a dirvi che non dovrebbe essere limitato ad una mera valutazione critica, perché, per quanto ogni singolo fotogramma riesca ad emanare un mirabile valore emozionale andrebbe prima di tutto giudicato più che con la mente col cuore, per chi ha provato certe riflessioni solo grazie agli stimoli che ogni battito provocato dal film è riuscito a dettare.

Ma se proprio una recensione personale debba richiedere un giudizio numerico… allora il mio voto è senz’altro di 9 su 10.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potrebbe interessarvi il nostro articolo sul classico del 1968 "Il pianeta delle scimmie: una recensione in prima persona: viaggio in soggettività nella solitudine dell'ultimo rimasto". Potete leggerlo cliccando qui

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“Planet of the apes” preferisco definirlo come “un film senza titolo”, perché è una di quelle poche opere a non averne affatto bisogno se non per un uso strettamente pubblicitario e identificativo. Anzi, credo che quel titolo sveli fin troppo. Sono quattro parole che preparano lo spettatore alla visione di un mondo distopico. Lo si priva così del dirompente impatto perpetrato dall’effetto sorpresa. Supponiamo però di indossare, per circa due ore, le vesti di scienziati sul punto di condurre un esperimento sociale su delle “cavie” che non hanno mai visto il film in questione, preparandole alla visione del lungometraggio senza svelare nulla di più.  Chiederemmo, gentilmente, di chiudere gli occhi per pochi secondi quando la pellicola mostrerà il titolo, e invitaremo tutti, successivamente, a riaprirli per riprendere la visione del film. Da questo preciso momento gli spettatori vivono il film in completa soggettività: diventano il protagonista. E ciò perché, come lui, non sapranno nulla di quanto sta per accadere, non saranno a conoscenza del pianeta cui il titolo fa riferimento né potranno immaginare quali creature incontrerà Taylor. Come per i personaggi così per gli spettatori sarà un viaggio dedito alla perpetua ricerca. Sono pochi i lungometraggi a poter garantire una simile possibilità, a poter vantare un’esperienza così rara di visione. Si potrebbero contare sulla punta delle dita, perché per permettere questo tipo di “comunicazione visiva” occorre che la pellicola in questione segua il ritmo del viaggio caratterizzato dall’incertezza, dalla mancanza di spiegazioni nel breve periodo e da quel bisogno di scoperta che porterà a chiedersi: “dove siamo? Quando siamo? Cos’è questo posto?”.

Resteremo in soggettività fin quando i confini della quarta parete lo permetteranno, naturalmente. Ma se è possibile vedere un film immedesimandosi nello stupore del protagonista, lo si può anche rinarrare in sua vece? Commentare una pellicola rinarrandola con le parole di chi ha vissuto una realtà capovolta? E’ possibile?! Se l’avventura inizia da qui, ci troviamo all’interno dell’astronave, a riannodare le fila che legano quelle ultime parole di commiato che riserveremo ai posteri prima della partenza. Breve premessa: le riflessioni del protagonista verranno introdotte e terminate dalle parentesi quadre, mentre i commenti personali alle scene verranno scritti liberamente.

Che l’esperimento abbia inizio, dunque…

[Questo completa il mio ultimo rapporto prima di toccare la meta. Ora la navigazione è completamente automatica. Ho sprofondato l’equipaggio in un sonno profondo nel quale li raggiungerò presto. Visto da qui tutto sembra così diverso. Il tempo e lo spazio qui perdono di significato. L’individualità è annientata. Io mi sento solo.]

Un incipit di tale valenza, pronunciato con fermezza autoritaria, farà da solido costrutto ad una intensa presentazione, una breve descrizione che fungerà da panoramica generale sull’angoscia della pochezza dell’essere umano posto al cospetto dell’universo sconfinato. Non ci resta che provare sgomento dinanzi all’oblio dell’infinito.

[Siamo nelle mani dei calcolatori, proseguirei, d’altronde non si può che comunicare con uno schermo lampeggiante, attraverso l’informalità di un comune microfono. L’aspetto sociale è solo un ricordo per me, destinato a poter essere risvegliato solamente al termine di un lungo viaggio, nel quale l’intero equipaggio potrà destarsi duemila anni dopo, nel futuro generazionale di un universo senza fine. I macchinari, gli avanzati strumenti tecnologici, il progresso nella costruzione e nell’artiglieria guerriera sembrano essere gli ultimi strascichi della società che ci siamo lasciati alle spalle. Il residuo di quell’ideologia sfrenata, devota all’accumulo di capitale a discapito della pace, era fin troppo preminente nella mente di quegli uomini ormai vecchi di 700 anni. Chissà se qualcosa sarà cambiato nella quotidianità delle generazioni future, quelle che ad oggi definirei “contemporanee”. Secondo la teoria del professor Hasslein, infatti, viaggiando alla velocità della luce la terra che ho ammirato un’ultima volta sei mesi fa, dall’oblò di questa astronave, dovrebbe essere invecchiata, per l’appunto, di settecento anni, noi, a mala pena, di qualche mese. L’uomo che ho conosciuto, quella peculiare razza di animale dotata di coscienza e intelligenza, di parola e espressione articolata, fa ancora la guerra verso il proprio fratello? Lascia morire di fame i figli del suo vicino? Forse è per questo che ho scelto di partire, per allontanarmi dal marciume di un’esistenza priva del benché minimo ideale. Il futuro, qualunque esso sia e dovunque esso sarà, dovrà recare con sé un significato. Dovremo trovarlo. Ma adesso è giunta l’ora. Abbiamo riposato per duemila anni e siamo nel futuro. La nostra astronave è stata catturata dall'orbita di un pianeta desolato e precipitata in un lago. Perdemmo la Stewart durante il nostro sonno criogenico, la sola donna del nostro equipaggio. Eravamo soli e sperduti, circondati dalla desolazione di un pianeta simile alla terra, ma senza dubbio più aspro e caldo di quello che ricordavo. Quello che rammento con più favore fu quel senso di incredulità, quella fiamma che ardeva il mio animo di studioso, quel totale senso di scoperta che passo dopo passo avviluppava il mio spirito.]

Se la storia di Taylor “fosse un film” e, come scrivevo in principio, gli spettatori non avessero mai letto il titolo dell’opera e si trovassero così, ad accompagnare le sue disavventure con lo sguardo, d’improvviso, proverebbero le sue stesse sensazioni. Si tratta infatti di un lungo cammino, intrapreso tra impervie difficoltà attraverso “lande rocciose”, precipizi pericolanti e scorci che cadono a strapiombo sul mare. “Dove siamo?” – “Quando siamo?” Se lo domanda lui stesso come potrebbero domandarselo gli spettatori insieme a lui. Un regista come Franklin James Schaffner, in questi frangenti, realizza un lavoro di primordine, riprendendo il percorso e mostrando a un pubblico indiscreto i segreti di un pianeta inesplorato dall’uomo da centinaia e centinaia di anni. Lo spettatore, come loro altri, diviene un esploratore in una terra sconosciuta, desideroso di dare risposta alle proprie domande. Il futuro che cercavamo insieme alla flotta cosa ci ha riservato? Vi sono persone come noi ad abitare quella terra? Se fossero primitivi senza alcuna conoscenza, noi scienziati dell’equipaggio potremmo essere al governo in pochi mesi - si ripete ironicamente Taylor tra sé e sé.

[Nel nostro percorso notiamo alcune figure inquietanti dominare le alture delle colline. Noi, dal basso, arrampicandoci sulle rocce, restiamo impietriti davanti a simili silhouette salvo poi accorgerci che si tratta solo di comuni spaventapasseri. Qualcuno li avrà realizzati appositamente per proteggere i raccolti dalla foga degli uccelli. La terra che stiamo calcando è popolata da forme di vita intelligenti, da uomini, naturalmente. Ne scorgiamo un numeroso gruppo in lontananza, appaiono svestiti e primitivi ai nostri occhi, come se il nostro viaggio ci avesse condotto nell’era precedente alla nostra piuttosto che nel futuro dell’uomo. Saremo stati risucchiati in un vortice spazio-temporale, precipitati su un pianeta che assomiglia alla terra ma che non può essere assolutamente la terra. Un grido straziante interruppe improvvisamente la quiete della foresta. Cacciatori a cavallo sbucarono dalla fitta vegetazione armati di fucili puntati su me e sulle altre persone: con mio grande stupore capì in breve tempo che le prede eravamo tutti noi. La cavalcatura era quella di animali antropomorfizzati, erano delle…scimmie. Le scimmie uccisero i membri dell’equipaggio. Li fucilarono barbaramente davanti ai miei occhi come della selvaggina inerme. Ero rimasto solo, quando fui catturato.]

Se uno spettatore poco attento, in una istintiva analisi, impugnasse una penna e cominciasse a scrivere un breve commento sulla folle disavventura di Taylor, scriverebbe che essa rappresenta non altro che la vendetta animale sulla violenza dell’uomo; il trionfo del parente più stretto che, con la barbarie creata dall’essere umano stesso, uccide il predatore divenuto preda. A tal proposito, ricordo una celebre battuta di Groucho Marx: “la caccia sarebbe uno sport più divertente se anche gli animali avessero il fucile.Io, se volessi lasciare un commento da critico cinematografico, scriverei qualcosa di diverso, un’interpretazione diametralmente opposta a quella dell’animale che si impone sull’uomo. Questa, infatti, non è la vittoria dell’animale sull’uomo inteso, gerarchicamente, come l’essere padrone del mondo, il quale peccando di onnipotenza ha calpestato i diritti dell’animale stesso. Questa non è altro che una punizione che la storia ha proclamato sull’uomo inteso come essere meschino verso il prossimo della sua stessa specie, colui che non ha fatto altro che calpestare il proprio fratello, colui che ha distrutto se stesso e il suo simile.

[Durante la cattura rimasi ferito alla gola, e non potei parlare per ore. Tuttavia riuscivo ad ascoltare così da restare basito dinanzi alle scimmie che si esprimevano come uomini. Dovevo essere impazzito e trovarmi in un manicomio apparente, in un goliardico e brutale scherzo del destino, il quale mi aveva trascinato in un mondo capovolto, dove l’uomo è l’animale e l’animale è al potere con la medesima classe e intelligenza del più saggio diplomatico e con la stessa dote fraudolenta del più falso dei mentitori. Mi accorgerò solo alla fine di quanto la società istituita dalle scimmie altro non era che un governo fondato sulla menzogna e sulla falsità di una pergamena religiosa che mistificava la realtà.]

Verrebbe da chiedersi se la presunta pergamena religiosa non rappresenti una critica, neanche troppo velata, alla credenza religiosa e al timore della collera divina che spesso mantiene sotto scacco le grandi popolazioni impedendo loro di destarsi fino a scoprire la verità e rovesciare così un’istituzione corrotta. La pergamena del film vieta infatti categoricamente di accedere alla zona proibita così da impedire agli studiosi di rinvenire dei resti antichi che potrebbero totalmente capovolgere le basi storiche su cui poggia la sacralità dello stato. Personalmente non lo credo, penso invece che sia l’implicita testimonianza che ogni governo nasce per tenere a bada, anche con la paura e con l’inganno di una fede strumentalizzata, il popolo ingenuo, pericoloso e barbarico se lasciato nell’anarchia ma ugualmente terribile e incontrollato se governato con troppa leggerezza.

[La mia sola compagnia era Nova, una bellissima donna catturata insieme a me. Non sapeva parlare, come tutti gli altri del resto, ma i suoi occhi spaventati riuscivano a comunicare molto più di quanto potessero fare le parole. Io riuscii a mostrare a Zira e Cornelius che non ero come tutti gli altri, e questo, nonostante i fervidi contrasti di Zaius, mi permise di venire aiutato da loro per poter essere liberato e per recarmi in quella che fu etichettata come la “zona proibita” luogo in cui l’accesso era vietato da quando ogni avo ha memoria. Mi recai con il gruppo nella grotta, in quel sito di scavo archeologico così da comprendere l'evoluzione del pianeta delle scimmie e poter dimostrare di non provenire dal loro stesso mondo. Cornelius mi mostrò di aver scoperto tecnologia umana industriale che riconobbi come una dentiera, degli occhiali, una protesi cardiaca e, con sorpresa delle scimmie, una bambola con fattezze umane, la quale riusciva anche a parlare. «La zona proibita un tempo era un paradiso... E la tua genia l'ha trasformata in un deserto, millenni fa!» Furono le parole di Zaius. Rabbrividì ma non poteva esserci alcun rapporto tra la mia gente e questo mondo rovesciato, frutto di uno scherzo dell’universo. Montato a cavallo con Nova, proseguii sulle rive del mare nonostante gli inquietanti avvertimenti di Zaius. Avanzai, superando gli scogli sulla sponda del mare, e persi la loro vista allontanandomi sempre più. Il rumore del mare si faceva più frastornante come se le onde sbattessero fortemente su una superficie dura e imponente e non si perdessero più gradualmente sulla riva. I suoni si fecero più intensi finché la vidi: erano i ruderi della statua della libertà, i resti percepibili di una delle più grandi e simboliche realizzazioni artistiche del passaggio dell’uomo sulla terra. Era lì immobile, affossata nella sabbia, cinta da ammassi di pietra erosa dalle maree. Il braccio ancora fieramente alzato in alto reggeva ciò che restava della fiaccola consumata dal tempo. Ero a casa, quel luogo era la terra. Avevo fatto ritorno. Fu il più grande colpo di scena che una narrazione vivibile poteva riservarmi.]

Se Dio, lassù nel cielo, reggesse le fila del destino e componesse i passi di una vita mortale avrebbe abbandonato, in un assordante silenzio, il nostro protagonista nel più drammatico dei destini. Noi tutti, mentre osserviamo la statua della libertà in simili condizioni insieme a Taylor, veniamo colti da un profondo senso di timore. Per alcuni quella fu solo un’immagine riadattata per adempiere a un finale scioccante, per altri, invece, fu una spaventosa profezia messa in scena come avvertimento destinato all’uomo del presente: “che cessi la follia dell’oppressione e il dramma della guerra altrimenti verrà il giorno in cui sarà troppo tardi” - queste parole riecheggiano tutt’oggi nei significati di chi comprese davvero quanto stava guardando. Per un protagonista come Taylor, capace di vivere quell’esperienza in “prima persona”, fu il colpo di grazia. Egli aveva lasciato quel pianeta con la speranza che l’uomo cedesse le armi per lasciare un futuro pacifico ai suoi simili del domani. Il futuro che cercava Taylor all’inizio del suo viaggio un significato lo recò stretto a sé, quello che l’uomo ha finito per distruggere quanto aveva, per sconvolgere la terra con le guerre atomiche. Taylor era rimasto solo, l’ultimo sopravvissuto a poter ricordare il paradiso che fu la terra. Vecchio di duemila anni, era ormai l’ultimo a vederla ancora attraverso gli occhi della Libertà, prima che fosse distrutta. Il governo che abbiamo conosciuto con lui durante lo scorrere della pellicola nascondeva la verità, ciò che era accaduto millenni prima, ma, sebbene regnasse nella bugia, quello stesso governo capì quanto l’uomo aveva peccato nella sua esistenza e fece il necessario per impedire che si ripetesse. I primati, eredi della gloria dell’uomo, raccolsero i resti della vecchia civiltà e si ersero sulle ceneri della statua, quel simbolo di pace ridotto oramai ad un cumulo di resti, posti lì come monito del passaggio distruttivo dell’umanità sulla terra. Il resto della popolazione non poteva conoscere la verità e venne nascosto il tutto per evitare che le scimmie, metafora della rinascita di una razza vicina ma al contempo lontana dalla precedente, commettessero gli stessi errori della specie passata, la quale, con l’ingegno e l’avanzamento tecnologico messo a servizio dell’odio, finì per autodistruggersi. Non è un caso, infatti, che la società futuristica sia rappresentata in un’apparente arretratezza, come se il progresso tecnologico fosse stato bloccato per impedire che la bramosia della scoperta porti a ripetere le scellerate gesta dell’umanità autoestinta. Il prezzo della realtà si conforma con quello della sicurezza.

[Io, George Taylor, potei soltanto dare l’estremo congedo al passato per poter affrontare le difficoltà che ancora mi attendevano, ora che accasciato, davo l’addio a ciò che avevamo. Rimasi al suolo, schiacciato dal peso della responsabilità, quello di essere il solo nell’universo a poterla ancora vedere. L’avete distrutta, maledetti! Per l’eternità! Tutti!]

Noi, gli uomini del presente, non possiamo che restare ancora qualche momento seduti comodamente sulle nostre poltrone, sentendoci visceralmente vicini alla solitudine dell’eroe sconfitto dal fato. Il nostro viaggio è infatti terminato davanti all’urlo funesto del protagonista che abbiamo seguito così assiduamente e con lui, di colpo, restiamo smarriti, questa volta non più davanti alla grandezza dell’universo, ma dinanzi all’atrocità della fine di un’era.
“Planet of the apes” è la discesa crepuscolare nella voragine della solitudine. Al calar del sole, che si spegne all’orizzonte, al di là dell'oceano, restiamo soli con Taylor e Nova, ad ascoltare le onde del mare che inesorabili si infrangono sui resti della statua: la natura e la terra stessa sono andate avanti senza di noi, senza i vecchi signori del mondo. Non sembriamo più poi così importanti. Non è rimasto nulla del nostro passaggio se non dei reperti archeologici sapientemente occultati. Siamo stati superati dall’evoluzione e dalla rivoluzione. Il viaggio fantascientifico dell’astronave cessa nella solitaria resa sulle spiagge della terra in questo capolavoro senza tempo del cinema. Le parole dell’ultimo rimasto risuonano ancora come explicit di un urlo disperato che ha abbattuto davvero i limiti del confine scenico divenendo parte integrante di una cultura cinematografica che fa ancora eco a distanza di quasi cinquant’anni. Lui, intrappolato nel futuro e noi, prigionieri del presente, caricati da una responsabilità, se vogliamo, ancor maggiore: impedire che tutto ciò accada.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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