"Mulan e il suo riflesso" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Non si udiva nulla quella sera, nient’altro che il lieve soffio del vento. La brezza era debole e riusciva a malapena a far muovere gli stendardi issati sulle torri. La terra era stata inghiottita da una fitta tenebra e su tutto l’orizzonte era calato un velo d’ombra.
Il soldato poneva attenzione, ma non sentiva né vedeva alcunché. Questi camminava irto sui suoi stivali, reggendo in mano una lancia dalla punta argentea. La volta celeste era sgombra di nubi. La luna piena campeggiava sul tetto del mondo, rischiarando a fatica l’oscurità della notte con il suo tenue bagliore. D’un tratto, qualcosa ruppe il silenzio.
Un’aquila, sbucata dal nulla, planò in picchiata sulla testa del soldato, ghermendogli l’elmo con i suoi poderosi artigli. Lo stridulo dell’animale echeggiò lungo tutta la Grande Muraglia. L’uomo sollevò il capo, vide il rapace librarsi sulla porzione di cielo sopra di lui, quindi poggiarsi sull’estremità dell’asta di una bandiera. L’aquila emise ancora il suo verso roco e dal buio affiorò un gancio nero che colpì la roccia. Il soldato si avvicinò al limite della costruzione e scorse una miriade di artigli salire dal fondo, laggiù oltre i contorni della fortezza e agganciarsi ad essa. L’invasione era appena cominciata.
L’armata degli Unni scalava rapidamente le maestose mura, guadagnandone la vetta e penetrando oltre i confini. Il soldato fu circondato. Dinanzi a lui si stagliò un’immensa figura incappucciata. Era avvolta in un mantello tra il nero e il grigio antracite, aveva occhi gialli, denti possenti e affilati. Costui non era uno straniero qualunque ma Shan-Yu, il comandante dell’esercito Unno. Il soldato cinese, in un ultimo, disperato tentativo di dare l’allarme, appiccò il fuoco alla torre di guardia. Le altre torri scorsero il segnale e risposero facendo altrettanto. In pochi istanti le fiamme si propagarono di torre in torre e il messaggio fu colto dai più: la Cina era appena stata attaccata.
I fuochi che ardono sulle torri di guardia al principio di "Mulan". Potete leggere di più su "Il signore degli anelli - Il ritorno del re" cliccando qui.
Comincia in tal modo “Mulan”, in una notte serena, tacita, scossa improvvisamente dal volo di un’aquila che piomba dall’alto, all’improvviso, senza alcuna avvisaglia. L’animale sembra presagire l’avvento di una minaccia imprevista, fino ad allora sfuggita allo sguardo attento delle vedette poste a guardia della Grande Muraglia. L’esercito Unno, protetto dalle tenebre, viene avvistato quando è ormai troppo tardi. Ai soldati cinesi lì presenti non resta che dare l’allarme. Il fuoco arde così da una torre all’altra torre e poi all’altra ancora, trasmettendo un messaggio chiaro come il bagliore da esso prodotto.
La scena iniziale di “Mulan”, in cui i soldati usano il fuoco per segnalare l’inizio dell’invasione, ricorda una sequenza de “Il signore degli anelli – Il ritorno del re”. In quest’ultima opera, la città di Minas Tirith - cuore pulsante del regno di Gondor - è prossima ad essere assediata dall’esercito di Sauron. I fuochi della città vengono pertanto accesi, non senza qualche piccola difficoltà.
Le fiamme si sprigionano da una pira sita in un’alta torre contornata da pietre candide come il marmo. Il fuoco viene immediatamente notato in lontananza. Sulle montagne, una seconda pira viene quindi data alle fiamme per segnalare la richiesta di soccorso della città bianca. Di colle in colle, i roghi che ardono parlano da soli e recano in sé un’accorata richiesta d’aiuto. I fuochi di Minas Tirith giungono sino ai confini del reame di Rohan, alleato del regno di Gondor. Scorgendo quella macchia rossa che brilla intensamente fra le costole dei colli, la gente di Rohan, senza indugio, decide di rispondere alla chiamata di Minas Tirith.
Ne “Il Signore degli anelli – Il ritorno del re” il fuoco assume i contorni di una metafora: la metafora di una speranza che divampa, che si propaga di terra in terra, portando con sé l’auspicio di unità fra i popoli. I fuochi di Minas Tirith bruciano per segnalare il sopraggiungere di un nemico comune, l’avanzata di un avversario inarrestabile ma altresì ardono per infondere coraggio negli animi dei timorosi, per rammentare un’antica alleanza e per ribadire che solo attraverso la vicinanza e la fratellanza tra la gente libera della Terra di Mezzo il male - che è divisivo per sua natura - può essere sconfitto.
Così come mostrato ne “Il ritorno del re”, anche in “Mulan” le fiamme che iniziano ad ardere su di una torre si diffondono da un punto all’altro per raggiungere sempre più persone con il loro messaggio. Il fuoco è un elemento primordiale, dalla forza spesso distruttiva, che si nutre di ciò che consuma, tuttavia in “Mulan” esso diventa un veicolo di speranza. Le fiamme delle torri della muraglia sfavillano per avvertire e per offrire una possibilità di salvezza. Il fuoco in “Mulan” non consuma ma sprigiona una voglia di “vita”, di “libertà”, di “resistenza”, spronando il popolo cinese a unirsi e a prepararsi alla battaglia.
La notizia dell’invasione giunge fino al palazzo dell’Imperatore. Questi sottoscrive avvisi di arruolamento per tutte le province dell’Impero. Ogni famiglia dovrà offrire un rappresentante maschile che dovrà unirsi all’esercito regolare e alle sue riserve. L’Imperatore è fermamente convinto che un solo chicco di riso può squilibrare la bilancia, e che un solo uomo può segnare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Un solo uomo, già!
Un solo uomo può capovolgere le sorti di un confitto. E se fosse una donna a cambiare il destino di un popolo? Nessuno si era mai posto una domanda simile fino ad allora.
Eppure, quando l’Imperatore ha finito di pronunciare il suo discorso, di affermare che un singolo uomo può segnare la differenza tra il trionfo e la dipartita, l’immagine sulla pellicola inizia a sbiadire sino a scomparire del tutto, per far posto ad una nuova “icona” rappresentata da dei chicchi di riso all’interno di una ciotola, dove le due canoniche bacchette, guidate da una mano femminile rimestano i granelli, per poi isolarne uno soltanto. Già, una mano femminile! Proprio così, una donna.
È lei che “pizzica” quel chicco, che lo separa dagli altri e lo allontana. Ed è sempre lei che raccoglie una porzione adeguata di riso e se la porta alla bocca. Le parole dell’Imperatore sembrano riecheggiare ancora in questa sequenza, con un'unica differenza: il chicco di riso in grado di squilibrare la bilancia non ha “l’aspetto” di un uomo, ma di una ragazza assorta nei suoi pensieri e nel suo parlato.
“Silenziosa… E schiva” – ella dice. “Aggraziata, cortese…” – continua a sostenere, mentre gusta il suo riso. “Delicata…” – borbotta con la bocca piena. “Raffinata, ponderata, puntuale!” – finalmente conclude.
Mulan, è questo il nome della ragazza che assaggia il riso, vive in un piccolo villaggio della Cina. Ella è l'unica figlia della famiglia Fa. In quelle prime ore del mattino Mulan è intenta a studiare, se così si può dire. Alcuni concetti che continua a ripetere a voce alta le sfuggono dalla mente e non riesce a farli suoi.
“Silenziosa, schiva, aggraziata… Cosa veniva dopo aggraziata?” - Mulan sembra domandarselo tra sé. Quelle virtù che le donne devono conoscere e possedere Mulan fatica a memorizzarle, forse perché non fanno parte del suo “mondo”. Mulan è, infatti, diversa da tutte le altre ragazze del villaggio. È speciale, sebbene nessuno se ne sia mai accorto. Neppure lei stessa.
Mulan è terribilmente in ritardo. Quando se ne accorge sfreccia per le vie cittadine, correndo all’impazzata verso la mamma e la nonna che la stanno aspettando impazientemente. Le due si danno da fare per rendere Mulan ancora più bella di come appare quotidianamente. Le danno una bella strigliata, le sistemano l’acconciatura, la truccano con del cerone bianco a valanga sul viso e del rosso a rimpolpare le labbra.
Quel mattino, Mulan ha una prova molto importante da superare. Deve portare onore alla sua famiglia nell’unico modo in cui una fanciulla può farlo nella società patriarcale cinese di quegli anni: ovvero diventando la sposa di un uomo di buona famiglia. Per fare ciò, Mulan deve essere messa sotto esame da una corpulenta “paraninfa”, che dovrà giudicare le qualità da futura moglie della ragazza. Inutile dire che la giovane, durante la seduta d’esame, provocherà un disastro dietro l’altro e farà rientro a casa con una cocente delusione.
Mulan si sente inadatta, diversa, come se ancora non avesse trovato il proprio posto nell’ordine delle cose, come se ancora non sapesse chi è in realtà e a cosa aspiri. La fanciulla avanza lungo il giardino della sua dimora, e osserva il proprio volto riflesso in uno specchio d’acqua. Ella non riconosce sé stessa. È ancora truccata in viso, ma non è certamente per quello che non riesce a identificarsi. È qualcosa di più recondito, intimo, ancestrale che si cela oltre lo strato di epidermide. Mulan guarda il suo riflesso, confuso e incerto, e non riesce a renderlo nitido. Comincia così ad intonare un canto. Attraverso quella melodia, Mulan si chiede chi è l’ombra che riflette la sua figura, un’ombra che non corrisponde ai suoi desideri.
Già, un’ombra. Mulan osserva quella proiezione di sé e non riesce a schiarirla, a farla sua. Ma cos’è in realtà un’ombra?
L’ombra è parte di noi, è un prolungamento della nostra fisicità, della nostra corporalità. Essa non ha colore, ha soltanto la nostra forma. Non ha occhi, non possiede dettagli, non mostra lineamenti o segni sul proprio viso. L’ombra è una macchia nera, attaccata a noi, che ci segue di pari passo. È un “riflesso” che ci scruta e ci accompagna, ma è altresì un’immagine di noi oscura, priva di particolari, di caratteri che rendono il nostro aspetto dissimile ed unico. Talvolta, l’ombra può essere così diversa dal noi da staccarsi, da allontanarsi. Lo scrittore Hans Christian Andersen immaginò un qualcosa di eguale.
L'uomo colto e l'ombra, Illustrazione di Vilhelm Pedersen. Potete leggere di più su Hans Christian Andersen e le sue opere cliccando qui e poi qui. Ora che ci penso potete cliccare anche qui, poi qui ed infine qui.
Nella sua fiaba “L’ombra” - uno dei suoi scritti più oscuri e inquietanti - Andersen raccontò la storia di un uomo colto, proveniente da luoghi molto freddi, che giunse, un bel giorno, in un paese caldo, dove il sole picchiava con prepotenza e la gente, sotto i suoi raggi, diventava bruna come il mogano o nera quasi come la pece.
Quest’uomo era costantemente “braccato” da un’ombra smilza come lui, che diventava sempre più allungata, ferma, immobile contro una parete ogni qual volta una fonte luminosa illuminava la figura di quest’individuo profondamente erudito.
Una sera, questo straniero si sedette su di una piccola seggiola nella veranda; alle sue spalle brillava la tenue luce di una candela. Essa lo illuminò, proiettando la sua ombra innanzi a lui. All’inizio, egli non ci fece caso, la ignorò, assorto com’era nelle sue letture. L’ombra dell’uomo si era posata sulla parete della casa di fronte, e imitava le azioni del suo “padrone”. L’uomo sfogliava le pagine del libro che aveva in mano e l’ombra faceva lo stesso. Essa giaceva lì davanti, tra i fiori del terrazzo. Dopo un po’, l’uomo alzò lo sguardo e vide la sua ombra. Quest’ultima gli ricambiò attenzione, mimando lo stesso gesto. Per un po’ si guardarono. Poi, l’uomo rivolse la vista al grazioso palazzo che aveva dinanzi: sembrava una casa accogliente, piena di belle cose.
“Credo che la mia ombra sia l'unica persona vivente che si vede laggiù!” - disse l'uomo colto. “Guarda come sta seduta con garbo tra i fiori, la porta è socchiusa; adesso l'ombra dovrebbe essere tanto accorta da entrare, guardarsi intorno, e poi tornare a raccontarmi quello che ha visto. Eh già, dovresti farmi questo piacere!” – proseguì a borbottare con ingenua speranza. Attese, come se davvero si aspettasse che la sua ombra potesse muoversi da sola e addentrarsi in quella bella dimora. L’ombra restò ferma a guardarlo e a fargli il verso. I minuti passarono e l’uomo decise di rientrare nel suo alloggio. Così, volse le spalle al terrazzo. Proprio in quell’attimo l’ombra si mosse, come animata da un afflato tutto suo.
L’ombra entrò di sua iniziativa in quella casa, e lì stette. L’uomo non lo sapeva ancora, ma la sua ombra era diventata viva, cosciente. Laggiù, lontana dallo sguardo dell’uomo, iniziò il suo viaggio in solitaria, la sua lenta peregrinazione verso la propria affermazione, il proprio riconoscimento.
Quell’ombra era tetra, furba e malvagia. Se l’uomo l’avesse osservata attentamente si sarebbe accorto che quell’ombra non era una proiezione di sé, bensì la proiezione di una parte di sé: la più ambiziosa, diabolica, superba del suo animo.
Venne il giorno successivo. L’uomo colto non badò a null’altro che ai suoi studi, durante le ore diurne. La sera, egli uscì sul terrazzo e si accorse di non vedere più la sua ombra. Capì che era fuggita, e ne restò colpito. Dov’era andata? Che fine aveva fatto? Sarebbe mai tornata? Tante domande affollarono la mente dell’uomo ma nessuna ottenne risposta.
Passarono molti anni e un bel giorno bussò alla porta dell’uomo dotto una persona tanto magra da far spavento, alta quanto lui.
“Non mi riconosci?” – domandò il misterioso visitatore.
“Riconoscervi? Oh cielo, ci siamo già incontrati?” – rispose, sconvolto, lo studioso.
“Sono la tua ombra” – sibilò la silhouette.
Il colto interlocutore spalancò la bocca. Ciò che aveva innanzi a sé non somigliava minimamente ad un’ombra. Si trattava invece di una sorta di essere vivente dotato di voce, volto, e tanto d’incarnato; un esile corpo maschile, direi striminzito ma in salute. L’ombra aveva un’andatura elegante, era ben vestita e portava attorno al collo una vistosa collana d’oro e anelli alle dita.
“Dove sei stato in tutti questi anni?” – chiese l’erudito.
L’ombra prese posto in salotto e si compiacque nel narrare le sue traversie. Aveva girato il mondo, conosciuto le sue meraviglie, i suoi segreti. Aveva osservato il bello ed il brutto del creato, e aveva appreso il male. Lo aveva fatto suo, e lo aveva seminato in ogni luogo in cui si era recata. Quando finì di parlare, l’ombra imboccò la porta e sparì nuovamente.
Passarono degli anni. L’ombra si ripresentò e chiese all’uomo colto, divenuto nel frattempo stanco e malaticcio, di accompagnarla in uno dei suoi lunghi viaggi. Questi non poté rifiutare, mosso com’era da un’insana curiosità di trascorre del tempo con quella che fu la sua “metà”.
Nei loro lunghi spostamenti l’uomo era solito camminare alle spalle dell’ombra, talvolta gli veniva concesso di restarle accanto ma raramente. Ovunque andassero, l’ombra parlava per prima, zittiva il suo compagno di viaggio, si presentava agli altri col piglio di chi comanda. Nessuno poneva gli occhi sull’uomo, come se questi stazionasse nell’oscurità e si limitasse a seguire il suo padrone, senza possedere il benché minimo spirito di iniziativa.
L’uomo diveniva sempre più stanco, provato da un’esistenza lunga e spossante. Passarono gli anni. Lentamente, l’uomo colto e buono si trasformò nell’ombra e l’ombra superba e cattiva divenne a tutti gli effetti il padrone. Quando fu troppo tardi per capire ciò che era avvenuto, l’uomo fu raggiunto dal tradimento e dalla morte e l’ombra si prese tutta la sua vita.
Potrebbe succedere davvero che un’ombra sostituisca il suo padrone? Potrebbe accadere che un essere umano lasci che il suo riflesso prenda il sopravvento sulla sua volontà o divenga indipendente?
In un altro racconto fantastico, un’ombra tentò di recidere il legame col suo padrone. Quanto affermo capitò a un ragazzo che sapeva volare e non voleva saperne in alcun modo di crescere. Come si chiamava? Vediamo… Ah, sì, un certo Peter Pan.
Potete leggere di più su Peter Pan cliccando qui. E perchè no, fate un salto anche qui.
La sua ombra era solita allontanarsi da lui, volare via perché non intendeva restargli accanto. Peter la inseguiva costantemente, per riunirsi a lei, per diventare un tutt’uno con il suo riflesso. Un giorno, Peter, per recuperare la sua ombra, lasciò il suo territorio, l’Isola che non c’è, e volò fino al nostro mondo. L’ombra si era annidata nella camera di una giovane fanciulla, Wendy. Peter inseguì la sua metà fin laggiù e vide la sua ombra che ondeggiava sulla parete, a pochi passi dal letto di Wendy. Il ragazzo che sapeva volare si lanciò contro il muro, afferrò la sua metà e tentò di legarla a sé con ago e filo. Spaventata dal frastuono, Wendy si svegliò e domandò chi fosse quell’intruso. Peter si presentò e spiegò con garbo la sua strana disavventura. L’ombra gli era sfuggita dalle mani nuovamente, quel “riflesso” proprio non ne voleva sapere di unirsi a lui. A volte capita. L’ombra di una persona può non corrispondere affatto al suo padrone: essa può assumere una forma singolare, tanto diversa da non essere riconosciuta dal legittimo proprietario.
L’ombra di Mulan aveva un qualcosa di simile all’ombra descritta da Andersen e a quella inseguita e bramata da Peter Pan. Vedete, l’ombra della ragazza non era un’ombra “viva”, senziente e quindi in grado di scappare via, di sfuggire allo sguardo di Mulan come accadde all’uomo dotto o al giovane capo dei bimbi sperduti.
L’ombra di Mulan non osava incamminarsi per la sua strada, staccarsi da lei. Eppure, anche quell’ombra non apparteneva del tutto alla donna che la proiettava. Pareva un’entità a sé stante, lontana, irriconoscibile. Mulan osservava la sua ombra e non la discerneva, come se la figura che il suo corpo proiettasse non corrispondesse ai suoi voleri, alle sue aspettative.
L’ombra di Mulan, come tutte le ombre, la segue e la osserva. Lei ricambia il suo sguardo spento e cerca di indagarla. Quell’ombra che Mulan vede e che non riesce ad afferrare, a far sua all’inizio del film, è l’ombra di una sposa ubbidiente, di una figlia devota, che deve essere accondiscendente, taciturna, ponderata, raffinata, puntuale, tutte quelle cose che Mulan cerca di approfondire al principio della sua storia e che proprio non coincidono con la sua vera personalità.
Mulan non vuole essere una semplice sposa, una donna senza sogni o speranze. Una creatura femminile che vive con il solo scopo di servire il marito, badare alla casa o alla crescita dei figli. Mulan vuole di più, e cerca ancora di capire qual è la strada che vorrà intraprendere. L’ombra che Mulan mira quando fa ritorno a casa è un prolungamento che non riconosce, perché è il riflesso dei desideri di chi le sta accanto, la sua famiglia, i suoi conoscenti; auspici che lei stessa non può e non potrà mai soddisfare perché non corrispondono ai suoi autentici sogni. Mulan non lascerà mai che la sua ombra – l’insieme delle richieste della società patriarcale che la circonda – fagociti sé stessa, che si sostituisca a lei come accaduto all’uomo erudito della fiaba di Andersen. Allo stesso tempo, come Peter Pan che insegue la sua ombra per divenire un tutt’uno con lei, anche Mulan vuole che la sua ombra assuma i contorni del suo vero “Io”, si unisca a ciò che sente nel suo ego, nella sua intimità.
Tutto questo, oltre che per l’ombra, vale anche per il riflesso chiaro ed evidente che la fanciulla vede allo specchio. Mulan contempla più volte sé stessa sulla fredda superficie riflettente. La sua faccia, nella sequenza del film in cui canta il brano “Riflesso”, è ancora impreziosita da un trucco candido. Così, Mulan cerca di toglierlo e il suo volto rimane per un istante diviso a metà: da un lato la sua pelle nuda, ciò che lei è, dall’altro la cute dipinta di bianco, il trucco da sposa, ciò che lei dovrebbe essere.
Così Mulan seguita a cantare cercando di interrogare sé stessa, di scoprire chi è davvero. Dopo aver rimosso completamente il trucco dal volto, Mulan scioglie i suoi capelli. La chioma bruna le scende lungo la schiena. Quei folti capelli che Mulan libera non appena rimuove il trucco saranno i caratteri del suo aspetto che per primi cambieranno non appena avrà compiuto la sua scelta finale. Infatti, quando Mulan deciderà di indossare l’armatura del padre e di partire per il campo di battaglia, la giovane taglierà i capelli con la sua spada, rimuovendo quella parte di sé che accarezzava con la mano quando intonava il suo canto, cercando di capire chi fosse e cosa volesse.
Triste e sconfortata, Mulan siede vicino al padre. Entrambi si trovano immersi nel verde del loro giardino. Accanto ai due, un albero meraviglioso mostra dei rosei fiori appena sbocciati. Il padre se ne compiace. Egli cerca di distrarre la figlia da tutte le preoccupazioni che l’attanagliano. Quindi, attira la sua attenzione. “Che bellissima fioritura che abbiamo quest’anno” - egli dice. E poi nota che c’è un fiore non ancora fiorito. “Ma guarda… quello è in ritardo. Scommetto che quando sboccerà diventerà il fiore più bello di tutti”. Dicendo ciò, il papà raccoglie un pettine a fermaglio e lo avvicina ai capelli della figlia. Mulan sorride rincuorata. Non sa ancora che è proprio lei quel fiore di cui il papà parla, colei che ancora non è sbocciata, ma quando lo farà i suoi petali saranno i più floridi e i più soavi.
Dopo qualche minuto, al villaggio arrivano i messaggeri dell’Imperatore che ordinano ad ogni famiglia di inviare un rappresentate maschile in veste di combattente. La famiglia Fa non ha eredi maschi, dunque il padre di Mulan, un uomo valoroso ma vecchio e per giunta ferito, accetta di partire di nuovo per la guerra. Mulan è disperata: sa benissimo che il suo anziano padre non potrà sostenere il peso di una battaglia. Pertanto, la giovane tenta di convincerlo a rifiutare la chiamata ma il padre non può farlo, ne va di mezzo l’onore della famiglia. Durante la cena a casa Fa, Mulan implora il genitore di disertare ma questi si infuria: “Io so qual è il mio posto” – egli sbotta – “È ora che impari qual è il tuo”.
Già, ma qual era il posto che Mulan avrebbe dovuto conoscere e rispettare? Quello della donna tacita e accondiscendente? Fortunatamente, Mulan avrà la forza di fare ciò che reputerà giusto e troverà da sola, attraverso le sue gesta, la propria dimensione.
Di donne che non hanno rispettato il proprio “posto” o, perlomeno, “il posto” che la società del tempo impartiva loro, ce ne sono state tante. Alcune di esse sono passate alla storia e sono divenute fulgidi esempi di coraggio e abnegazione, donne pronte a dare la propria vita per ribellarsi a qualcosa che ritenevano ingiusto. Pensate ad Antigone, la donna protagonista della tragedia greca di Sofocle che non accettò di starsene al suo posto, e che fronteggiò i suoi oppositori con il valore delle sue parole e con il peso delle sue azioni.
Parte del vissuto di Antigone e della sua lotta vengono già accennati negli ultimi passi dell’opera di Eschilo “I sette contro Tebe”. La tragedia di Sofocle – che pone per l’appunto Antigone come assoluta catalizzatrice delle vicende – narra ciò che avvenne dopo la conclusione del dramma eschileo. Il mito di Antigone, che desidera seppellire il fratello Polinice sebbene quest’ultimo sia perito combattendo fra i ranghi dei nemici di Tebe non meritando, quindi, gli onori funebri, affonda le radici nelle leggende della stirpe di Edipo.
Antigone segue la voce del suo cuore, i sussurri della sua coscienza. Ella conosce la legge della sua città e il volere del suo nuovo Re, Creonte, ciò nonostante ad essi si ribella. Antigone non può accettare che il corpo senza vita del fratello Polinice venga abbandonato, pertanto si erge contro un dettame che reputa disonorevole ed errato.
Per Sofocle, Antigone è una creatura femminile segnata dal dolore; una donna che ha veduto la sua giovinezza sfiorire in un attimo, divenendo vecchia alle soglie della fanciullezza, quando l’evento tragico si abbatté sulla sua famiglia e in particolare sul padre Edipo. Dalla sofferenza, Antigone trae la forza necessaria per compiere la sua battaglia personale. Lo spirito di Antigone è dominato da una nobile passione che trascende il comune sentimento umano. Antigone agisce di sua volontà, viola le leggi della sua città e copre di terra il corpo privo di sepoltura del fratello, e lo fa con un coraggio senza eguali, conscia che così facendo andrà incontro alla sua stessa morte. Ciò che Antigone vuole far rispettare è una legge non scritta, secondo la quale i defunti, tutti, devono essere seppelliti con rispetto, comprensione e umanità. Creonte, al contrario, intende far rispettare la legge dello Stato, ignorando con superbia la legge morale. Antigone non intende piegarsi, restare al posto che il sovrano le ordina; ella lotta per quello che reputa corretto, rifiuta ogni compromesso, si isola e si irrigidisce in un radicale scontro col mondo e l’intera società che la circonda. Antigone sfida l’ordine costituito, il costume della sua epoca e lo fa per proteggere l’onore del fratello caduto e da lei ancora amato.
Come Antigone, Mulan, la protagonista dell’opera disneyana, sfida la legge del suo tempo per proteggere il proprio padre, costretto a prendere parte a una guerra da cui non sarebbe mai più tornato. Mulan, con la medesima sfrontatezza e audacia del personaggio cardine della tragedia sofoclea, ragiona con la sua testa, ignora una legge sbagliata, capovolgendola, mettendola in discussione, e lo fa mutando il suo aspetto, mascherando sé stessa, senza però perdere la femminilità di cui è portatrice. Al pari di Antigone, Mulan è una donna che riscrive il proprio posto con fermezza e animosità, mettendo in pericolo la propria vita per un fine superiore.
Dopo la cena con i suoi genitori, bruscamente interrotta dalla rabbia momentanea del padre, Mulan va via e si lascia andare ai pensieri. Durante la notte viene giù una pioggia intensa; la fanciulla, osservando ancora il proprio riflesso nell’acqua cristallina, prende la sua decisione. Chiedendo perdono ai suoi antenati, Mulan ruba l’armatura del padre e raccoglie fra le sue mani la spada. La lama estratta dal fodero brilla sul viso della protagonista, mostrando l’immagine del suo volto deciso. Con quella spada, Mulan taglia parte dei suoi capelli, segno della sua femminilità, del suo sacrificio, della rinuncia che sta compiendo per proteggere i suoi cari. Prima di rinfoderarla, Mulan mantiene per qualche istante la spada al centro del suo viso: l’argento della lama lo divide a metà, esattamente come era accaduto quando Mulan aveva ripulito il suo ovale dal trucco. Ancora una volta nel lungometraggio si presenta il tema della dualità, la divisione tra i doveri che Mulan dovrebbe compiere e le azioni che in realtà vuole attuare. Inguainando la spada, Mulan completa la sua scelta. Ella trasforma sé stessa, mascherandosi da soldato e quindi da uomo per intraprendere un viaggio alla scoperta del proprio “Io”.
La nonna si sveglia di soprassalto, come se avesse avvertito la fuga della nipote. L’anziana prega gli antenati di vegliare su Mulan. Essi rispondono all’appello e si manifestano, in gran segreto, come spiriti evanescenti. Da una nube grigia e fumosa emerge Mushu, un draghetto dalla pelle rossastra. Egli affiora con le braccia tese verso l’orizzonte, al grido di “Sono vivo”. Beh, in effetti, in quella posa Mushu ricorda il personaggio del mostro di Frankenstein, appena ridestatosi da un sonno eterno.
Al draghetto viene chiesto di risvegliare il più potente dei draghi protettori della famiglia Fa, così che questi possa accorrere in aiuto di Mulan. Purtroppo (o per fortuna) Mushu combina un disastro e non riesce a richiamare alla vita il dragone. “Che fare adesso?” - pensa il draghetto. Idea! Sarà lui ad accompagnare Mulan, a sostenerla nel suo inganno, così da poter riscattare sé stesso agli occhi degli altri antenati, che lo considerano nulla più che un suonatore di gong.
Mushu raggiunge Mulan, arrivata nei pressi dell’accampamento militare. La fanciulla e il draghetto fanno subito amicizia. Entrambi hanno molto in comune: sono ambedue avventurieri impreparati, incerti, impacciati e, perché no, anche inattesi. Ma perché inattesi?
Beh, perché entrambi non sono ciò che tutti si aspettano. Mulan non è un grande guerriero né un valoroso combattente maschile. Ella è infatti una donna, che sa ben poco di battaglie e duelli. Mushu è un drago, ma non di quel tipo che potremmo attenderci di vedere. Egli non è imponente, maestoso, non ha una grossa apertura alare, non vola su nel cielo, al contrario è piccino e, di primo acchito, potrebbe facilmente essere scambiato per una banale lucertola. Mushu e Mulan devono dimostrare di che pasta sono fatti: la donna dovrà dare a vedere d’essere un guerriero capace, forte e coraggioso, Mushu dovrà invece dimostrare d’essere un guardiano affidabile.
Appena giunta al campo d’addestramento, Mulan conosce il capitano Li Shang, che la colpisce al primo sguardo. Mulan, naturalmente, non può darlo a vedere. Ella d’ora in avanti dovrà far finta d’essere un uomo e comportarsi come tale. Quello stesso giorno, la giovane fa la conoscenza di Yao, Chien-Po e Ling, i quali, dopo qualche incomprensione iniziale, diverranno suoi amici.
I giorni scorrono via e l’addestramento si fa sempre più duro e impegnativo. Tutti i combattenti devono imparare la dura arte della guerra, migliorarsi quotidianamente. Il capitano Shang farà di loro dei veri uomini, col sudore, l’impegno, e la sofferenza. Mulan sarà la recluta più abile e tenace, prevalendo in tutte le prove. Al ritmo di “Farò di te un uomo”, l’unica donna della guarnigione trionferà su tutti gli altri.
L’avventura di Mulan sarà lunga ed estenuante. Ella combatterà in battaglia, alle pendici di un monte ricoperto di neve. In quel luogo, si troverà faccia a faccia con Shan Yu. La giovane riuscirà a respingere con un astuto stratagemma la carica dell’armata Unna, ma le ferite che riporterà la obbligheranno ad ammettere la verità: ella è una donna, non un uomo. Una volta che la menzogna è stata svelata, Mulan viene abbandonata a sé stessa, ma non si darà per vinta. Giungerà sino alla città Imperiale, per salvare il suo sovrano. Gli Unni si sono infatti nascosti all’interno di un dragone di scena, che sfilava nel centro cittadino. Il dragone, come il cavallo di Troia ideato da Ulisse, era penetrato nella città per distruggerla dall’interno, per sorprendere i suoi abitanti intenti a festeggiare, noncuranti del pericolo nascosto proprio sotto il loro naso.
Mulan riuscirà a fermare Shan Yu e a salvare l’Imperatore. Quando quest’ultimo vedrà Mulan partire via, sussurrerà a Li Shang che “Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti”. L’immagine sbiadirà nuovamente, e la scena si sposterà su un luogo diverso: la dimora di Mulan. Il padre della ragazza attende, seduto in giardino, speranzoso, il ritorno della figlia. Quel fiore che non era ancora sbocciato e che egli aveva visto insieme a Mulan poco tempo prima è finalmente fiorito. Esso cade giù dal ramo, poggiandosi sulla gamba dell’anziano genitore. Il padre lo ammira, lo sfiora con le dita. In quell’istante, Mulan riappare sulla soglia di casa. È lei, è Mulan il fiore sbocciato nell’avversità. Ella è divenuta, come il padre aveva immaginato, il fiore più bello e più prezioso.
"L'ombra di Mulan e la sua fioritura" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Quando Mulan e il papà si congiungono in un abbraccio, i loro corpi vengono riflessi nello stagno d’acqua che si trova nella casa della famiglia Fa. Se Mulan avesse voltato lo sguardo avrebbe visto il suo riflesso e avrebbe finalmente riconosciuto la sua immagine, perfino la sua ombra. Mulan è divenuta tutt’uno con sé stessa, la donna che ha sempre voluto essere agli occhi dei suoi genitori e di sé stessa. Una donna intrepida, risoluta, che sa cosa è giusto fare.
Mulan ancora non ne è a conoscenza, ma di lì a poco Li Shang varcherà la soglia della sua casa e i due potranno vedersi di nuovo, questa volta senza trucchi o inganni. Nel frattempo, Mushu ha fatto ritorno fra gli antenati: anche lui, d’ora in avanti, potrà rimirare il suo riflesso e vedersi per come ha sempre desiderato: un guardiano riconosciuto e amato da tutti.
E abbiamo pianto, “tessoro”, perché
eravamo tanto soli
Sorse un sole giallo in un giorno mite e radioso. La primavera era arrivata, e con i suoi vividi colori adornava i boschi. Sulle sponde dell’Anduin, gli alberi erano cresciuti rigogliosi e pieni di vita. Fiori variopinti germogliarono nei prati, e l’erba delle collinette della Contea era divenuta delicata e verdissima. Approfittando del bel tempo, due minute figure decisero di recarsi in una delle foci del fiume per una battuta di pesca. Su di una piccola imbarcazione, uno hobbit lasciava penzolare la lenza dalla canna da pesca, mentre il suo giovane amico si accingeva a innescare il proprio calamento. Quest’ultimo aveva gli occhi strabuzzati e teneva in mano una creaturina strisciante, osservandola con un ghigno irrisore. La lambì pochi istanti dopo con un piccolo utensile a forma di uncino. D’un tratto, uno di loro avvertì il morso di un pesce all’amo. “Ne ho preso uno, Smeagol” – disse il fortunato pescatore. “Tiralo fuori, Deagol” – esortò l’altro.
Il pesce, grande e grosso,
tentò di liberarsi con tutta la sua forza e riuscì a trascinare lo hobbit in
acqua. Deagol raggiunse il fondale e vide, nel limpido dell’alveo, un tremolante folgorio. Volse la mano e
ghermì quella perla dorata priva di alcuna conchiglia. Risalito in superficie,
Deagol cominciò a rimirare l’oggetto donatogli dal rigagnolo e ad accarezzarlo
come fosse una preziosa sfera perlacea.
Quando lo hobbit schiuse la mano, l’Unico, che giaceva su di essa, emergeva dal
lercio fango col suo fulgido chiarore. Il
colore dell’anello, mischiato allo sporco del terreno, emanava un’attrazione
ambigua: la bellezza apparente unta dalla sporcizia. L’anello rifulgeva
come il più seducente dei gioielli, ciononostante la melma scura che lo
insudiciava suggeriva l’oscurità celata dietro la più fervida perfezione.
Smeagol raggiunse Deagol di
tutta fretta, seguitando a sorridere scherzosamente. Intravide anch’egli lo
scintillio dell’anello e ne rimase profondamente rapito. Il suo sguardo
stralunato si confuse nel cerchio del tesoro. Smeagol chiese l’anello, come regalo per il suo compleanno. Deagol
rifiutò ed i due hobbit, ammattiti e deliranti, ingaggiarono un’aspra lotta. Smeagol
impazzì, e nella colluttazione uccise Deagol soffocandolo. Raccolse poi
l’anello, dedicandogli il più distorto e morboso dei suoi sorrisi.
La storia di Smeagol,
come quella di Bilbo, cominciò in un giorno di festa. Smeagol trovò l’anello al
mezzodì del suo compleanno, Bilbo se ne liberò la sera del suo centoundicesimo
anno di età. Nel prologo de “Il Signore
degli anelli – Il ritorno del Re”, l’occhio meccanico di Peter Jackson
dilatò la propria palpebra mirando un animale nauseabondo. Quel verme,
catturato dalla sadica presa del mezzuomo, suggeriva il tipo di essere che
Smeagol sarebbe presto diventato. Una
volta ottenuto l’anello, Smeagol si tramuterà lentamente in un essere
“viscido”, subdolo, untuoso, “insinuante”, un verme, per l’appunto, ingollato e
rigurgitato dalle tenebre.
La natura rinfrancante
che avvolgeva Smeagol e Deagol fu spettatrice silente e sconvolta di un folle
assassinio. Nell’Eden verdeggiante, Smeagol compì un atroce delitto: uccise un
suo congiunto. Il tetro affiorato dalla cristallinità dell’Anduin condusse gli
Hobbit alla follia. La quiete della foresta ed il sole luminoso che irradiava
il tutto non potevano preludere all’orrore che di lì a poco si sarebbe
verificato. E’ proprio in un’atmosfera di gioia, di pace, che il male
dell’anello trova il modo di promanare il proprio potere. L’Unico sconvolge la
serenità di una giornata felice, turbandola con l’orrore. Smeagol e Deagol
erano amici, famigliari, eppure, nel giro di pochi attimi, si tramutarono in
mostri, avvelenati da un aroma ipnotico, da una esalazione tossica che li rese
subito dipendenti da quel tesoro.
L’Unico irretì
istantaneamente lo spirito contorto dello hobbit e ne fece il proprio schiavo. Come Caino così Smeagol pose fine alla vita
del proprio “fratello”, invidioso della sua scoperta, agognando quella sua
conquista. L’Unico appariva inestimabile come uno scettro regale. Come Eteocle e Polinice, i due consanguinei
della mitologia greca, figli del re Edipo, Smeagol e Deagol combatterono tra
loro per ereditare un potere raro, prestigioso come la corona di un regno.
L’Unico, similmente al trono di Tebe, poteva essere conquistato soltanto da uno
dei due. Pur di impadronirsi di quell’oggetto, Smeagol e Deagol combatterono
tra loro fino alla morte. A differenza di Eteocle e Polinice, entrambi periti
in duello, tra i due hobbit, uno di loro riuscì a prevalere. Eteocle, come
Deagol, riceverà una degna sepoltura, Polinice come Smeagol no. Smeagol non morirà, subirà una metamorfosi
che lo renderà, col tempo, un cadavere errante dal pallido colorito, una
carcassa ambulante sprovvista di alcun tumulo. In quel mattino sorse un sole
giallo, l’indomani, a seguito dell’omicidio perpetrato da Smeagol, sarebbe
sorto un sole rosso poiché era stato
versato del sangue innocente.
Per aver commesso un tale
peccato, Smeagol verrà scacciato, espulso come uno straniero malvagio e
dall’anima informe. Smeagol non fu più uno hobbit, non fu più umano. Assunse le
sembianze di un individuo amorfo e sgradevole alla vista. Diventò, pertanto, lo straniero di ogni popolo, un essere
che non apparteneva più ad alcuna razza della Terra di Mezzo. Smeagol divenne
Gollum, indecifrabile nella propria mostruosità, unico come unico era l’anello che possedeva.
Smeagol si ritirò nelle
caverne, solitario, e lì, nel buio, avulso dal resto del mondo, dimenticò chi
fosse, smise di ricordare il sapore del pane, la delicatezza del vento, persino
il suo nome. Il corpo si deformò, e la gola cominciò a fargli molto male. Ad ogni parola pronunciata, Smeagol
rigurgitava un frammento della propria passata umanità, fino a che il dolore
scomparve del tutto, e dalla sua gola fluì il suo nuovo appellativo. Dai
suoi versi strazianti si udì “Gollum,
Gollum”. I suoi denti si fecero neri e appuntiti, la sua carne si fece
purulenta come prova emblematica del suo spirito consumato.
Peter Jackson, per
l’ultimo capitolo della trilogia, scelse di alzare il sipario mostrando il
tormentato avvenuto di Gollum. Questi,
come preannunciato da Gandalf nelle Miniere di Moria, rivestirà, sia nel bene che nel male, un ruolo fondamentale nell’ultima fase del viaggio di Frodo e Sam e
per il destino dell’anello. Il prologo de “Il
ritorno del re” pare volerlo preannunciare. L’esito del conflitto passerà
dalle sue mani.
Gollum tiene tra le sue
dita il destino dei popoli liberi di Arda come una moira. Una sua scelta errata
potrà spezzare le sorti, recidere con il taglio netto di un paio di forbici il
filo del fato.
Sveglia, dormiglioni!
Nelle lande desolate
della terra nera, la luce del giorno si era affievoliva. Le giornate si erano
fatte più corte, e su tutto l’ombra era calata. Il fumo esalato dal Monte Fato
copriva il cielo con una fitta bruma, e i raggi del sole non riuscivano a
valicare il fosco nell’aria. Le arti di Sauron avevano generato ammassi gassosi
di nuvole ferrigne che occultavano ogni barlume di luce, così che gli eserciti
del sire di Mordor potessero spostarsi con grande rapidità.
Frodo e Sam riposavano,
nascosti all’interno di una esigua spelonca. Gollum arrivò di soprassalto e li
esortò a riprendere il cammino. Frodo dedusse che le giornate si erano fatte
sempre più buie e avvilenti. Sam
raramente si lasciava sopraffare dalla tristezza. Il tempo angusto, però, era
capace di abbattere il suo spirito. Già durante i passi iniziali de “Le due torri”, Sam, osservando quei
nembi cupi e carichi di pioggia che dominavano la volta celeste di Mordor,
ammise di sentirsi impaurito. L’atmosfera torva e fuligginosa che avviluppava i
due hobbit, oramai sempre più vicini alla meta, metteva a dura prova le loro
resistenze e anche le loro speranze. Ma nulla poteva far demordere Sam. Subito
egli ricordò a Frodo che avrebbero dovuto dilazionare il cibo rimasto per il
viaggio di ritorno. Frodo, allora, rispose laconico con la sola espressione del
viso. Il nipote di Bilbo voleva nutrire ancora fiducia ma dal suo volto
trapelava un’ansia mista a profonda negatività.
In questo frangente, Samvise confida nella concreta possibilità di poter adempiere alla missione del proprio padrone. Pensare a rateizzare i viveri per il ritorno voleva dire, per Sam, valutare tangibilmente la fattibilità della sopravvivenza. Già da questa significativa affermazione è percepibile la tenacia che anima Sam. Sebbene il compito sia tutt’altro che agevole, egli non paventa l’eventualità che i due possano perire nell’impresa. Sam non lascia che il clima opprimente di Mordor genufletta il suo animo speranzoso. Man mano che le forze del suo padrone cederanno, Sam si farà carico di lui e del suo fardello.
La morte di Saruman
Gandalf, Aragorn, Legolas e Gimli raggiungono Isengard e ne osservano la caduta. Sui ruderi dell’industria guerrafondaia, Merry e Pipino banchettano prima di riabbracciare i loro amici. L’acqua del fiume ha diluito la perfidia di Saruman, le fiamme delle fornaci sono state estinte; il tronco, le foglie ed il verde hanno prevalso sul ferro e sull’acciaio.
Barbalbero riceve i
coraggiosi visitatori, accogliendoli nel suo nuovo reame depauperato dalle
insidie di Curumo. Il vecchio Ent ammette d’essere sollevato nel rivedere
Mithrandir, poiché Saruman, anche da sconfitto, risulta essere pericoloso.
Rinchiuso nella torre di Orthanc, Curunir ha avuto modo di prender coscienza
del proprio fallimento. Il bianco macchiatosi di nero emerge sulla cima del sozzo
pinnacolo. Lassù, Saruman seguita ad
osservare i suoi rivali dall’alto. La costruzione scenica ideata da Jackson
per questa sequenza è estremamente simbolica.
I buoni, vincitori del conflitto al Fosso di Helm, giacciono al suolo e, col capo rivolto all’insù, intravedono il loro nemico, il quale, persino nella disfatta, permane ancorato alla propria arroganza. Sulla vetta di Orthanc, Saruman manifesta nuovamente la propria albagia, e continua a sentirsi potente, superiore a coloro che avrebbe dovuto difendere. Su quella prominenza, lo stregone lascia che la sua protervia discenda fino al basso.
Lo stregone è fermamente convinto che le forze di Sauron si dispiegheranno numerose, abbattendosi sul più grande del regno degli uomini come un martello sull’incudine. Saruman pecca ancora di tracotanza, e presume che l’imminente vittoria dell’Oscuro Signore potrà essere ritenuta anche sua. Saruman non fu mai modesto, non amò mai le creature piccole ed indifese della Terra di Mezzo. Professandosi come il più potente e saggio degli Istari, Saruman non volse mai attenzione ai più deboli, se non per schiacciarli. Saruman si innalzò su di un piedistallo figurato. Sulla cima della torre, negli ultimi momenti della sua esistenza terrena, Saruman non metterà da parte la sua superbia. Guarderà ancora i suoi interlocutori dall’alto e da quella prominenza cadrà. Lo stregone verrà pugnalato alle spalle da Grima, il quale, a sua volta, verrà colpito a morte da Legolas. Ferito, Saruman precipiterà giù e morrà. Più in alto volle salire, più rovinosa fu la sua caduta. La prepotenza di Saruman cessò in quel lampo. Gandalf, mai innalzatosi al di sopra dei suoi simili, vide la fine di un vecchio amico dal bianco vestito e dal cuore nero.
La fine di Saruman, ideata per la versione estesa della pellicola, fu notevolmente differente rispetto a quanto scritto da Tolkien. Jackson riteneva concluso l’arco narrativo dello stregone corrotto. Saruman fu annientato dalla natura, dalla rivolta degli Ent. Nulla più sarebbe rimasto del suo potere. Abbracciando questo credo, Jackson decise di far morire Saruman nella sua Isengard decaduta. Nel romanzo del Professore, Saruman compariva sul finale come ultimo nemico, dopo aver assoggettato al proprio potere la Contea. Questa parte della storia sarebbe risultata eccessiva nella trasposizione cinematografica che, per ragioni di tempo e di ritmo, doveva necessariamente concludersi con la distruzione di Sauron ed il ritorno pacifico ad una Hobbiville mai realmente coinvolta nei drammi della Terra di Mezzo. La Contea, per Jackson, rimase sempre un luogo isolato dal resto di Arda. Una terra integra ed inalterata che non ricevette mai alcuna influenza dagli orrori della guerra.
Di tutti gli hobbit ficcanaso, Peregrino
Tuc, tu sei il peggiore!
Pipino scorse nell’acqua
un riverbero. Dunque si avvicinò, e raccolse una sfera vitrea. Gandalf, intuito
di cosa si trattasse, prese la gemma e la celò nel suo mantello. Quel piccolo globo inespressivo era un
occhio perennemente dilatato. Col suo gesto, Gandalf volle occultare lo
sguardo al Palantir, intimorito da colui che, lontano, stava guardando.
Carlo Collodi scrisse che “La curiosità, massime quando è spinta troppo, spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno”. Peregrino Tuc non riusciva a dormire né a distrarsi. Essere perennemente indiscreto era una sua prerogativa. Come tutti i Tuc, Pipino era interessato, invadente, avventuroso, impiccione e, come terrà Gandalf stesso a precisare, ficcanaso. Pipino guardava, doveva sempre guardare! La consistenza misteriosa del Palantir aveva interdetto ogni sua attenzione. Nel cuore della notte, Pipino si alzò e sottrasse la pietra veggente dalle mani di Gandalf. Volgendo il proprio sguardo nel Palantir, Peregrino, inavvertitamente, vide l’occhio infuocato di Sauron. Il Signore degli anelli si insinuò nella mente del piccolo hobbit, torturandolo. Pipino si salvò appena in tempo, grazie al tempestivo intervento di Gandalf.
Pipino,
come un burattino che sognava di diventare un bambino vero, era sovente curioso
ed ingenuo. La sua troppa curiosità gli stava costando
caro. Eppure, Pipino col suo errore riuscì a scorgere qualcosa d’importante. Vide un albero morente ed una città in
fiamme. Sauron avrebbe indirizzato le sue armate verso Gondor, per
distruggere Minas Tirith. La curiosità di Pipino gli arrecò dolore,
cionondimeno gli permise di anticipare i tragici eventi che si sarebbero
consumati di lì a breve.
Intenzionato ad avvertire
Gondor dell’incombente attacco, Gandalf si dirigere a Minas Tirith con Pipino.
Merry si congeda dal suo inseparabile amico, tra le lacrime e la mestizia. I
due non si erano mai separati. Sin dalla più tenera età, in qualsiasi pasticcio
fossero finiti, Merry era sempre rimasto accanto a Pipino. Ambedue, però, non si trovavano più nella fresca campagna, intenti a
giocherellare per tutta la notte sino a che il sole, emerso dalle ombre
dell’oriente, avrebbe proiettato i suoi raggi sul manto erboso della Contea.
Da Rohan a Gondor, Merry e Pipino avrebbero assistito e combattuto la guerra
più grande del loro tempo, e lo avrebbero fatto restando lontani. I conflitti generano addii, separazioni e
raramente la guerra porta alla riconciliazione. I due hobbit si renderanno presto
conto di quanto le battaglie siano le calamità più gravi.
L’albero del Re
In sella ad Ombromanto,
Gandalf ed il gracile hobbit volsero verso la città bianca. Minas Tirith
sorgeva su di una collina, ai piedi di un’imponente catena montuosa. Le mura della città erano state edificate
con la candida pietra, la quale scintillava come polvere di stelle quando
veniva raggiunta dall’abbraccio del sole ogni mezzodì. Pipino, piccolo
visitatore intimorito dalla vastità della capitale, colossale nella propria
maestosa presenza, varcò i cancelli del regno e giunse sino al settimo livello.
Nella cittadella, il mezzuomo toccò il suolo del vasto cortile. Lì, al centro, svettava alto come una
bandiera ed immobile come una scultura, un albero bianco senza neppure una
foglia. Pipino lo aveva già scorto quando pose lo sguardo sul Palantir.
L’albero di Gondor sarebbe presto stato arso da fiamme divoranti; di esso non
sarebbe rimasta che della cenere argentea. Quell’albero
era morto da molti anni e non dava alcun segno di resurrezione.
Tramontò il tempo in cui
l’albero del Re era rigoglioso e pieno di salute. La sua vitalità veniva
espressa dalla fioritura dei suoi rami. Nessun
fiore germogliava nei pressi come se attorno a sé l’albero emanasse un’aura di
sterilità. L’albero giaceva silente e quatto, dal suo tronco non sgorgava alcun
suono, dalle sue radici non trapelava il benché minimo anelito di rinascita.
Contrariamente agli alberi delle foreste, nessun Ent custodiva il riposo
dell’albero bianco. Esso, solitario, attendeva in un sonno senza respiro.
Peregrino Tuc, mirandolo
con la sua proverbiale indiscrezione, constatò che l’albero veniva sorvegliato
da alcune guardie fedeli. Erano gli uomini a proteggere il grande albero bianco.
Gli stessi nutrivano ancora speranza che esso, simbolo della gloria del reame
dell’uomo e della rinascita dei grandi Re, potesse, un giorno, destarsi dal suo
dormiveglia.
La speranza divampa
Poco dopo, Gandalf e Pipino incontrarono Denethor, il sovrintendente, mettendolo in guardia dall’avanzata degli eserciti di Sauron. Denethor, distrutto dal dolore per la morte del suo adorato primogenito, volle negare qualsiasi intervento e restò seduto sul suo seggio, immerso nella proprie tristi rimuginazioni.
Pipino, allora, si mise
all’opera. Arrampicatosi fino ad una torre, lo hobbit guadagnò la postazione
dei fuochi di segnalazione. Con coraggio e abilità, il mezzuomo accese la
grande pira e le fiamme si propagarono su di essa. In lontananza, alcune
vedette recepirono il segnale e diedero, a loro volta, fuoco alla catasta di
legno. Sulla cima di ogni monte, uomini vigilavano in costante allerta. Quando
videro il fuoco di Amon Dîn avvampare,
fecero altrettanto di postazione in postazione. Gandalf mirò il rosso delle
fiamme e constatò come la speranza divampasse nell’aria e valicasse l’acqua e l’aria,
le pianure ed i monti. La speranza si
estese oltrepassando ogni frontiera. I roghi luminosi alimentarono la
temerarietà di tutti.
Il fuoco, di colpo,
assume nel linguaggio estetico de “Il
Signore degli anelli” un valore speranzoso. In quelle fiamme è custodita la
fiducia, l’alleanza e la fratellanza che tiene uniti i popoli liberi della Terra
di Mezzo. Comunicando a distanza con l’accensione di una vampa, i gondoriani
reclamano la vicinanza dei loro fratelli. Il
fuoco, usato da Saruman in precedenza per distruggere, per bruciare, per
erigere una fabbrica guerresca, viene adesso usato da Gandalf per implorare l’umano
aiuto. La speranza prende i contorni
di una fiamma imperitura ed ondeggiante che, col suo acre fumo, si sparge sino
alla cupola celeste. In quel fuoco non vi è la brama di distruzione, bensì
la voglia di difendere tutto ciò che di bello c’è sulla Terra. Le lingue di
fuoco che fervono nel legno emanano l’aspettativa di una nuova alleanza che
potrà garantire la sopravvivenza della razza umana.
L’eterna memoria di un monarca
Così il segnale si protrasse fino ai confini di Rohan e fu avvistato da Aragorn. Proprio lui, l’erede al trono di Gondor e Arnor, ravvisò per primo la disperata richiesta d’aiuto del suo popolo. Le fiamme ardenti di Minas Tirith evocavano la venuta del re. Aragorn corse di gran carriera ed avvertì Théoden che Gondor necessitava dell’appoggio dei loro alleati. Théoden esitò per qualche istante. Perché avrebbe dovuto aiutare coloro che, governati da un funzionario freddo e distaccato, ignorarono il grido di dolore di Rohan?
In quell’attimo, quando Aragorn esortò i rohirrim a partire, Théoden ripensò a quanto detto da Saruman poco prima di spirare. Il Signore di Isengard accusò Théoden d’essere l’anello debole di una salda dinastia regale, e che il trionfo al Fosso di Helm non fu conquistato per meriti suoi. Théoden ribadì, sconvolto, questo concetto anche alla sua bella nipote, Éowyn. “Non è stato Théoden di Rohan a condurre il proprio popolo alla vittoria” - sibilò il regnante, per poi glissare su quanto pronunciato.
Théoden non
combatté con estrema vigoria durante il conflitto alla fortificazione di Helm
Mandimartello. Per la maggior parte del tempo, fino a quando gli Uruk-hai non
aprirono una breccia nel trombattorione, Théoden
stette a guardare, guidando i suoi uomini più con le parole e le esortazioni
che con la spada e gli scudi. Theoden,
ne “Le due torri”, appariva afflitto
dal maleficio infertogli da Curumo e Grima, il Vermilinguo. Era stanco,
dolente, ancora incredulo per la morte del proprio figliolo. Théoden trasse audacia soltanto nel
finale, quando Aragorn volle sollecitarlo a salire a cavallo e caricare i nemici
per un ultimo gesto di gloria. Agli occhi di Théoden fu Aragorn, coadiuvato dai suoi amici, a condurre Rohan
alla salvezza.
Il sire, angosciato da questa sua sensazione, accetta di rispondere alla supplica di Gondor, vedendo nella battaglia dei Campi del Pelennor l’ultima occasione per poter riscattare il proprio onore. Théoden sa, in cuor suo, che non vi è molta speranza. Gli eserciti di Sauron, cospicui e molteplici nelle loro schiere, li sovrasteranno. Eppure, il sovrano di Rohan vuole affrontarli ugualmente. Sarà dinanzi ai portoni di Minas Tirith che il destino del loro tempo verrà deciso. Théoden desidera conquistare la grandezza dei propri padri, ed è disposto a sacrificare la sua stessa vita pur di salvare il popolo indifeso della grande città bianca.
Nell’impeto della battaglia finale, Théoden vuol far echeggiare le proprie gesta. Come i celebri eroi della mitologia greca, il cui epiteto seguita a far eco nella gloria dei secoli, Théoden spera che il proprio nome venga ricordato in eterno, ma ancor di più egli si augura di poter essere ritenuto, dai propri sudditi, un Re magnanimo e valoroso così che la sua figura non possa sbiadire se confrontata a quella dei suoi avi.
L’ultimo viaggio di Arwen Undómiel
Arwen procede nei boschi
in sella ad un bianco destriero. Ella
indossa una veste cerulea come un mare calmo, rassegnato, le cui onde si adagiano
lente sulla riva, senza alcuna forza più ad animarle. Il suo volto candido,
radioso persino nell’accoramento
dell’addio, esterna l’arrendevolezza di un fato ineluttabile. Coi suoi
occhi azzurri, la dama di Gran Burrone osserva, docile, i boschi che la avvolgono
per un’ultima volta. Fu proprio in una
verde boscaglia che ella vide per la prima volta il suo amato. Tra le alte
betulle, Arwen scoprì un giovane che la stava osservando meravigliato. In quel
giorno, ella conobbe Aragorn e lesse il
proprio futuro nei suoi occhi.
Nel fitto bosco, lo splendido elfo femmina rimirò nuovamente il proprio avvenire. Un bambino sbucò dal nulla e corse felice, non curandosi affatto del passaggio dei nobili Eldar. Nessuno degli elfi lì presenti parve intravedere quel fanciullino dal biancastro vestito. Arwen orientò il suo sguardo su di lui e capì che era la sola a vederlo. Il bambino sorrideva felice tra i cespugli. Proseguì ancora fino a calcare un impalpabile balcone di pietra. Bianche colonne svettavano alte e, poco distante, un uomo volgeva lo sguardo verso l’orizzonte, oltre una ringhiera. Una luce solare affiorava dal profondo ed illuminava in ogni dove. L’uomo si voltò, rivelando d’essere Aragorn. I grigi capelli e la barba incolta suggerivano il naturale invecchiamento di un discendente di Numenor. Aragorn sollevò il bimbo, reggendolo con amore, e lo baciò sulla guancia. Attorno al collo, il fanciullo aveva la Stella del Vespro che brillava luminosa come una cuspide argentea. Quando Arwen riconobbe la gemma elfica, il piccolo le rivolse lo sguardo, ricambiando la sua attenzione, come se anch’egli riuscisse a vederla.
Eldarion, il futuro
figlio di Aragorn ed Arwen, apparve d’un tratto e per pochi attimi. Il piccino volle guardare sua madre senza
dir nulla, rendendola cosciente della sua prossima esistenza. Arwen si
commosse e comprese che il futuro non era ancora stato scritto. Arwen ereditò
per un solo momento il potere del padre, Elrond, infatti, aveva il dono della
preveggenza. Le parole del custode di Vilya riecheggiarono nella sua memoria: “Non c’è nulla per te qui, solo morte”. Arwen, però, aveva compreso che la vita non
era del tutto svanita dal remoto. Così, quando la rifulgente illusione si
dissolse come un’aurora, la dama abbandonò il percorso e tornò a Gran Burrone.
Arwen ha compiuto la sua scelta. Afferrando
quella fievole speranza, aggrappandosi a quel futuro non ancora sfumato, Arwen
ha rinunciato alla sua immortalità.
"Elrond" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Elrond vede la figlia
rientrare nella Dimora Accogliente e le rivolge parola. Le mani della giovane erano
diventate fredde, e la forza degli Eldar la stava abbandonando. La grazia
perpetua degli elfi si era disfatta. Arwen era diventata mortale. Il padre
della nobile fanciulla non avrebbe voluto che la figlia perdesse la propria
eternità, e così anche lo stesso Aragorn. Questi, perdutamente innamorato di
Arwen, avrebbe desiderato, pur patendo il rimpianto, che ella mantenesse la
propria essenza immutabile. Aragorn sapeva che l’amore, il più grande amore,
corrisponde al sacrificio. Egli avrebbe, con dolore, rinunciato ad avere Arwen con
sé pur di saperla al sicuro per sempre.
Ma
né Aragorn né Elrond poterono decidere per lei. Arwen, come il più puro degli
esseri liberi e fulgidi della razza elfica, mostrò, in questa sua decisione, la
propria femminile indipendenza, la propria coraggiosa autonomia. Soltanto lei
poteva scegliere per se stessa, nessun altro. Arwen amava
tanto, amava spontaneamente senza compendiare alcun limite. La sola possibilità
di poter riabbracciare il suo Re e di poter mettere al mondo suo figlio la
condusse verso l’adempimento del suo volere. Arwen è una donna forte, coraggiosa, e con la sua rinuncia palesa il
più grande degli amori provati. Elrond fatica a trattenere le lacrime
quando scopre che la sua discendente non è più immortale. Il destino di Arwen è
adesso legato al destino dell’anello, poiché ella non ha più forze sufficienti
per resistere al male che si diparte da Mordor. Con le forze residue, la nobile
fanciulla invita il padre a riforgiare la spada. Le arti degli elfi possono,
infatti, ricostruire Narsil, la gloriosa lama che fu di Elendil ed Isildur.
Arwen, tenendo il viso
celato sotto un cappuccio, osserva i frammenti della spada. Ella certamente
ricorda l’ultimo colloquio che ebbe con Aragorn, Vicino ai resti dell’arma, ella infuse coraggio al suo adorato. Gli
disse che non doveva temere il proprio destino, poiché egli avrebbe affrontato
quel male e sarebbe riuscito a primeggiare. Arwen rammenta quanto affermato
e agogna di poter instillare nuovo eroismo nel cuore del suo sire. Dalle ceneri
una fiamma sarà risvegliata. Una luce
dall'ombra spunterà. Rinnovata sarà la lama che fu spezzata. Il senza corona di
nuovo re sarà!
Con quest’ultima richiesta, Arwen fa sì che Narsil, la spada che rappresentava la stirpe spezzata dei sovrani, venga ricostituita. La nascita di Andúril sarà il primo annuncio simbolico del ritorno del Re. L’ultimo viaggio di Arwen non si compì mai, poiché ella rimase ad attendere, tra la vita e la morte.
La fiamma dell’occidente
Aragorn sogna Arwen. Come accaduto alla dama di Gran Burrone, anche Aragorn vede l’imminente. Differentemente da lei che vide il futuro da sveglia, Aragorn lo scruta in sogno. Estratti imprecisi, tasselli sparsi, immagini velate si susseguono nel suo incubo agitato. Aragorn vede Arwen distesa su di un letto, sfinita. La sua pelle raggiante è divenuta cerea, quasi esangue. Arwen sussurra con una voce spezzata un ultimo pensiero: “Come avrei voluto poterlo rivedere, un’ultima volta!”. Dopodiché, Aragorn vede se stesso in piedi, al cospetto del trono di Gondor, mentre smarrisce la Stella del Vespro ed essa, lambendo il suolo, si disintegra. Il figlio di Arathorn si sveglia di soprassalto. Egli non sa che ha veduto un nuovo futuro, un avvenire scuro e burrascoso, che tende ad intrecciarsi con quello lieto osservato da Arwen. Cosa significa quanto sognato da Aragorn? Perché egli ha visto la gemma elfica scivolargli via e infrangersi?
L’eventualità
che la Stella del Vespro possa rompersi indica come il futuro sia incerto e
suscettibile di cambiamenti rapidi ed incalzanti.
La Stella del Vespro che l’elfo femmina ha ammirato beatamente al collo del suo
figliolo, rischia di venire distrutta. Se questo dovesse accadere, il futuro
contemplato dallo sguardo attonito e felice di Arwen cesserebbe di esistere?
Aragorn si desta nel
cuore della notte, impaurito da ciò che i suoi sogni gli hanno mostrato. Il ramingo
viene convocato da Théoden, il
quale, dopo averlo accolto in una tenda, si ritira. Aragorn riceve qui la visita
di Elrond, che afferma d’essere giunto fino a lì per volere di colei che ama.
Arwen sta morendo e la luce della Stella del Vespro che Aragorn regge stretta a
sé si è quasi del tutto spenta. La gemma
elfica simboleggia il cuore palpitante di Arwen. Il dissolversi della sua luce
testimonia il dolore che Arwen sta tollerando. Aragorn sa che per salvare
la sua amata dovrà abbattere il più terribile dei mali ma sa anche che le forze
di Rohan e Gondor non potranno soverchiare i reggimenti dell’Oscuro Signore.
Elrond sprona Aragorn a
diventare ciò per cui è nato. Vedendo Andúril,
la fiamma dell’Occidente forgiata dai frammenti di Narsil, Aragorn comprende che Arwen gli sta dando l’ulteriore coraggio di cui
ha bisogno. Toccando l’elsa, Aragorn estrae la spada e mira le rune incise
sulla lama. La casata dei Re è stata ricostruita, è il momento che Aragorn
metta da parte il ramingo. Nell’opera letteraria di Tolkien, Arwen tessette un
vessillo nero. Su di esso era stato cucito dalla donna l’emblema di Elendil. Sfiorando la stoffa con le sue mani,
Aragorn agguantò il coraggio per addentrarsi nel viottolo che lo avrebbe
portato alla dimora dei Morti. Quando quel vessillo sarebbe sventolato
alto, tutti avrebbero rimirato il primo, trionfante, annuncio del ritorno del Re.
Nell’adattamento cinematografico di Peter Jackson, Arwen non “filerà” alcun
stendardo poco prima che Aragorn volga verso la montagna. Sarà proprio la ricostituzione della spada, ordinata da Arwen, a sostituire
la potenza simbolica di quel vessillo.
Aragorn ed Elrond,
parlando in lingua elfica, sembrano rievocare un recente passato. Nell’Ultima
Dimora Accogliente, poco prima che l’alba sorgesse e la Compagnia dell’Anello
partisse, Aragorn indugiava solitario nei pressi della tomba di sua madre. Con la mano, Aragorn scostò foglie
avvizzite dall’autunno che sostavano sull’effige marmorea. Quando libererà
il volto della statua che ritraeva Gilraen, Aragorn allungherà la mano e carezzerà le fredde gote della scultura.
Fu accompagnato in quel commuovente saluto da Elrond, il quale gli ricordò come
sua madre volesse per lui un futuro sereno. Gilraen volle proteggere Aragorn
dal suo arduo destino, pertanto lo nascose tra gli elfi. A loro, ella donò la stella più luminosa. Aragorn, conosciuto tra
gli elfi con l’appellativo di Estel, crebbe e divenne l’incarnazione persistente
della speranza.
Aragorn ed Elrond, poco
prima di salutarsi, ripeteranno quanto la moglie di Arathorn era solita dire: “Ho dato la speranza ai dunedain, non ne ho
conservata per me.” E’ giunta l’ora che Aragorn assuma le
fattezze della speranza, e si erga a stella guida di tutti. Brandendo la
sua nuova spada, e animato da un ritrovato impulso, Aragorn s’incammina verso i
Sentieri dei Morti. Avrebbe voluto compiere questo rischioso viaggio da solo,
ma isuoi fedeli amici, Legolas e Gimli non glielo permisero.
I tre avevano cominciato
quest’avventura insieme, ed insieme l’avrebbero finita.
"Legolas" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Legolas del Reame Boscoso
Una lunga chioma flava
cingeva un volto lindo, nel cui centro vi erano incastonati occhi azzurri, vigili e sapienti, che tanto avevano visto del mondo.
Costui era abbigliato con i colori della natura. Una considerevole dose di verde agghindava la sua veste ed una traccia
di marrone ciò che ne restava. Ghirigori ed ornamenti elfici guarnivano il
suo abito, impreziosendolo come ricami cuciti sulla seta. Legolas, l’elfo regale di Bosco Atro, giunse a Gran Burrone col suo
fedele corsiero. Lungo la schiena portava un arco con una faretra colma di
frecce e alla cintura due lunghi pugnali dai manici d’oro. L’erede di Thranduil
scese da cavallo e tornò a rimirare le bellezze della valle di Rivendell.
Quando tutto ebbe inizio,
quando la Compagnia dell’Anello vide l’albore della nascita, Legolas prese parte
al Concilio di Elrond, deciso a prestare il proprio aiuto. L’elfo conosceva Aragorn sin dalla sua giovinezza, e nutriva per lui un
affetto profondo e sincero. Fu proprio Legolas a difendere Aragorn dalla
stolta accusa di Boromir, che lo definì un mero “ramingo”. Legolas scattò
diritto, e tenne a precisare che Aragorn “Non
era un semplice ramingo, ma l’erede al trono di Gondor”. Legolas nutre per Aragorn l’affezione di un
migliore amico e, al contempo, la premura di un padre. Legolas era vecchio.
Vecchio come un elfo di aurea levatura, e pertanto eternamente giovane ed in
forze. La nascita di Legolas risale ai primi anni della Terza Era. Egli visse
per svariati secoli, ed assistette ai molteplici cambiamenti della Terra di
Mezzo. In virtù della sua “anzianità”,
Legolas provava per Aragorn ciò che, in seguito, proverà anche per Gimli, vale
a dire il sentimento di un’amicizia inattaccabile e l’amorevolezza di una
figura saggia e paterna.
Legolas era alto e
slanciato, come tutti gli altri elfi suoi analoghi. Qualcuno, cadendo in
errore, avrebbe potuto supporre che la sua statura fosse la più solenne tra i 9
della Compagnia dell’Anello. Prerogativa dei discendenti di Numenor era una
vistosa altezza. Aragorn, conseguentemente, risultava essere il più alto dei 9
compagni, persino più alto dell’elfo di Bosco Atro. Questi si distingueva come un arciere formidabile, ed un combattente
agile ed inafferrabile.La sua vista
acuta era in grado di adocchiare e discernere luoghi e creature sfuocate ed
elusive. Con ogni suo gesto, Legolas estrinsecava l’etereità della sua
razza. In particolare, sul passo di Caradhras, quando la neve fioccava copiosa,
flettendo le resistenze umane dei suoi amici, Legolas non avvertì alcun freddo né patì la tormenta. Come una
creatura di stoica resistenza, egli neppure risentiva del gelo, udendo per
primo l’empia voce di Saruman dispersa nell’aria.
Legolas è un essere
assennato e paziente, altruista e generoso. Sin dall’inizio, quando siederà nel
consiglio di Elrond, egli non si lascia coinvolgere nelle discussioni con
Gimli, evitando di redarguire il suo futuro amico quando questi lo aveva
accusato di voler assumersi il compito di distruggere l’anello. Soltanto per un
breve momento Legolas perderà le proprie sicurezze, e non farà uso della sua notoria
pacatezza. Quando gli eserciti di
Isengard marceranno sul Fosso di Helm, Legolas si farà prendere dalla
disperazione e confiderà ad Aragorn che non vi è speranza e che tutti i
presenti sarebbero morti. Poco dopo aver ascoltato quanto detto dall’elfo,
Aragorn si infurierà, affermando con fierezza che sarebbe morto volentieri come
un uomo di Rohan, consapevole che le possibilità di poter sopravvivere si erano
ridotte ulteriormente. Per una volta,
Aragorn, il più “giovane”, mostrò la fiducia che il più “anziano” non avrebbe
mai dovuto far vacillare in sé. Legolas se ne renderà presto conto, e, con la
sua grande sapienza, si riconcilierà immediatamente con Aragorn.
Col trascorrere dei
giorni, Legolas e Gimli stringeranno un rapporto di grande amicizia. Gli elfi
ed i nani, da sempre divisi da un’incomprensibile rivalità verranno finalmente
accomunati.
Legolas seguiterà sempre
a proteggere i suoi più fedeli amici, Aragorn e Gimli, quei “bambini” così come una volta egli stesso lì definì negli scritti
del Professore. E li difenderà come un padre. Quando Gimli verrà minacciato
da Eomer, sarà proprio Legolas ad armare il suo arco per schermare il suo amico
e, al Fosso di Helm, sarà sempre Legolas a salvare i due lanciando loro una
corda e issandoli lungo le mura, verso la salvezza. Nuovamente nella battaglia
finale davanti al Cancello Nero di Mordor, Legolas si preoccuperà di Aragorn,
prossimo ad essere sopraffatto dalla carica di un troll.
Da questi piccoli
dettagli, si può notare come Legolas protegga i suoi amici con la dedizione di
un amico e di un vecchio guardiano.
"Gimli" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Gimli, figlio di Glóin
Il concilio di Elrond
avrebbe presto avuto luogo. Membri appartenenti alla razze più disparate
sarebbero accorsi per presenziare. Poco distante da Legolas, una figura
tarchiata si fece avanti. Due occhi
buoni e delle guance paffute si intravedevano al di sotto di un elmo argenteo,
ed un naso pienotto spuntava da un viso quasi del tutto “taciuto” da una fitta
peluria che si estendeva sino alla pancia carnosa.
Gimli era un nano della
dinastia di Durin, figlio di Glóin,
uno dei componenti della compagnia di Thorin Scudodiquercia. Egli visse per
molti anni ad Erebor, dopo che suo padre ed i suoi familiari espugnarono la
Montagna Solitaria. Gimli era un nano
astuto e risoluto, sin dalla giovane età. Molto tempo prima, quando il
padre partì per raggiungere Thorin, Gimli espresse il desiderio di seguirlo, e
di prendere parte alla comitiva capeggiata da Gandalf il Grigio. Tuttavia, fu
ritenuto dal genitore troppo giovane per partecipare ad una missione così
pericolosa. Gimli, allora, attese, aspettò che la vita gli riservasse
l’occasione di dimostrare la propria determinazione e fermezza.
Gimli ricordava ciò che
sin dai tempi più antichi veniva detto sugli elfi. “Non rivolgerti agli Elfi per un consiglio, perché ti diranno sia no che
sì.” Come tutti i suoi simili, egli
diffidava di loro, reputandoli furbi
ciarlatani. “Nessuno si fida di un
elfo” – sbraitò nel primissimo diverbio che ebbe con Legolas. Ciononostante,
quando Gimli si proporrà come rappresentante dei nani all’interno della
Compagnia dell’Anello, egli comincerà ad interagire con Legolas. In principio,
i rapporti tra i due furono tesi, poiché Gimli conservava ancora tristi memorie
nel suo cuore. Egli rammentava che Thranduil, padre di Legolas, tenne
prigionieri nel proprio palazzo Glóin ed
i suoi congiunti durante la loro peregrinazione verso Erebor. I torti subiti
dalla stirpe nanica vengono fatti propri da Gimli, il quale va fiero della sua distintiva
razza. Gimli è, infatti, un nano orgoglioso ed altero, estremamente dotato in
combattimento. Brandisce un’ascia massiccia con cui è in grado di abbattere
orchi ed Uruk-hai con la medesima semplicità.
Il
suo legame affettivo con i suoi affini è tanto profondo.
Gimli fu il primo a proporre a Gandalf di attraversare le Miniere di Moria,
poiché era convinto che, in quei luoghi, Balin avesse ricostituito il reame di
Nanosterro. Quando Gimli oltrepassò i cancelli occidentali e vide, con
sgomento, che Moria si era tramutata in un sepolcro, fece sì che un urlo di
dolore si levasse alto, svanendo come un’eco nella profondità della Terra.
Nel giorno seguente,
Gimli rinverrà la tomba di Balin, scorgendola in una camera che era stata
assediata. Si inchinò dinanzi ad essa e
pianse. Una luce proveniente da un uscio scavato nella pietra irrompeva
dall’alto, illuminando il loculo. L’avello era cinto dai resti scheletrici di
altri nani, massacrati dagli orchi e dai troll di caverna. Gandalf troverà un
tomo impolverato, stretto tra le mani ossute di un vecchio e caro combattente.
In quel volume, Gandalf leggerà gli ultimi momenti di lotta vissuti dai nani
che tentarono di riconquistare il reame dannato di Moria. Gimli ricaverà dalla morte dei suoi simili la forza e la vanagloria per
affrontare le tenebre che avviluppavano Nanosterro. Egli manifestò la sua
audacia quando, irto sulla tomba di Balin, prese le sue asce e disse: “Che vengano pure, troveranno che qui a Moria
c’è ancora un nano che respira!”.
Gimli
capì quel giorno che si sarebbe elevato e sarebbe stato, un giorno, considerato
uno dei nani più celebri ed importanti dell’intera storia di Arda.
Gimli fu il solo nano a sopravvivere alle miniere e fu, altresì, il solo a
comprendere e a rimirare la bellezza degli elfi. Ammaliato dallo splendore di
Lady Galadriel, Gimli imparerà ad apprezzare
la grazia elfica, e deciderà di custodire la ciocca dorata. Col passare del
tempo, Gimli stringerà una profonda amicizia con Legolas, abbattendo ogni
divisione.
Quanta grandezza vi è nel cuore di Gimli? Egli è l’unico nano a combattere le battaglie più importanti della Guerra dell’Anello. Mentre tutti i suoi conformi si ritirarono nelle montagne, indifferenti al dramma arrecato da Sauron, Gimli fu l’unico ad ergersi come rappresentate della propria razza. E così fu ugualmente il solo ad ammirare l’essenza degli elfi, a provare amore ed amicizia per loro.
Gimli è un guerriero
implacabile e feroce ma anche un dispensatore di gioia e di sorrisi. Peter
Jackson scelse Gimli come personaggio ideale per distendere la tensione ed
elargire felicità. Gimli appare, infatti, molto simpatico non soltanto per il
pubblico che lo osserva ma anche per gli stessi personaggi. Éowyn, triste e affranta dai mesi di
prigionia vissuti nel suo castello con lo zio, divenuto inavvertitamente
schiavo del maleficio di Saruman, tornò a sorridere per la prima volta proprio
grazie a Gimli.
Il nano raccontava
aneddoti bislacchi sulla sua specie e poi, quando il suo cavallo s’imbizzarrì e
corse d’improvviso, egli cadde rovinosamente giù, suscitando le risate
affettuose della dama di Rohan. Gimli
dona vivacità, brio, felicità a coloro che lo osservano. Ed è forse questo il più grande pregio di
un personaggio astuto e di un guerriero imbattibile.
Aragorn, Legolas e Gimli
sono vincolati da un’amicizia incrollabile. Nel rapporto tra un elfo, un uomo ed un nano non vi è disparita, non vi
è differenza. E’ questa una metafora che tutti dovrebbero dedurre e fare
propria per comprendere come tutti i figli della Terra siano uguali nelle loro
diversità, poiché ogni diversità può essere una risorsa conoscitiva.
Alla vigilia della
battaglia, Aragorn prenderà la via verso il labirintico Sentiero dei Morti.
Legolas e Gimli, amici fedeli, non lo lasceranno solo. Poiché nella vera amicizia non vi è considerato l’abbandono.
Solo un’ombra ed un pensiero
Éowyn era
sveglia, cauta e vigilante come da consuetudine. Rimase accorta anche in piena notte. Vide coi suoi occhi attoniti
Aragorn andare via. Tentò di fermarlo, ma egli, garbatamente, le disse che
doveva lasciarla. Éowyn confessò
implicitamente il suo amore al ramingo, ma questi, cortese come solo i puri di
cuore sanno essere, le rispose che non poteva ricambiare e offrirle quello che
tanto desiderava. Il cuore di Aragorn
apparteneva ad Arwen, qualunque cosa fosse accaduta.
Éowyn si
intristì. Ella, innamorata di un’ombra e
di un pensiero, assimilò la forza dalla delusione, la spavalderia
dall’amarezza. Respinta delicatamente dall’uomo di cui si era invaghita, Éowyn poté incanalare il proprio
cordoglio e mutarlo in coraggio. Bramando
di morire dando la propria vita per i suoi cari, la creatura femminile escogitò
il modo di scendere in guerra.
Ella si avvicinò allora a
Merry, anch’egli respinto dai più. Éowyn era una principessa “ignorata” ed
una donna trascurata dai soldati. Merry, dal canto suo, era soltanto un
mezzuomo, non un uomo integro. La portata del suo braccio non era stimata dagli
altri guerrieri e la sua modesta stazza era fonte di derisione. Nessun
cavaliere lo avrebbe voluto come fardello. Merry voleva combattere per i suoi
amici, ma nessuno credeva in lui. Soltanto Éowyn intuì la forza nascosta nel suo cuore. Ella veniva sottovalutata dagli uomini
stolti, poiché era “soltanto” una donna,Merry, invece, veniva sottostimato in quanto minuto. Restando
vicini, Éowyn e Merry
paleseranno come le semplici apparenze siano fuorvianti. Éowyn si travestirà da soldato e, in
incognito, si infiltrerà tra i ranghi dei rohirrim.
Il coraggio e l’eccezionale forza delle donne vengono espressi pienamente dalla principessa di Rohan. Analogamente a quanto fatto da Arwen, Éowyn dimostrerà che nessuno potrà mai decidere per sé stessa al suo posto. La dama di Rohan cavalcherà verso Gondor, calpestando le discriminazioni e diventando un’eroina.
Merry seguirà la bella fanciulla. Lo Hobbit era stato da poco eletto scudiero di Rohan. Anche Pipino, il suo amico lontano, aveva guadagnato la carica di Guardia della Cittadella. Entrambi, però, sapevano che le loro investiture erano poco più che patine di poco valore. Avrebbero dovuto dimostrare nei momenti topici cosa erano davvero capaci di fare. Pipino, da una parte, salverà la vita a Faramir, preda del folle volere distruttore del padre, Merry, a sua volta, salverà Éowyn, durante il combattimento con il Re Stregone di Angmar. Faramir ed Éowyn, salvati dai due hobbit, si incontreranno nelle case di cura di Minas Tirith e lì si innamoreranno.
La carica dei rohirrim
Seimila lance furono
scosse, altrettanti scudi frantumati. L’esercito di Sauron aveva asserragliato
Osgiliath. Innumerevoli legioni si protrassero sino ai campi del Pelennor,
occupando l’intera vallata. Con le catapulte, gli orchi avevano inferto i primi
danni alla struttura esterna di Minas Tirith. Il cancello principale fu
brecciato e molti orchi riuscirono ad invadere i vari livelli della città,
seminando morte. Gandalf e Pipino si rifugiarono nella cittadella. Gandalf
volle infondere serenità al suo piccolo amico. Egli giudicava Pipino come un avventato ed uno sciocco. Più volte, a
Moria, volle rimproverarlo per la sua leggerezza. Quando la morte sembrò vicina,
Gandalf notò, forse, la sensibilità di Peregrino Tuc, il quale stava già
pensando alla fine. A quel punto,
Mithrandir volle tranquillizzare lo hobbit, ricordandogli che la morte è
soltanto un’altra via, che dovremmo prendere tutti. Una volta valicato il
“paradiso”, ogni anima trapassata può contemplare bianche sponde ed un verde
paesaggio sorto sotto una lesta aurora.
La descrizione astratta,
evocativa, di questo regno celestiale compiuta da Gandalf, corrisponde al credo
religioso, al sogno dell’infinito. I mortali sperano che dopo la fine ci possa
davvero essere l’immortalità dell’anima in un giardino di nuvole. Le bianche sponde tratteggiate dalle parole
dello stregone ristorano lo spirito dei credenti e danno loro la forza
necessaria per sostenere l’ultimo passo. Ma non era ancora l’ultimo atto!
Un
corno risuonò nella notte. L’alba era prossima a sorgere e le
armate dei Rohirrim erano sopraggiunte. Théoden
caricò il temperamento dei suoi uomini. Urlò: “Morte! Morte!” – il monarca di Rohan. Egli sapeva che sarebbe caduto in guerra e voleva far sì che la fama
dei Signori dei Cavalli echegiasse nell’eternità.Théoden non pensava in
quell’ultimo discorso alle bianche sponde che presto avrebbe mirato. Il paradiso agognato dal Re era la
memoria. Egli avrebbe vissuto nella
casa dei suoi padri e nelle illimitate reminiscenze della sua gente. Con la
morte i Signori dei Cavalli avrebbero ottenuto la vita eterna, nel ricordo, nella tradizione, nel racconto di ogni
generazione. I rohirrim marciarono, dunque, sui Campi del Pelennor con
incredibile audacia e travolsero i reggimenti avversari.
L’approdo degli Haradrim
La vittoria era vicina.
Le schiere di Sauron, benché più numerose, non poterono contrastare le
incursioni disperate degli uomini. Quando
tutto sembrò volgere per il meglio, versi atroci rimbombarono nel vento da un
breve distacco. La terra tremò, scossa da arti titanici poggiati
ritmicamente sulla distesa.
La cinepresa di Jackson inquadrò il volto stupefatto del regnante, poi seguì l’espressione sconvolta di Éomer. I rohirrim stavano osservando l’avanzata di una legione dalla devastante capacità offensiva. I soldati, impietriti ed esterrefatti, vennero colti dal timore. Jackson, similmente a quanto fece Steven Spielberg nel suo “Jurassic Park”, volle volgere il suo sguardo impassibile sui volti allibiti dei personaggi sulla scena, intenti ad osservare le mastodontiche sagome di alcuni animali. Il regista neozelandese non volle anticipare ciò che Théoden e gli altri stavano guardando, desiderò, invece, che gli spettatori avvertissero il pericolo attraverso lo sguardo inquieto degli eroi lì presenti. Sia in “Jurassic Park” che ne “Il ritorno del Re”, il pubblico percepisce l’avvento di un essere colossale mediante l’espressione intimorita dell’essere umano.
Gli Haradrim pervennero dal sud su enormi pachidermi. Una sfilza di Olifanti muoveva verso le mura di Minas Tirith. Tali fiere avrebbero raso al suolo tutto quello che si sarebbe parato loro davanti. Tolkien, forse ispirato dalle tecniche e dalle strategie belliche dell’antico condottiero cartaginese Annibale, ideò la razza degli Haradrim. Annibale era solito servirsi di grandi pachidermi tra gli schieramenti dei suoi eserciti. Nell’universo di Tolkien, i mûmakil erano elefanti grigi, con zanne d’avorio affilate e una mole possente. Alti più di un edificio, gli Olifanti venivano addomesticati dagli Haradrim e utilizzati come infallibili pedine di una scacchiera. In guerra, venivano dispiegati davanti potendo aprire ogni varco. L’enorme stazza di questi animali si rivelava adeguata per sbaragliare le unità avversarie e per abbattere ciascuna resistenza.
Nei Campi del Pelennor, i mûmakil sgominarono le fila dei rohirrim, generando il panico e lo scompiglio. I Rohirrim attinsero comunque ulteriore coraggio e riuscirono a tener testa alle titaniche creature. Nel caos del conflitto, Théoden venne artigliato da una creatura alata. Il re Stregone di Angmar spezzò il corpo del regnante di Rohan. Prima che la cavalcatura alata si cibasse dei suoi resti, Éowyn sopraggiunse e affrontò gli oscuri poteri del signore dei Nazgul. La ragazza trafisse il Re Stregone, colui che nessun uomo avrebbe mai potuto uccidere.
Una donna si innalzò oltre la più fulgida speranza ed abbatté un terribile male. Théoden spirò poco dopo, tra le braccia di sua nipote. Aveva raggiunto quello che anelava. Il ricordo di lui perdurerà per sempre tra i fuochi scintillanti ed imperituri dei più grandi monarchi di Rohan.
I Sentieri dei Morti
Un fiore nacque su di un
lattiginoso ramo. L’albero di Gondor
destò le sue braccia dal sonno e dai suoi polmoni lignei soffiò un alito di
rinascita. Nessuno notò quel fiore. L’albero
sentì che qualcosa stava avvenendo, che un Re stava rientrando, e risorse.
Sul cammino verso il Monte Fato, anche Frodo e Sam videro la statua di un
vecchio Re. La scultura era stata deturpata. La testa del sovrano ritratto, recisa dal resto dell’opera, giaceva a
terra, sul verde manto. La fronte era adornata da fiori colorati che nel
frattempo erano spuntati e che adesso formavano una sorta di corona attorno al
capo del Re. La natura lo aveva capito: Aragorn era prossimo a salire sul trono
di Gondor.
"Il ritorno del Re" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
In quel tempo, Aragorn si addentrò nei dintorni del Dwimorberg e perdette la diritta via. L’aria era diventata glaciale. I tre viaggiatori non incontrarono altrettante fiere sul loro cammino ma avvertirono la sensazione che il calore dei loro corpi gli fosse stato sottratto.
Aragorn
procede silente, incamminandosi in una selva oscura. Arrivato ad una
porta scavata nelle viscere della montagna, l’erede di Isildur varcò la soglia,
spingendosi in quel regno di morte dove la malvagità ristagnava e poteva essere
respirata come un effluvio maleodorante. Aragorn si incamminò verso
quella città dolente, tra l’eterno dolore e la gente perduta. Come il
sommo poeta, il ramingo discese nelle tenebre di un inferno terrestre e giunse nei
pressi di un limbo sconsacrato. Gimli non aveva ancora ben chiaro cosa si
celasse nei meandri di quella catena montuosa. Fu Legolas ad illuminarlo.
Legolas, rivestendo il ruolo di guida in questa discesa “agli inferi” nelle tenebre più tetre, assume i contorni del saggio Virgilio, il quale spiega ciò che nel buio attende d’essere liberato. Legolas racconta a Gimli che un tempo, un esercito negò aiuto ad Isildur quando questi ne ebbe necessità. Isildur maledisse quei soldati, imprigionandoli tra la vita e la morte. Essi non avrebbero avuto pace sino al giorno in cui riscatteranno il loro onore.
Gimli
rabbrividì nel percorrere il Sentiero dei Morti. I tre si protrassero sino ad
una sala dimenticata. Aragorn, Legolas e Gimli non avevano raggiunto l’Ade,
ma era come se si trovassero in un Antinferno. Laggiù, gli ignavi
vagavano come anime in pena. Essi non avevano preso posizione nella loro
vita, non mantennero mai la loro parola, il loro giuramento. I soldati
di Isildur erano diventati spettri crudeli e privi di alcuna dignità. Nella
vita preferirono astenersi dai loro compiti. E così come il Celestino V
dantesco non si preoccuparono mai d’adempiere ai loro doveri, ai loro obblighi.
Il Re dei Morti ed i suoi sudditi erano pigri, negligenti, anonimi, persone senza
infamia e senza lode, incapaci di scegliere, impossibilitati ad optare per il
bene o per il male. I fantasmi, da vivi, preferirono sottrarsi, restare in
disparte senza partecipare alla battaglia. Agirono meschinamente, senza schierarsi
mai a favore di un solo vessillo.
Aragorn incontrerà il Re dei Morti, il quale tenterà di ucciderlo. Nessuno può lambire la pelle di un non-morto, eccetto Aragorn, in quanto erede di Isildur. Il ramingo, per mezzo di Andúril, respinse l’attacco del Re. Questi rimase stupefatto nel notare che Aragorn poteva toccarlo. Nella versione cinematografica, il doppiaggio del Re dei Morti è differente rispetto a quello della versione estesa per una sola frase. Nel primo adattamento, esso dirà: “Quella stirpe fu spezzata” – riferendosi alla dinastia di Aragorn. Nel secondo adattamento, dirà: “Quella lama fu spezzata”, riferendosi a Narsil. Appare evidente, anche da queste differenze stilistiche e di parole, quanto la spada Andúril rappresenti, nella sua integrità, la ricostruzione della casata dei Re. Notando quella lama e vedendo Aragorn implorare il loro aiuto, i morti compresero chi avevano dinanzi: il vero erede al trono, l’unico che potrà liberarli dalla loro morte vivente.
I
morti accetteranno di combattere per Aragorn. Gli ignavi compiranno
finalmente una scelta.
Aragorn,
Legolas e Gimli, in testa all’esercito dei Morti, raggiungeranno le sponde di Gondor.
Sui Campi del Pelennor ristabiliranno il dominio degli uomini, decimando gli
eserciti nemici. Aragorn lo aveva giurato a Boromir in punto di morte: pur
non sapendo quanta forza aveva nel suo sangue, non avrebbe mai permesso che
Minas Tirith cadesse. E così fu!
Futuro nebuloso
Aragorn entra nella sala del re. Restando solo, il figlio di Gilraen pone la mano sul Palantir. Aragorn getta il suo guanto di sfida a Sauron. Egli vuole che l’Oscuro Signore cada nell’agguato e creda che gli uomini siano tanto sfrontati da attaccarlo a viso aperto. Aragorn vuole azzardare un ultimo tentativo. Riunendo gli eserciti di Rohan e Gondor, egli vuol marciare sul Nero Cancello, così da catturare lo sguardo di Sauron e tenerlo fisso su di sé. Sam e Frodo, se fossero vicini al Monte Fato, avrebbero la concreta possibilità di passare inosservati e giungere sino al baratro infuocato. Con il Palantir, Aragorn intima Sauron alla resa ma questi, riconoscendolo, gli mostra Arwen, inerte e cerea. Aragorn ne resta spiazzato, temendo che Arwen sia morta. In preda allo sconforto, Aragorn libera la presa dal Palantir e fa cadere, inavvertitamente, la Stella del Vespro al suolo. Ciò che aveva sognato si è avverato: la Stella del Vespro si è dissolta. Il futuro visto tra il sonno e la veglia da Aragorn si è avverato, ma non del tutto. Ciò vuol dire che la visione avuta da Arwen da sveglia è errata? Eldarion non avrà più la gemma elfica attorno al collo? Neppure lui esisterà più?
Invero,
come specificato da Elrond, il futuro in cui vi è ancora vita per Arwen è quasi
scomparso. Già, ma non completamente! Aragorn si appella alla flebile
speranza che il male promanato da Sauron possa venire assoggettato e sconfitto
e per questo decide di marciare su Mordor.
Padre e figlio
Faramir
non poté far nulla. Osgiliath venne asserragliata ed invasa col favore della
notte. Boromir l’aveva difesa prodemente tempo prima. Faramir non riuscì a fare
altrettanto. Le truppe nemiche erano superiori in numero. Con l’occupazione di
Osgiliath, l’esercito di Sauron avviò la propria mobilitazione sulla valle. Il
fallimento di Faramir avrebbe portato all’attacco a Minas Tirith. Faramir era
soltanto un uomo, non poteva fermare da solo le inarrestabili sortite nemiche. Eppure,
Denethor vedeva in lui l’inabilità, l’inettitudine. Il Sovrintendente di
Gondor versava ancora lacrime per la morte di Boromir, il suo figlio adorato.
Nella sua oscura follia, egli arrivò persino a confessare la propria
indifferenza nei riguardi di Faramir. Denethor avrebbe voluto che i posti dei
suoi figli fossero stati scambiati. Avrebbe agognato che Boromir vivesse e che
Faramir perisse. Un pensiero orribile tramutato in parole ed in un’esternazione
quando proferì tale agghiacciante verità.
Denethor
credeva di aver perduto Boromir in guerra. Non capì mai che egli perdette
suo figlio nel momento in cui volle ordinargli di portare l’anello a Gondor.
Quel pensiero mellifluo e insidioso offuscò la saggezza del primogenito.
Boromir avrebbe tenuto l’anello per sé, non lo avrebbe ceduto ad alcuno, non si
sarebbe più destituito da una simile possessione. Denethor condusse suo figlio
alla morte ben prima degli assalti operati dagli orchi. Faramir ne era
consapevole, cercò di avvisare il proprio genitore sul triste fato a cui andò
incontro Boromir ma senza riuscirci. Denethor ordinò a Faramir di condurre un
nuova offensiva su Osgiliath. La volontà del Sovrintendente divenne follia.
Faramir accettò, come ogni buon soldato volle assecondare l’ordine del proprio
comandante. Non agì come un uomo colto qual era, neppure come un assennato
studioso, rifiutando quell’atto suicida, volle compierlo, poiché Faramir si
comportò come un figliolo ubbidiente, devastato dalla mancanza di approvazione
del padre.
Poco
prima che la guerra cominciasse, il Capitano di Gondor guidò i suoi soldati.
Tutti li accolsero in un corteo funebre, salutandoli. In quella folla fiacca ed
angustiata, è possibile scorgere il volto di due piccoli bambini che
osservano: un maschietto ed una femminuccia. Non è la prima volta che questi
due pargoletti compaiono sulla scena. Se si osserva attentamente, si può notare
come Jackson abbia inserito questi due piccini in tutti e tre i film. Per la
prima volta, essi apparvero ad Hobbiville, durante il racconto di Bilbo circa
la sua disavventura con i troll. I due fanciullini tornano nel capitolo
successivo, rivestendo due ruoli differenti. Essi ne “Le due torri” restano nascosti nelle grotte del Fosso di Helm,
sorretti dall’abbraccio di alcuni famigliari. Ne “Il ritorno del re”, i bambini fanno parte della folla di Gondor. In
tutti e tre i capitoli della trilogia, essi osservano, silenti, gli eventi come
piccoli spettatori immersi nella pellicola.
Faramir avanzò verso gli avversari. Nel frattempo, Denethor, incurante, si accinse a pranzare. Si cibava con poca eleganza il Sovrintendente, sporcandosi continuamente il viso. La rozzezza delle sue scelte viene esternata dal modo volgare con cui si nutre. Quando Faramir verrà trafitto dalle frecce, la bocca di Denethor sarà macchiata di rosso, come se dalla sua bocca fuoriuscisse il sangue del proprio figlio. Con la sua ria lingua e con le sue labbra maligne, Denethor condusse i suoi figli alla morte.Quella scia rossa che cola lungo il suo mento evoca il sangue di un nobile che ha banchettato sul corpo morente del proprio figlio. Denethor, similmente al Conte Ugolino citato dall’Alighieri nella “Divina Commedia”, ha “desinato” sui resti del proprio eroico discendente.
Ma
Faramir non morì. Riuscì a sopravvivere e, grazie al provvidenziale intervento
di Pipino, raggiunse molto dopo le Case di Guarigione di Minas Tirith.
Moglie e marito
Éowyn fu trovata stesa a terra, morente. Éomer la scorse lontano e gridò devastato. Fu trasportata alle case di cura. Ivi venne guarita da Aragorn che rimarginò le ferite del suo corpo, anche se nulla poté fare per cicatrizzare la ferita che, non volendo, aveva inciso nel cuore della dama di Rohan. Nel sangue di Aragorn scorreva il potere della guarigione dei Numenoreani. Éowyn si riprese in fretta, ed in quel luogo incontrò Faramir.
Éowyn avrebbe desiderato morire in battaglia. Non le importava più niente. Credeva
che la vita non potesse elargirle alcuna felicità, e avrebbe voluto lasciare di
lei una meravigliosa reminiscenza. Ella capì a poco a poco che la vita poteva
ancora riservare molto per lei. Vide allora Faramir. Anch’egli aveva tentato di
morire. Non per la gloria, certo, ma per un desiderio di approvazione.
Faramir avrebbe voluto far ricordare il proprio nome al padre, e aveva creduto
che soltanto morendo ci sarebbe riuscito.
Éowyn non fu ricambiata da Aragorn, colui che per lei rappresentava un amore carnale e spirituale; Faramir, dal canto suo, non ricevette mai l’amore paterno che egli, da figlio, si sarebbe aspettato di avere dal genitore. Faramir ed Éowyn, entrambi feriti nel corpo da una guerra infausta e nel cuore da un amore non corrisposto, cominceranno a guarire insieme.
Poco distante dal Cancello Meridionale del regno, nella sesta cerchia di Minas Tirith, il secondogenito di Denethor si rimise in piedi. Volse lo sguardo in quei luoghi di asilo. Scorse i feriti, i malati, sorretti dalle amorevoli premure dei guaritori. Di colpo, Faramir mirò una bella creatura dai lunghi capelli impegnata a guardare l’orizzonte da un’altura. Gli occhi del gondoriano furono irradiati dalla fioca luce che dal corpo della fanciulla stillava. Éowyn sembrava essere una debole candela, la cui fiamma esigua consumava la poca cera rimastale. Un soffio di brezza avrebbe potuto “zittirla” del tutto. Éowyn era spenta come una mattina di pallido autunno, eppure, il Capitano di Gondor vide in lei un percettibile volere di fioritura. Ella era pronta a germogliare, a maturare come una donna felice in un giorno di primavera. Éowyn osservava gli eserciti procedere verso Mordor. In lei albergava la forza di combattere ancora. Eppure, quando Faramir le si avvicinò, i pensieri bellicosi svanirono del tutto ed Éowyn venne permeata dalla pace e da un affetto rifulgente. Lontana da ogni conflitto, Éowyn tornò a risplende di serenità.
Faramir adorava la scrittura, i vecchi racconti, la letteratura e la poesia. Fu finalmente felice di depositare arco e faretra. Si portò nei pressi della donna e i due si conobbero. L’affinità di Faramir accrebbe la fiammella dell’animo della dama e la candela tornò ad irrobustirsi.
L’amore tra Éowyn e Faramir non sboccia causalmente nelle Case di Guarigione.Il più puro e coinvolgente dei sentimenti può curare un corpo fiacco ed un’anima spenta più di qualsiasi altro rimedio. Il Capitano di Gondor e la signora di Rohan leniranno le proprie ferite vicendevolmente con la levità di una carezza e la dolcezza di un abbraccio. Sarà l’amore a ritemprare i loro fisici dimessi ed il loro spiriti fiacchi.
Al
mattino, sulla terrazza, Faramir baciò Éowyn
sotto un cielo assolato. Ambedue deposero le loro armi a terra, e,
finalmente liberi, si tennero per mano.
La distruzione
dell’Unico Anello
Frodo
e Sam giacevano sui pendii del Monte Fato. Frodo non aveva più alcuna forza, si
era ormai abbandonato all’abbraccio della calda roccia. “Non credo ci sarà un viaggio di ritorno, padron Frodo” – tuonò Sam.
Lo hobbit aveva perduto la speranza. Sam esternò un pensiero opposto a
quello pronunciato giorni prima. I due mezzuomini erano esausti. Sebbene
provati dal convincimento che non sarebbero sopravvissuti all’impresa, Frodo e
Sam continuavano a salire. Frodo si trascinava, ma il peso dell’anello divenne
insopportabile. Più le fiamme del Monte Fato si facevano vicine più l’anello
aumentava l’onere della propria custodia.
Sul collo dello hobbit si erano formate piaghe e lesioni, come se
l’Unico stesse divorando la carne del suo portatore. Sam si fece carico del
fardello, senza mai toglierlo al proprio padrone. Sollevò Frodo sulle sue
spalle e salì sino al passaggio.
Sam non fu mai tentato.
Non patì la corruzione dell’Unico. Ne ignorò sempre le cupe voci, le oscure
esalazioni. L’anello non poteva soggiogare l’animo di Sam, troppo candido. Sam
non ambiva a padroneggiare alcun potere, non aspirava ad assoggettare alcun
avversario. I suoi pensieri erano
rivolti alla propria casa, la sua amata terra. Non vi era menzogna, non vi era
cupidigia, non vi era avidità negli occhi di Sam. L’anello non poteva
servirsene. Conseguentemente, esso fece effluire tutte le sue arti oscure per
curvare la tempra di Frodo sino a condurlo allo stremo. Frodo non ce
l’avrebbe fatta senza Sam e, ugualmente, Sam avrebbe sofferto sin troppo se
fosse stato il solo portatore dell’anello. Ambedue, spalleggiandosi,
riuscirono ad adempiere a questo viaggio. Un’amicizia profonda legò Frodo a
Sam. Persino quando il padrone commise un grave errore e preferì seguire
Smeagol a discapito di Sam, l’amicizia tra i due non si dissolse. Sam comprese
che Frodo agì con stoltezza ma non fece nulla per fargli pesare il suo smacco.
Tornò indietro e salvò coraggiosamente il suo amico. Sam sostenne il
combattimento contro chiunque osasse intralciare il cammino verso la fine.
Nonostante venisse fronteggiato da esseri più grandi e potenti di lui, Sam non
si diede mai per vinto e riuscì a imporsi con la stoffa incomparabile del
proprio carattere. Sam da “spalla” divenne l’assoluto protagonista.
Sam,
il più grande degli eroi, nel mentre saliva e trasportava il proprio padrone
sulla schiena, pensò al panorama verdeggiante della Contea. Egli rimembrò la
bellezza della valle d’estate, la limpidezza del fiume Brandivino e la sua
fresca acqua. Ma soprattutto, Sam ammirò l’immagine, custodita nei suoi
ricordi, di Rosie Cotton. Nel calore infuocato del vulcano attivo, Sam
fu investito dalla frescura di una memoria che gli carezzò le guance stanche.
Rosie ballava felice, e teneva tra i capelli nastri bianchi che accentuavano
ancor di più il biondo dei suoi ricci. Quella parvenza materializzatasi nella
sua fantasia più nitida, servì a Sam per compiere l’ultimo sforzo. Raggiunto il
valico del Monte, Sam e Frodo furono aggrediti da Gollum. Come previsto da
Gandalf, Gollum avrebbe svolto un ruolo cruciale sul finale di questa storia. Infine,
Smeagol scelse il male, optò per essere ricordato solo e soltanto come Caino,
or dunque come un assassino.
Poco
distante dal Monte Fato, Aragorn capitanò gli eserciti di Gondor e Rohan. Non
vi era alcuna possibilità di vincere con la forza delle armi. Quello
orchestrato da Aragorn sarebbe stato l’ultimo atto per dare tempo a Frodo. I
popoli liberi non possedevano certezza. Non sapevano se il portatore
dell’anello fosse effettivamente in procinto di raggiungere la voragine di
fuoco. Aragorn per primo doveva soltanto sperare.
Aragorn
e Gandalf riposero le loro ultime aspettative nei loro cuori. Lo fecero da
sempre. Durante i festeggiamenti per la vittoria alla roccaforte di Helm,
Aragorn prese Gandalf in disparte e gli disse che di Frodo non vi era alcuna
notizia. Gandalf apparve pavido. Aragorn allora gli suggerì di pensare
fortemente a Frodo e capire cosa il suo cuore gli sussurrava. Gandalf
sorrise, poiché spesso il cuore è più saggio della ragione stessa.
Affidandosi ai loro cuori, ai loro sentimenti, gli eroi caricarono verso i
nemici, confidando nell’impossibile.
Aragorn infuse ardore
negli animi dei suoi fratelli. Non volle ingannarli. Non avrebbero ottenuto la
vittoria, ma avrebbero dovuto soltanto resistere. Reggere per tutto ciò che
ritenevano caro. L’era degli uomini non era ancora finita. Lo sarebbe stato un
giorno. Ma non quel giorno!
Aragorn
avanzò per primo e lo fece per Frodo. Pochi rammentarono Sam. Eppure, in
quei frangenti, proprio Sam si contorceva nella lotta con Gollum, per
facilitare l’ingresso nel valico del Monte Fato a Frodo. Ivi, il portatore fu
posseduto dall’Unico e la situazione parve precipitare. Aragorn cadde a terra,
schiacciato dalla forza bruta di un troll. Gli eroi della Compagnia erano
spossati e stremati. Gollum ghermì l’anello e lo ammirò sorridente. Egli fece
lo stesso sorriso del passato quando, da umano, osservò quel verme nauseante.
Frodo rinsavì, si mise in piedi e spinse Gollum giù. Questi morì e portò
l’anello con sé. Il male si disgregò. La torre di Barad-dûr collassò
e l’occhio di Sauron si spense nel suo stesso fuoco. Le armate di Mordor,
plasmate col potere dell’Unico, si dileguarono e gli eroi della Compagnia
sopravvissero.
Frodo rimase appeso, appollaiato alla sporgenza. Non aveva alcuna energia, stava per cedere. Giunse Sam e gli porse la sua mano. Frodo vacillò, poi scelse di afferrarla e lo hobbit lo portò su. Un momento simile i due mezzuomini lo vissero tempo innanzi. Quando Frodo volle andare a Mordor da solo, prese con sé una barca e lasciò Amon Hen. Sam lo seguì e per far fede al suo giuramento, arrivò persino a tuffarsi in acqua. Il povero hobbit non sapeva nuotare. Si perse così nel fondale, tendendo la mano verso l’alto. Frodo lo vide e allungò la presa per farlo salire a bordo.
Nel
Monte Fato avvenne il contrario: Sam, in alto, avvicinò la mano e acchiappò il
suo padrone. Frodo aveva salvato Sam da un sepolcro acquatico, Sam salvò
Frodo da una tomba di fuoco.
I
due hobbit, sfibrati, verranno recuperati da Gandalf e dalle aquile.
L’impossibile divenne possibile.
L’incoronazione
del sire Elessar
Gandalf
pose la corona sul capo di Aragorn. Questi quasi non trasse respiro.
Aveva fatto fronte ai dissidi più aspri, cionondimeno sentiva in cuor suo che
l’accettazione del proprio destino da Re fosse il compito più impegnativo e
ardimentoso che avrebbe dovuto ancora svolgere. I giorni di pace erano giunti.
Aragorn doveva guidare la sua gente verso un radioso avvenire. Finalmente si sentì
pronto per essere la stella brillante del suo reame. Aragorn, dunque, sospirò
felice, e si voltò verso il popolo che lo accolse festante. Intonò un canto e
camminò.
Egli intravide Arwen, nascosta dietro un drappo di seta. Il suo volto splendeva come il raggio di luna riflesso nello specchio d’acqua di un lago. Ella stringeva tra le mani una candida asta sulla cui sommità svettava un vessillo bianco. Su tale “araldico” era stato impresso l’albero di Gondor. Esso era rifiorito, aveva ripreso a vivere con il ritorno del vero Re. Petali di vario colore fioccavano dall’alto creando una magica atmosfera. Non vi era però spettacolo alcuno che potesse distogliere Aragorn dal volto della sua adorata. Arwen tenne lo stendardo e lo porse al suo amato. Ricambiò la sua espressione armoniosa ma solo per qualche istante. La dama di Gran Burrone manteneva il viso basso. Intimidita, peritosa la fanciulla tentennò, credette forse che l’incoronazione avesse mutato il cuore di Aragorn e che egli non volesse prenderla in moglie. Nella sua dolce esitazione, Arwen emanò la debolezza della sua mortalità, della sua umanità. Aragorn rimase sorpreso della timidezza della fanciulla. Per lui nulla era cambiato. Il male era stato disfatto e l’amore, adesso, poteva essere vissuto. Aragorn sfiorò le gote della nobile fanciulla ed ella sorrise, commuovendosi. A quel punto egli la baciò. Una fragranza di gioia avvolse i due innamorati. I loro occhi felici sfavillarono come stelle nel cielo. Aragorn e Arwen si abbracciarono e nulla più li separò. Il futuro più roseo venne coronato. Aragorn sposò Arwen nella città dei Re ed ella divenne la sua regina.
Il Signore degli
Anelli di Frodo Baggins
I quattro mezzuomini
tornarono nella Contea. Frodo, Merry e Pipino faticavano ad adattarsi nuovamente
allo stile di vita della Contea, Sam no! La purezza di quest’ultimo gli permise
di disfarsi in fretta di tutti i residuati di Mordor e di lasciarsi quella
fatica alle spalle. Egli adorava Hobbiville, non avrebbe anteposto a quel luogo
nulla al mondo. Sam rientrò nella sua terra natia e poté rivedere Rosie. La conosceva sin bambino e, forse, l’amò
ancor prima di comprendere cosa fosse realmente l’amore. Fino ad allora non
ebbe mai l’impavidità di dichiararsi. Che ironia! Samwise l’impavido, colui che affrontò orchi e progenie di Ungoliant,
che sconfisse goblin e luridi esseri, provava ancora un certo timore nel
guardare gli occhi profondi della bella Rosie. Il suo sguardo si perdeva in
lei. Talvolta, quando la ammirava in segreto ella avvertiva l’attenzione e
ricambiava lo sguardo a sua volta. Sam, allora, indirizzava gli occhi da
un’altra parte, imbarazzato. Il suo fiato
sembrava interrompersi quando provava anche solo a bisbigliarle qualcosa. Nei
mesi precedenti non riusciva neppure ad invitarla a ballare. Sam, il temerario
aveva una sola paura, a quanto dava a vedere: che Rosie potesse respingerlo. Una
sera prese l’iniziativa, confessò il suo amore a Rosie e la prese in moglie. Sam realizzò il suo sogno, spinto dal
coraggio e dalla sua amorevole umiltà, e fu felice.
Nelle settimane
successive Frodo si dedicò alla scrittura. Proseguì sulle pagine rimaste
intonse del libro di Bilbo. Tredici mesi dopo, ultimò il suo racconto: “Il Signore degli Anelli”. La ferita alla
spalla che Frodo aveva rimediato a Colle Vento continuava a fargli male. Essa non sarebbe mai scomparsa, segno di
come quello che aveva vissuto non sarebbe mai andato via. Frodo, allora,
decise di partire per un nuovo viaggio. Accompagnato da Bilbo, egli raggiunse
Gandalf, salutò Sam e navigò sino alle Terre Immortali. Sulle rive si sciolse
la Compagnia dell’Anello. I due hobbit protagonisti delle storie del Professore
fecero un’ultima avventura. Non sarebbero più tornati. Sam ereditò il libro di
Bilbo e Frodo. In quelle pagine, la scrittura, tanto amata da Tolkien, aveva
immortalato l’amicizia, l’ardore, l’eroismo di eroi le cui azioni echeggeranno
per sempre.
Sam tornò a casa, baciò
sua moglie e accarezzò i suoi figli. Per lui niente era cambiato. La Contea era
stata salvata ed egli la guardava. Essa era bella come era sempre stata.
Rientrò in casa con la propria famiglia e serrò la porta. La storia, com’era cominciata, finì in una casa scavata nella terra.
Tale vano non era certo un brutto buco, sudicio e umido, con la presenza di
vermi e pervaso da un lezzo maleodorante; e neppure spoglio, arido e inospitale,
senza nulla su cui sedersi né qualcosa da mettere sotto i denti: era un buco hobbit,
vale a dire comodo e accogliente.
Il narrato del “Signore degli anelli” si dissolse sulla
casa di Sam, lo hobbit che forgiò il destino di tutti.
"Gandalf fronteggia il Flagello di Durin" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Attraverso l’acqua e le fiamme
Quand’erano innevate, le Montagne Nebbiose somigliavano ad una
vasta distesa canuta, un candido manto che ornava l’azzurro del cielo. Non
tutti appellavano le Montagne Nebbiose in tal modo. Alcuni prediligevano soprannominarle
Torri Brumose, poiché erano alte,
slanciate come imponenti pinnacoli, e massicce come torrioni fortificati. Su quelle vette regnava un assoluto silenzio.
Ad una tale altitudine nulla turbava mai il laconico sereno della natura. Un giorno, però, l’eco di un
conflitto scosse la placida alba. Urla intimidatorie e versi frastornanti irrompevano
dal profondo, frantumando lo spessore delle rupi. Una battaglia stava
infuriando nel ventre della montagna, nell’oscuro subbuglio dell’antico reame
di Moria.
Al principio de “Il Signore degli Anelli – Le due torri”,
la cinepresa di Peter Jackson sorvola una catena montuosa, osservando la stessa
con astratta ammirazione, ed eternando la bianca appariscenza della coltre di
neve adagiata sulle grandi cime. Tuttavia, il regista non può soffermarsi a
lungo ad immortalare quel paesaggio fantastico, poiché il clamore del
combattimento richiama ineluttabilmente la sua attenzione. Il cineasta orienta,
dunque, il proprio sguardo impassibile sul fianco del massiccio roccioso, sino ad
oltrepassare la spessa materia e a giungere presso il ponte di Khazad-dûm.In quei vasti antri si
estendeva l’arcaico reame nanico. Le grida di dolore, di resistenza, che
filtravano forti, varcando i confini delle miniere, erano quelle di Gandalf,
prossimo a sacrificare la propria vita per arrestare l’avanzata del flagello di Durin.
Questo mostro d’origine antica dimorava negli oscuri cunicoli delle montagne. Ivi dormì per millenni fin quando il loculo pietroso che serbava il suo sonno non fu spalancato. I nani di Moria scavarono a fondo con avidità e ingordigia. Infrangendo la pietra, solcando la roccia, i Lungobarbi erano soliti rinvenire un prezioso metallo: il mithril. Con questo raro minerale i nani forgiarono i cancelli occidentali del regno. Gandalf scambiò quell’argento rifulgente per ithilden quando raggiunse le mura di Moria, al culmine della sua vita terrena. Il mithril costituì, per una moltitudine di decenni, l’inestimabile tesoro della grande città di Nanosterro. La bramosia di recuperare più Argentovero portò i figli di Aulë a condurre i loro scavi sempre più in profondità. Nel buio, disseppellirono un terrore innominato. Dapprima, essi videro una grande ombra all’interno della quale si stagliava una figura intrisa di fuoco. Occhi rossi si dilatarono d’improvviso, una fiamma si levò alta formando una folta criniera, rossa e giallastra, sul volto occultato dell’essere. Due masse nebulose simili a delle enormi braccia si mossero, e materializzarono una spada fiammeggiante.
Qualcuno, un tempo, disse
che la scoperta, più spesso di quel
che si creda, non possiede nulla
d’eccezionale. Essa è una penetrazione attiva che distrugge ciò che esplora,
e non è altro che uno stupro perpetrato
su di una vergine realtà. Nell’esplorare ogni angolo remoto della montagna
e nel voler giungere sino al cuore buio della stessa, i nani compirono la loro più grande e terrificante scoperta.
Ridestarono un male atavico ed arcano, dileguatosi nelle atroci memorie di
un’era oscura, in cui Morgoth mosse guerra contro i Valar. Il Balrog fu una scoperta infausta, adempiuta per un desiderio
d’irraggiungibile sazietà, che distrusse la pace di una natura irrimediabilmente
contaminata. Quando le fiamme del demone tornarono ad accendersi, rosse e
spaventose, i nani furono decimati. Moria divenne un sepolcro smisurato, in cui
l’Ainu immondo poté risiedere per innumerabili lustri. La punizione per
l’avarizia dei Lungobarbi si espletò in quel momento. Quel Balrog, come tutti i
suoi simili, era un Maia, un essere
d’origine divina. I Balrog vennero sedotti da Melkor ed assunsero, una
volta discesi su Arda, l’aspetto di demoni
avvolti nel fuoco più intenso ed inestinguibile.
Quando Tolkien concepì i Balrog
richiamò a sé, nuovamente, l’elemento narrativo della corruzione angelica. Tolkien trasse più volte ispirazione dal
racconto biblico per stilare la cosmogonia del proprio universo fantastico. I
primissimi figli di Eru, il Dio della mitologia Tolkieniana, furono i Valar. Tra
essi, Melkor si distinse come il più
potente. Egli cominciò a covare, ben presto, desideri oscuri, e scelse di
ribellarsi al suo Creatore. Nelle
credenze cristiane, Lucifero risultava essere il più bello e splendente degli
arcangeli. La sua magnificenza veniva espressa, anzitutto, dal suo nome, il
quale soleva significare “portatore di
luce”. Sul volto di Lucifero calò sin da subito l’oscurità e la sua mente
si fece nera. Egli si ribellò al volere di Dio, considerandosi superiore a Lui.
Sia Lucifero che Melkor, una volta discesi
sulla Terra, seminarono il male nel Creato. Entrambi verranno conosciuti
con appellativi nuovi e tanto differenti: Lucifero, stando alla tradizione
cristiana, diverrà Satana, Melkor,
negli scritti del Professore, Morgoth.
Deturpati dalla malvagità
del loro Signore e padrone, Morgoth, i Balrog assunsero fattezze demoniache, passando da esseri celestiali a creature
infernali. Dai corpi mortali su cui si incarnarono fecero esacerbare il
fuoco avvampante. I Balrog sono “angeli
dannati” e sembrano promanare sulla Terra le fiamme degli Inferi.
Quando i 9 viandanti
affrontarono le lunghe tenebre di Moria intravidero in lontananza il fascio di
luce infuocata effuso dal demone. Al suo manifestarsi, gli orchi di Moria
fuggirono terrorizzati. Non appena Gandalf identificò quel guizzo di fulgore
con la denominazione di Balrog, l’occhio di Jackson si soffermò sul volto
atterrito di Legolas. Non una scelta casuale. Il figlio di Thranduil, come
tutti gli elfi, aveva memoria del devastante potere di quell’entità. Dinanzi
alla compagnia dell’Anello, il Balrog emerse dalle fiamme e ruggì. Il mostro bruciava senza consumarsi e,
poggiando gli arti inferiori al suolo, faceva sì che un fumo nero esalasse sino
a disperdersi nel nulla. Gandalf fece precipitare la tremenda creatura nel
baratro, ma essa non si dette per vinta. Brandì la frusta incandescente ed
afferrò la gamba dello stregone, trascinandolo nell’abisso. Tutto sembrò ripetersi
ma qualcosa, all’inizio de “Le due torri”,
cambiò. Gandalf non scomparve, esanime, nell’oblio, come mostrato ne “La compagnia dell’Anello”. Non appena
Mithrandir lasciò la presa, la musica si fece alta, il ritmo avvincente. La
camera di Jackson si tuffò nella voragine e seguì la caduta del fu Olórin.
Il sipario sul fato di Gandalf non era ancora calato. Jackson, nel primo capitolo della trilogia, dovette congedarsi in
fretta dallo stregone. Non poté trattenersi, volle seguire la fuga della compagnia
dalla miniere, e catturare la disperazione dei loro pianti. All’inizio del
secondo capitolo, Jackson decise di tornare indietro, per render più chiaro il
destino di Gandalf. Il grigio pellegrino precipitò nel vuoto, riafferrò la
spada e proseguì il combattimento con questo titanico nemico.
Il Balrog cadde dal suo regno verso una voragine inesplorata, esattamente come accadde a Lucifero, gettato giù dalla volta celeste. Le ali del Balrog, per come sono state rappresentate nella pellicola, mi riportano alla mente le ali angeliche dello stesso Lucifero, così come egli venne dipinto da Gustave Doré. Su quella "tela", Satana precipita dal cielo stellato, abbandona la fulgida luce di Dio per addentrarsi nella dimensione terrena.
Il fuoco propagato dal
Balrog illuminò il buio. Gandalf trafisse più e più volte l’epidermide rovente
del demone. I due terminarono la loro caduta su di un lago sotterraneo che smorzò
il calore dell’essere. Al contatto con l’acqua, il flashback ebbe fine e Frodo
si risvegliò. Era tutto un sogno del mezzuomo, o invero una visione onirica ma
veritiera di ciò che effettivamente accadde. Perché Frodo vide in sogno la prosecuzione
del destino di Gandalf? Di certo, perché il portatore dell’anello nutriva
ancora dolore nel suo cuore, ma non solo. Frodo
sentiva altresì il rimorso. Fu proprio lo hobbit a scegliere di valicare le
Miniere di Moria. Quando Gimli, sul passo di Caradhras, incalzò con i suoi
consigli, Gandalf, consapevole dei pericoli, lasciò la decisione finale al
portatore. “Colui che porta l’anello
decida!” – disse lo stregone. E lo hobbit rispose: “Attraverseremo le miniere!”.
Frodo, senza colpa,
scelse l’unica via rimasta, il sentiero che avrebbe trascinato Gandalf
nell’abisso. Lo Hobbit avvertiva un ingiustificato senso di colpa, proseguì poi sull’impervio cammino con Samwise,
quando entrambi intuirono d’essere seguiti.
"Gollum" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
La pietà di Bilbo può cambiare il destino
di molti
Sam ammise, scoraggiato,
d’essersi smarrito. Sia lui che Frodo erravano incerti verso una meta che non
riuscivano in alcun modo a raggiungere. Al calar della notte, una creatura denutrita
e pallida si avvicinò. Quest’essere parlava
tra sée sé a voce alta, manifestando
una rabbia mai sopita, un odio non svanito. “Ladri, ladri, ce l’hanno tolto, rubato!” – seguitava ad affermare
tale viscida figura.
Frodo e Sam lo sorpresero
di colpo e bloccarono Gollum a terra. I due hobbit sapevano d’essere osservati
e attesero le tenebre per catturare quello scarno segugio. Gollum, per avere
salva la pelle, offrì ai mezzuomini i propri servigi: giurò sul tesoro di guidare Frodo sino a Mordor. Gollum era un
viaggiatore esperto e sapiente, un barcaiolo astuto ed un abile arrampicatore.
Poche erano le destinazioni in cui non riusciva a giungere ed i luoghi in cui
non poteva accedere.
La
pietà di Bilbo cominciò ad indirizzare il destino di Frodo e dell’anello.
I due hobbit, incapaci di raggiungere il Monte Fato da soli, troveranno nella
cruenta personalità di Gollum un alleato sul loro tortuoso percorso. I tre
viaggiatori verranno, nuovamente, braccati dai morti. Al guado del Bruinen, gli
spettri dell’anello erano stati spazzati via dalle acque burrascose scatenate
da Arwen. Tuttavia, essi non annegarono
nella limpidezza del fiume ma riaffiorarono dal putrido dei loro residui. I Nazgul sovrastano, adesso, la cupola
celeste in sella a fiere alate.
Queste bestie dalle ali a guisa di pipistrello emettono versi stridenti che
terrorizzano i poveri mezzuomini. I cavalieri neri scrutano come falchi
tenebrosi gli acquitrini nel vano sforzo di adunghiare incauti viandanti. Gollum
rammenterà a Sam che i “fantasmi dell’ombra” sono impossibili da uccidere e che
non cesseranno mai di tallonarli. Volando nel cinereo del cielo, il Nazgul si
dileguerà poco dopo.
Il passato di Gollum è impregnato di mestizia, d’orrore e di peccato. Il suo corpo minuto, e la sua fisicità emaciata, sofferente, consumata, esternano la deformazione della malvagità. Ancor prima che nella mente, egli appare mostruoso e terribile nel corpo. Gollum, un tempo, fu Smeagol, ma del suo passato “umano” non era rimasto che un debole pressappoco. L’anello aveva trovato Gollum cinquecento anni prima. Nel fondale del fiume Anduin, esso luccicava come una moneta d’oro dalla doppia faccia. Come un’esalazione tossica, l’Unico traviò la mente di Smeagol, curvò il suo corpo, impallidì la sua epidermide. Soltanto un colore restò ben visibile in quel cadavere nomade: l’azzurro dei suoi occhi. L’anello divenne per Smeagol la sua unica ragione di vita. Egli vincolò a quel male la sua anima, e il suo corpo iniziò a deformarsi di pari passo alla malvagità che l’Unico riversava nel suo cuore. Similmente ad un personaggio della letteratura inglese, concepito dalla prolifica penna di Oscar Wilde, Gollum “vendette” la propria anima al peggiore dei mali. Ma se il personaggio dell’opera letteraria di Wilde, nonostante gli orrori commessi, riusciva a mantenersi giovane e attraente poiché una tela dipinta inorridiva al suo posto, Gollum non poté fare altrettanto: ogni suo peccato, ogni sua torbida azione, ogni sua oscura e tormentata contemplazione all’anello finì per deturpare sempre di più il suo corpo. Smeagol divenne l’orripilante Gollum, e la sua disgustosa fattezza fu la testimonianza della sua contaminazione. Col passare del tempo, Gollum sviluppò una doppia personalità. Iniziò a parlare da solo, a dialogare animosamente con se stesso, come se al suo interno si celassero due persone diverse e ben distinte. Gollum patisce quella che sembra essere un’astrusa ed enfatica schizofrenia. Due caratteri, differenti, oscillanti tra passato e presente, dilaniano la coscienza dell’essere: Smeagol e Gollum. Pertanto, egli si rivolge a se stesso usando il plurale. Non tollerando più la luce del Sole e della Luna, Gollum si nascose nelle caverne.
La Luna, quando è al suo
ultimo ciclo, giace nel cielo tonda e opalina e simile a una moneta. Gollum non riesce a sopportare i raggi che da essa
“scintillano”. Egli menziona quel corpo celeste, bianco e solitario, tra i
versi di una delle sue bizzarre filastrocche: “Fredda è la mano, le ossa e il cuore. Freddo è il corpo del
viaggiatore. Non vede quel che il futuro gli porta quando il sole è calato e la
luna è morta.”
La
luna piena è uno spicciolo tondo. Un antagonista dei fumetti
DC Comics osò paragonare la luna ad un gran
dollaro d'argento lanciato da Dio, caduto nel firmamento con la faccia
segnata all’insù. Harvey Dent, come
Gollum, soffre una dualità schizofrenica. Il suo volto disgiunto a metà, ustionato su di un solo lato,
rappresenta la suddivisione della propria personalità, sospesa eternamente tra
bene e male. In un mondo governato dall’ingiustizia, “Due Facce” ha trovato
nella propria moneta d’argento l’unico giudice imparziale. Tale moneta non è
come tutte le altre, essa possiede una particolarità che la rende speciale. Non
ha una testa ed una croce bensì due teste: una integra e l’altra sfregiata
dallo stesso Dent. Lanciando tale moneta, Harvey affida alla sorte l’esito di qualsivoglia
scelta. In quell’oggetto, confluiscono
le due personalità di Due Facce, così come nell’Unico Anello si congiungono le
due nature di Gollum. Sebbene siano personaggi notevolmente differenti,
entrambi hanno affidato le loro intere vite ad un “gingillo luccicante”,
rimirando lo stesso con totale devozione. Harvey
in quella moneta ha rinvenuto il suo futuro, Gollum, invece, mediante l’Anello ha
subito la propria sventura.
Gollum odia e ama
l’anello esattamente come odia e ama se stesso.
Al mutare della marea
Aragorn volge l’orecchio alla nuda roccia e ascolta, inerte, il suo fievole parlato. Il suono recondito prodotto dalla terra guida il ramingo. “Affrettano il passo” – egli dice – “ci devono aver fiutati. Presto!” conclude poi. Gli orchi corrono come destrieri imbizzarriti, aizzati dai colpi di frusta. Aragorn riesce a carpire il rimbombo del loro “galoppare” e sente che essi si stanno allontanando. Grampasso, Legolas e Gimli stanno proseguendo l’inseguimento per ritrovare un drappello di Uruk-hai. I tre spingono la loro ricerca sino alle verdi praterie di Rohan, la dimora dei Signori dei Cavalli. Raggiungeranno, in seguito, la foresta di Fangorn, luogo in cui si persero le tracce dei due mezzuomini.
L’uomo, l’elfo ed il nano
varcano con timore la soglia della boscaglia. La foresta, così come rappresentata
nel lungometraggio, appare plumbea; i raggi
del sole riescono appena ad infiltrarsi tra il groviglio di rami. Quegli alberi
alti e robusti, dotati di un poderoso apparato radicale si estendevano prepotentemente
nell’intimità velata del terreno. Foglie rattrappite ricoprivano i tronchi, e
piante appassite giacevano al suolo, cupe
e tristi. Quella foresta era molto vecchia e malata. Echeggiavano versi provenienti
dal suolo freddo, che si disperdevano nell’aria. Gli alberi dialogavano tra loro, facendo sì che dalle fronde fluisse
un’eco di dolore e di collera. Fangorn era stata ferita, maltrattata, e le
creature viventi della foresta erano cresciute incupite e torve. Avviluppati
dalla densa vegetazione, Aragorn, Legolas e Gimli scorsero un viatore, dalla veste chiara come albume, vagare
nel verde fiacco ed esangue della flora di Fangorn. Essi agirono in fretta,
scambiando il bianco viandante per Saruman, e lo attaccarono. Questi respinse
quelle rapide incursioni e si arrestò. Una
rifulgenza accecante contornava il suo volto, facendolo risultare invisibile. Allora cominciò a parlare,
confessando ai tre di sapere cosa stessero cercando. Aragorn, allora, gli chiese
dove fossero i due giovani hobbit, e questi gli rispose che ambedue erano
passati da quei luoghi giusto due giorni prima e che adesso si trovavano al
sicuro.
Nell’opera filmica di
Peter Jackson, l’ignoto stregone, avvolto
da un bagliore raggiante, èindistinguibile nell’aspetto quanto nel
parlato. La sonorità con cui egli si esprime è, invero, l’unione di due emissioni
di voci. Il misterioso pellegrino dialoga
con il timbro vocale di Saruman ma presto muterà nell’intonazione, come un’onda
agitata che si infrange sulla riva e fa ritorno più leggera e quieta. La
voce di Saruman si mescolò alla voce di Gandalf per poi essere del tutto
sgominata. Quando la luce si dissolse, Gandalf apparve ai suoi vecchi amici ed
essi s’inchinarono al suo cospetto.
Sul picco
dell’Argentacuspide, Gandalf combatté col Balrog e lo uccise, scagliando la sua
carcassa sul fianco della montagna. Dopodiché, il grigio stregone si distese a
terra e morì. Calò l’oscurità ed egli
errò fuori dal tempo e dallo spazio. Una
luce lo avvolse e così riottenne la vita. Lo stregone grigio rinacque come Gandalf il bianco.
Gandalf ha assunto le
vesti ed il ruolo del signore di Isengard. Egli tornò sulla Terra e sostituì il
suo vecchio amico, oramai divenuto un pericoloso avversario. Mithrandir “prese”
la voce di Saruman e la modellò alla sua, “trasse” la bianca tunica e la
indossò, rendendola ancora più luminosa, ghermì un nuovo bastone, anch’esso
bianco. Gandalf divenne ciò che Saruman
doveva ma non fu mai. Ecco perché nell’adattamento cinematografico di Peter
Jackson, Gandalf il bianco, al suo principio, parlò con una voce ancora indistinta e miscelata a quella del suo
“predecessore”, Saruman, poiché egli era barlume divenuto carne, il nuovo
stregone bianco. Gandalf assunse i
poteri e le mansioni che Saruman avrebbe dovuto possedere e svolgere.
L’evento portentoso e
mistico della resurrezione viene esteriorizzato dalla rinascita di Mithrandir. Gandalf morì e risorse, fu rimandato
sulla Terra a terminare il suo compito, a riportare la luce e la speranza in un
mondo che stava cadendo preda dell’oscurità più torbida. Con l’apparizione di
Gandalf, il quale errava qua e là con le fattezze di un vecchio con mantello e
cappuccio, si compì un miracolo
religioso che manifestò il potere degli esseri divini che vegliano su Arda.
Gandalf, ricomparso nella Terra di Mezzo, vagava
solitario come Cristo uscito dal sepolcro della morte. Egli attese il
momento in cui i suoi più fedeli alleati e discepoli poterono intravederlo,
così da rivelare la compiutezza di un prodigio: il ritorno all’esistenza. Gandalf è adesso divenuto il più potente
tra gli Istari, il custode più valoroso della pace. Il chiarore dei suoi
indumenti emana la purezza del bene assoluto, la trasparenza dell’incontaminato.
Gandalf il bianco non è più un vagabondo dal cappello a punta che gironzola per
i paesaggi verdeggianti, vigile e felice. Egli
è adesso un guardiano ed un guerriero, la cui sola missione è quella di
sconfiggere Sauron. Lo stregone non giacerà più sulla Terra per goderne le
gioie, gli affetti, le amicizie e le bellezze, ma permarrà su di essa fino a
quando potrà, fino a che il male proveniente da est non dovrà più essere
contrastato perché definitivamente sbaragliato.
Ian Mckellen, eccelso
interprete, caratterizzò Gandalf il bianco differentemente dal grigio
pellegrino. Gli diede un’aura solenne, maestosa, infondendo al personaggio un
carattere maggiormente inflessibile, meno comprensivo rispetto al passato ma
ugualmente buono e prodigo.
Gandalf informa di tutta
fretta i tre guerrieri circa il triste destino a cui è andato incontro Théoden, re di Rohan, soggiogato dal veleno effuso da Saruman.
I quattro si dirigono, così, ad Edoras. Prima di lasciare Fangorn, Gandalf
confida, cripticamente, ad Aragorn che la presenza di Merry e Pipino nella
foresta sarà d’ausilio nel ridestare la forza degli Ent.
I Pastori degli Alberi
Quando uno strepitio
d’imprecisata fonte risuonò dal bosco, Merry
volle ricordare a Pipino una diceria bislacca udita tempo prima.
Nell’antica selva, sita ai confini della terra di Buck, c’era qualcosa
nell’acqua – rammentò lo hobbit – qualcosa d’insolito, di magico, per cui gli
alberi che in quei luoghi si “abbeveravano”, cominciavano ad allungarsi a dismisura
e a prendere vita. “Vita?” domandò a quel punto Pipino.
Curioso quanto viene detto in questo scambio di battute dai piccoli hobbit. Cosa voleva intendere Merry quando affermò,
stupefatto, che gli alberi “prendevano vita”?
Non sono forse sempre vivi
gli alberi? Se asportassimo un frammento di corteccia, vedremmo il colore e la consistenza
della linfa che scorre come sangue nelle
vene. Tale linfa rappresenta la loro vitalità e ci permette di capire il
loro effettivo stato di salute. Gli alberi sono vivi anche se non lo danno mai
a vedere. Essi giacciono pacifici,
ancorati al suolo come figli silenti della terra. Merry era conscio della
vigoria che anima lo spirito astratto e laconico degli alberi, pertanto con
quella sua osservazione voleva intendere altro. Gli alberi dei boschi di Buck “prendevano vita” perché cominciavano a
sussurrare, a parlare, persino a muoversi. Divenivano, così, esseri
straordinari, dotati di movimento, di parola, d’intelligenza: diventavano “vivi” a tutti gli effetti, o
perlomeno “vivi”, così come noi esseri umani siamo soliti, nel quotidiano,
intendere un essere vivente: una creatura che agisce, pensa, si esprime.
Quando un qualcosa si muove è vivo. E’ questo un concetto semplice, elementare,
piuttosto sottinteso. Ma se qualcosa non
si muove e rimane rigido, irto, statico, può essere ritenuto ugualmente vivo?
Certamente, se lo è. Eppure, gli alberi, nella loro sosta eterna, nella loro
incapacità di opporsi, di insorgere, di muoversi, non sempre vengono ricordati
come vivi da chi, verso di loro, muove violenza.
L’albero
è imponente e, al contempo, impotente. Se osassimo incidere
ancor più in profondità, tagliare i suoi rami, profanare l’integrità del suo
tronco, esso soffrirebbe ma nessun grido
di dolore echeggerebbe dalla sua florida costituzione. L’albero, qualunque
esso sia, a qualsivoglia specie appartenga, non ha voce, non ha moto, non ha
reazione. Esso è immobile come una
scultura, eppur vivo come un essere umano. Soffre un mutismo sebbene riesca
a comunicare con l’eloquente apparenza del proprio verde. Gli alberi possiedono
sembianze umane solo dinanzi agli
occhi di chi riesce a scorgerle e a rispettare la loro sensibilità e la loro
senziente coscienza. La massa legnosa del “corpo” di un albero è una scorza
resistente, un’epidermide rigida ma anche
tenera, fragile, vulnerabile, feribile. Le escrescenze erbose del torso di
legno sono pelurie che rivestono la
struttura portante. Nelle fronde sono celati i polmoni della creatura, e giù, oltre il sottobosco le radici si dipartono
simili a arti multiformi e a piedi alquanto
pronunciati. I rami, protratti sino al cielo, sono braccia lunghe con grandi mani
e mille dita verdi. Gli alberi
sono “persone” tacite e d’aspetto differente, non hanno lingua, cadenza, accento, non intrattengono alcun
discorso, non avanzano, non lasciano il proprio posto, la propria casa, permangono fermi, silenziosi come una natura che
osserva e che accoglie.
Tolkien
era innamorato degli alberi, delle piante, dei prati, dell’ambiente puro e
limpido. Quando creò
gli Ent volle dare finalmente movimento e voce alla natura. Per volere del
Professore gli alberi assunsero movenze e gesti, cenni e dialetti. Essi erano sempre
stati vivi, ma, visto che l’uomo non riusciva a considerarli tali e a
custodirli come avrebbe dovuto, Tolkien partorì nei suoi lavori i Pastori degli Alberi, esseri dotati di
movimento, difensori delle foreste.
Se gli uomini avessero letto di un albero capace di vagare e parlare, avrebbero
ricordato come essi siano in realtà vivi, soprattutto quando giacciono diritti
e fermi. Per mezzo degli Ent, Tolkien
cercò di evocare la morale dei lettori sul rispetto assoluto verso madre
natura.
Barbalbero
Così come realizzato nel
film, Barbalbero è un essere antropomorfo, con due gambe e due braccia, con un
volto e dotato di voce propria. Ha i
“connotati” di un uomo ciclopico intagliato nel guscio di un tronco ed incarnato
nel tegumento di un albero.
Pipino montò su di un
ceppo e da lì sul fusto. In alto, vide due pupille schiudersi nell’albero.
Sconvolto, il mezzuomo si lasciò cadere giù e fu acchiappato appena in tempo
dal misterioso essere. L’Ent si era svegliato in quell’attimo e con le braccia
raccolse i due hobbit, reggendoli senza fatica. Due occhi tondi come una pietra levigata e profondi come un pozzo colmo
di storie e di memorie abbellivano un volto legnaceo. Attorno alla bocca,
scavata nel coriaceo ligneo, vi erano dei baffi di lichene e giù dal mento
fibroso una barba folta color del muschio.
Gli Ent sono pastori di
un immenso gregge, immobile, costante. Essi sono guardiani di un giardino
sconfinato che cresce spontaneo ed indifeso.
Barbalbero è antico come
la prima alba sorta sulla foresta ed il primo crepuscolo disceso su essa, ed in
quanto manifestazione pensante e dinamica del bosco, egli conserva, tra le sue
conoscenze, ricordi antichi, sapori
vetusti. Egli fa della calma l’esteriorizzazione del proprio essere. Gli
Ent serbano nei loro ramoscelli e nei loro tralci le orme di un’esistenza
millenaria. Il loro linguaggio, così come mostrato durante l’Entaconsulta, è
compassato, poiché la lingua conserva in sé l’evoluzione del parlato, del
cambiamento, dell’accadimento. Tutti gli Ent si esprimono lentamente, come se
dalle loro parole lasciassero trapelare la quiete di secoli e secoli di natura
immutata. Ciascun concetto per gli Ent va espresso con estrema pazienza. Così
come mai dev’essere accelerato un percorso di crescita vitale, nulla dev’essere
affrettato, tanto meno l’atto comunicativo. Per far sì che da un seme sorga una pianta, per far sì che da una
ghianda maturi una quercia, è necessario un tempo opportuno. Ogni cosa si
compirà al momento appropriato, quando lo sviluppo avrà fatto il suo corso. Il linguaggio stesso, per la sua
consistenza e plasmabilità, progredisce come una pianta nata da un germoglio
dissetato dalla fresca acqua e cullato dal caldo sorriso del sole. Gli Ent,
similmente agli hobbit, amano tutto quello che cresce sano e rigoglioso, e le parole, per loro, equivalgonoa sementi di stagione.
Sebbene gli Ent siano
flemmatici, indolenti, miti, essi rappresentano la forza arcana e indomita della natura, la rivalsa
sull’indifferenza degli apatici e sulla crudeltà degli avidi.
Barbalbero
dirà di non essere dalla parte di nessuno circa il conflitto tra Sauron e i
popoli liberi della Terra di Mezzo, poiché nessuno ha mai dimostrato d’essere
dalla sua parte. Tolkien, in uno dei suoi più celebri
aforismi, ammise d’essere sempre stato dalla parte degli alberi, dalla parte
della natura, dalla parte della purezza. Nonostante
Barbalbero non ne sia a conoscenza, egli ha nel proprio “creatore” il più
grande alleato.
Tra le fiamme dell’industria
Differentemente dagli
Ent, Saruman non apprezzò mai ciò che cresce naturalmente. Egli preferì ammirare
una forma di vita mutilata, rovinata, terribile. Nei sotterranei di Isengard,
Saruman incrociò gli orchi con i goblin, protrasse la moltiplicazione
dissennata degli Uruk-hai. Le fiamme incendiarie
delle sue fornaci devastarono le appendici della foresta. Nel sottosuolo,
l’industria voluta da Curumo crebbe in potenza. Il bianco dello stregone parve
dissolversi del tutto, avvicendato da un invisibile carminio, il colore del fuoco divorante.
Saruman è divenuto una macchina contorta, un automa col cuore fatto d’ingranaggi, un burattino ferroso dalla mente cosparsa di congegni meccanici. Curunír mira coi suoi occhi, impossibili da scandagliare, la fabbrica bellica da lui edificata. Saruman ha indirizzato le proprie arti magiche verso un potenziamento della tecnologia. I rami ed i tronchi sono stati arsi per alimentare le fucine da cui vengono fuori scudi imponenti, lame d’acciaio, armature impenetrabili. La natura è stata conseguentemente violata per generare risorse letali. La saggezza dello stregone viene prestata a fini guerreschi e così egli forgia, grazie alla sua sapienza, una polvere tanto potente da disfare la pietra, se raggiunta da fiamme. Ecco come Tolkien e Jackson introducono nelle loro rispettive opere la “magia” prestata alla scienza.
Come un moderno Alfred Nobel, Saruman creò un’arma
pericolosa e fatale. Nobel inventò la
dinamite con dei buoni propositi, credette, infatti, che essa sarebbe stata
usata per fini pacifici, per alleviare la fatica, per asciugare il sudore dalla
fronte degli uomini, facilitando gli scavi, aprendo varchi per le esplorazioni.
Ma poco andò come davvero aveva previsto l’ignaro inventore: l’esplosivo fu
presto adoperato come un’arma potentissima. Piuttosto che per costruire, la dinamite fu usata per distruggere.
Saruman, sin dall’inizio, usò la sua polvere come un espediente militare, utile
per aprire brecce e facilitare l’avanzata dei suoi schieramenti.
“Il vecchio mondo brucerà” – per volere di Saruman, tra le fiamme
dell’industria guerrafondaia, la Terra si sarebbe consumata, la natura sarebbe stata annientata
dall’avanzamento tecnologico promulgato dallo stregone caduto.
Saruman rappresenta il
potere oscuro che incrementa la tecnica, annullando ogni quesito morale sul suo
utilizzo. Gli Ent che si rivolteranno a
lui, testimonieranno, invece, l’insorgere della natura sul ferro e sul fuoco.
Lo stregone crede
ingenuamente d’essere per Sauron un alleato di pari levatura. E’ questo l’unico
aspetto debole della personalità del personaggio ritratto nel film. Saruman,
nel libro, vuole infatti ottenere l’anello per sé, ingannando persino il sire
di Mordor. Nella trasposizione cinematografica questa particolarità del suo
piano e del suo ragionamento non è menzionata. Così facendo, Saruman, piuttosto
che elevato ad astuto stratega, viene leggermente ridotto a mero sottoposto.
Il re incupito
Sedeva sul trono del Mark
un sovrano reso degente e vegliardo. Rugosa era la faccia di Théoden, grigia la barba, defesso il
suo animo. Il monarca restava prono su di un regale seggio, del tutto
assuefatto ai sinistri vaneggi del suo consigliere, Grima Vermilinguo. Nel film
“Le due torri”, Grima striscia fuori da una “tana” ombrosa,
vestito con un abito scuro, portandosi al fianco del re. Subdolo nel carattere
e ambiguo negli atteggiamenti, Grima è
un serpente che inietta veleno nella mente del suo sovrano. Vermilinguo è
al servizio di Saruman, e ha fatto in modo che il re si sottomettesse
inconsciamente alla magia oscura e possessiva dello stregone, così da condurre
il regno di Rohan alla distruzione. Grima
simboleggia l’infido traditore, colui che trama alle spalle e fa delle parole
armi taglienti come lame, in grado di mistificare la realtà e ottenebrare
l’assennatezza.
Éowyn, la giovane nipote di Théoden, è sempre più stanca, triste, ed impallidita. Ella vede la strada che sta snocciolandosi sotto i suoi piedi e patisce un triste fato. Éowyn sta appassendo come un fiore reciso, abbandonato, senza più nessuno a prendersi cura dei petali e della corolla. Ella si sta spegnendo come una fievole luce soffocata dall’arrivo di una nuvola grigia che porta con sé un fortunale. Éowyn corre via dal suo castello, tramutato in un’angusta prigione, per respirare un’arida aria. Lei che temeva la gabbia ancor più della morte, la reclusione ancor più della sofferenza fisica, che paventava la possibilità che i sogni diventassero aspettative irrealizzabili, attese futili, illusioni dimenticate dall’avanzare dell’età… lei che aveva paura che la speranza svanisse nell’oblio, trascinando con sé la gioia di vivere, la libertà… proprio lei si era appena resa conto che già stava vivendo in una sorta gabbia, sia pure ampia come un regale palazzo, ma tremendamente disagevole come una cella.
Fu l’arrivo di Aragorn a
ridarle speranza, a farla sentire nuovamente affrancata. Quando ella uscì e si fermò sulla soglia, la
bandiera della casata del re di Edoras si staccò dalla sua asta e venne
sospinta dal vento. Aragorn vide quell’araldico
volteggiare sino a lambire l’erba, come un segno rovinoso caduto dal cielo.
La gloria di Rohan stava venendo meno, è ciò che testimonia tale vessillo
strappato. Gandalf arriverà al momento propizio. Con la sua magia estirperà il
veleno di Saruman. Théoden tornerà
forte, ben più giovane e scaccerà Grima dal suo dominio, non prima di aver
tentato di giustiziarlo. Aragorn lo farà desistere dai suoi vendicativi
propositi, rammentando al re la pietà
dei saggi sovrani.
La speranza è arrivata a Rohan: furono Estel ed i suoi compagni a portarla. Théoden ed Éowyn, schiavi di un’infausta sorte, riotterranno la libertà. Lo stendardo dei Signori dei Cavalli potrà tornare a sventolare alto nel cielo.
Non tutto, però, è stato
salvato. Théoden ha perduto suo
figlio. Un evento innaturale si è verificato: un padre è sopravvissuto al proprio erede. Théoden comprende i tempi oscuri che si stanno abbattendo
sull’immediato futuro della sua gente. I giovani periscono, ed i vecchi
resistono. Come si è giunti a questo?
Il sogno di Aragorn, l’incubo di Arwen
Cosciente che la minaccia
di Isengard piomberà sull’esigue difese dell’Isen, Théoden ordina ai suoi uomini di dirigersi al Fosso di Helm. In
quella gola, barricati dentro le fortificate mura della roccaforte, la gente di
Rohan sarebbe riuscita a sopravvivere.
Aragorn, Legolas e Gimli
guidano la popolazione fino al Fosso. Gandalf, invece, partirà alla ricerca di
Eomer e dei suoi soldati. Durante il tortuoso cammino verso il Trombatorrione,
essi vengono attaccati dai mannari selvaggi. Aragorn verrà spinto giù da un
precipizio, e si infrangerà contro l’acqua del fiume.
Il figlio di Arathorn
verrà dondolato dalle correnti sino a che, inerme, raggiungerà la fredda
sponda. Il ramingo, dormiente, sognerà
la sua amata, ed il bacio di Arwen lo ridesterà dallo sturbo. Aragorn
ripensava costantemente alla splendida dama. Quando percorreva l’impervio
sentiero verso il Fosso di Helm, egli rimembrò un momento idilliaco trascorso.
Disteso su di una morbida coperta, Aragorn giaceva tra il sonno e la veglia. Arwen gli si avvicinava al volto e lo
baciava dolcemente.
Aragorn si alzò poco
dopo, e strinse Arwen a sé. Ella indossava una veste azzurra come un cielo
terso. Ambedue sostavano vicino agli alberi. Le foglie gialle e vizze venivano ondulate da un soffio lieve come un
sospiro. Era quella la quiete di una natura stanca che avvolgeva i due
innamorati. Quello fu un giorno sereno, l’ultimo prima della partenza. Aragorn
era felice ma spossato; fosche
preoccupazioni gravavano sulla sua mente. Arwen volle dargli nuova
speranza. Gli disse che se non si fosse fidato di niente, avrebbe dovuto
fidarsi soltanto di una cosa. A quel punto, ella allungò la mano e toccò la Stella del Vespro che Aragorn portava
al collo. La gemma ammantava di un
fulgido bagliore vicino al cuore del ramingo. Arwen proseguì a parlare con
voce soave - “Fidati di questo, fidati di
noi” - disse la fanciulla. Aragorn baciò la sua adorata, e le carezzò il
volto, dapprima lievemente. Egli
mantenne le mani vicino al viso della ragazza, come se a stento riuscisse a
toccarla, tanto morbida e leggiadra era la sua essenza da non poterla sfiorare
senza il timore di scalfire la sua cristallinità. Poi, Aragorn la carezzò,
baciandola con passione.
Arwen è un pensiero
confortante, un desiderio che motiva,
una percezione rinfrancante che conforta lo spirito inquieto di Aragorn. Nel
suo viaggio, l’erede al trono di Gondor seguiterà sempre a fidarsi di un sogno, ad aggrapparsi ad una speranza
radiosa qual è la sua Arwen. Rammentando il recente passato, Aragorn penserà al
momento in cui dovette dire addio alla dama di Gran Burrone, persuadendola a lasciare la Terra di Mezzo
per seguire la sua gente verso l’ultimo viaggio per le terre immortali. Aragorn
rivela così di perseguitare a combattere, tollerando un dolore interno,
lacerante. Egli crede che Arwen sia
andata via, lontano, e che mai più la rivedrà. Ecco che l’amore di Aragorn
è assoluto poiché continua a restare imperituro nonostante non vi sia più la certezza, neppure la flebile possibilità, di
rivedere davvero la sua adorata. Aragorn
sogna Arwen nel momento in cui è gravemente ferito perché qualunque cosa
avverrà mai, qualunque ferita subirà, egli resterà eternamente innamorato,
eternamente fedele. Arwen è il sogno
perpetuo di Aragorn, la sola immagine che possa allietare la visione di una
drammatica realtà. La speranza emanata dal ricordo di Arwen è per Aragorn
una fiamma che alimenta il suo ardore, sia che il suo sogno possa realizzarsi
sia che resti un gradevole ricordo. Aragorn riapre gli occhi d’improvviso, dopo
aver ricevuto l’impercettibile bacio
dell’elfo femmina.
Nel frattempo, Arwen
riposa, sdraiata, e riflette su Aragorn. Raggiunta dal padre, Arwen manifesta
la sua volontà di non voler andare via. Ella
ha ancora speranza, e attende il ritorno del re.
Elrond non vuole che la
figlia s’intrattenga nella Terra di Mezzo, poiché crede che la morte perverrà
sul futuro dei popoli liberi. L’elfo ricorda alla figlia che lei ed il suo
amato saranno per sempre divisi. Se
Sauron dovesse essere sconfitto e se la pace dovesse ristabilirsi, nulla
muterà. Che sia per spada o per il lento sgretolarsi del tempo, Aragorn morirà. E’ l’invalicabile dono pervenuto tra le mani dei mortali.
Arwen
volge i propri occhi grandi e belli come una lacrima di rugiada verso
l’orizzonte, rimirando l’inevitabile. Il futuro, per quanto
distante esso sia, si avvererà. Aragorn soccomberà, iltramonto calerà sul suo
viso lasso ed il sole non sorgerà mai più. Nulla le darà mai conforto.
Aragorn cadrà, come un petalo staccatosi
allo scadere dell’autunno, come una
delle foglie avvizzite che circondavano Arwen ed il suo re durante quel magico
momento rievocato dall’eroe.
Arwen, in questo incubo vissuto ad occhi aperti, vede se stessa con indosso un abito scuro, funereo, piangere inesorabile per anni ed anni, senza nulla a deliziare la propria mestizia. Ella verserà lacrime sulla tomba del marito. Il sepolcro di marmo su cui è stata scolpita la sagoma del monarca di Gondor sarà l’ultima effige dello splendore del più grande tra i Re degli Uomini, spentosi in gloria, senza macchia, prima del crollo del mondo, al fianco della sua venerata sposa. Arwen, allora, procederà sola, vagando nella foresta, con un velo nero a celare il suo volto affranto. Ella dimorerà solitaria nel gelo di un inverno senza termine, non avrà alcun fuoco a riscaldarla se non lacalda carezza di una memoria, il ricordo del suo sposalizio.
Arwen piange. Quello che
ha vissuto, ascoltando le parole del padre, è stato un sogno oppressivo, contrapposto
al sogno rifulgente fatto da Aragorn poco prima. Arwen sa che quell’incubo
si avvererà e sconvolta dall’ineluttabile, decide di allontanarsi. La speranza si è affievolita. Elrond
non sa però cosa sua figlia è disposta a fare. Arwen sarà decisa a rinunciare
alla propria immortalità. Quando il declino della vita umana del suo amato sarà
compiuto, morirà anch’ella. L’inevitabile si adempierà, ma entrambi, insieme, avranno vissuto una vita piena e appagata,
ancor più valevole ed intensa poiché non perpetua ma soggetta a concludersi.
Un’occasione per mostrare le sue qualità
Frodo ha stretto con
Gollum un rapporto di fiducia. Egli ha scelto di chiamarlo col suo nome
originario, Smeagol, e vuol credere che possa essere redento. Frodo si illude,
sebbene Smeagol dimostri d’essere cambiato. Sam è piuttosto restio a fidarsi
della creatura, giudicandola ancora malvagia e fedifraga. Il nipote di Bilbo
vede in Gollum una “persona” simile a lui, un essere che ha tollerato il
fardello dell’anello. Per tale ragione, lo hobbit vuol provare a salvare
Smeagol nella speranza che anch’egli stesso possa sottrarsi, un giorno, a
questo male senza conseguenze. Dopo aver superato le Paludi Morte, i tre si dirigono
verso un’altra via. Durante una sosta, vengono catturati da alcune guardie di
Gondor capitanate da Faramir. Questi è il fratello minore di Boromir. Egli
informa Frodo e Sam della morte del loro compagno, avvenuta pochi giorni prima
nei pressi di Amon Hen. Nelle ore precedenti l’incontro con gli hobbit, Faramir scorse una barca elfica cullata
dalle acque dell’Ithilien. Si avvicinò ad essa e intravide la sagoma,
fredda e fiera nella sua posa, del fratello prima che scomparisse nella
foschia.
Usufruendo di un lungo flashback,
Jackson volle evidenziare il rapporto
affettivo e di fiducia che esisteva tra i due fratelli. Quando Boromir
riconquistò Osgiliath, tessette lodi nei confronti del proprio fratello al
cospetto del padre. Tuttavia, Denethor
disprezzava Faramir, reputandolo l’inetto pupillo di uno stregone. Faramir era infatti ben voluto da Gandalf
il grigio e, a differenza di Boromir, più forte e valoroso in battaglia, si
distingueva più come un lettore ed uno studioso che come un combattente.
Ciononostante, Faramir era un eccellente guerriero ed uno scaltro arciere.
Faramir non apprezzava i conflitti battaglieri. Sin dal suo esordio sullo
schermo, egli si interrogò sugli obblighi che spingono un uomo a lasciare la
propria casa per scendere in guerra. Faramir vide, infatti, il cadavere di un
Haradrim appena ucciso, e si domandò se questi fosse davvero malvagio o fosse stato, invece, obbligato a muovere guerra.
Appare evidente come Faramir sia un uomo riflessivo, ponderante, saggio e più
meditativo del fratello. Tuttavia, il disdegno che il padre cova nei suoi
confronti lo porta a rapire i due hobbit e a prendere l’anello per sé.
Denethor, infatti,
convinse Boromir ad andare a Gran Burrone ed insinuò nella sua mente il
desiderio di impossessarsi dell’Unico. Fu
Denethor a ordinare a Boromir di portare l’anello a Gondor. Colto dal
desiderio di voler assecondare il suo signore e di voler difendere il suo
popolo Boromir impazzì e cedette alla tentazione. Denethor, in parte, condusse suo figlio alla pazzia. Faramir si propose
per andare a Gran Burrone al posto di Boromir ma fu subito intralciato dal
genitore che gli rispose: “un’occasione
per Faramir, capitano di Gondor,di
mostrare la propria lealtà.”, per poi negargli questa possibilità.
La frase che suo padre
gli aveva riferito, Faramir la ripeté
dinanzi agli hobbit. Ghermire l’anello e renderlo suo avrebbe dato a
Faramir l’ammirazione sempre desiderata del padre. Ma il capitano di Gondor si rivelerà
il più saggio dei suoi famigliari. Non cederà all’allettante occasione, lascerà
che Frodo, Sam e Gollum vadano via, liberi
di espletare l’arduo compito.
Faramir, osteggiato dal
proprio padre, si rivelerà migliore di quanto questi abbia mai saputo.
L’ultima marcia degli Ent
I
Pastori degli Alberi privilegiavano la pacatezza rispetto alla furente
rappresaglia. Placidi, gli Ent albergavano, riservati,
nella folta vegetazione. Barbalbero era irremovibile nella sua genuina
ostinazione. Egli borbottò quanto segue: “questa
non è la nostra guerra”. Come soli
erano rimasti gli alberi, soli sarebbero dovuti rimanere gli uomini. Pipino
ragionò attentamente dopo che Merry lo aveva bacchettato. Se il potere di
Isengard non verrà sopraffatto, se una
delle due torri non verrà smantellata, il mondo brucerà come un immenso
cratere di fuoco e la Contea perirà. Peregrino Tuc escogitò a quel punto un
arguto stratagemma, convinse, dunque, Barbalbero a recarsi a sud. Protrattosi sino ai confini di Isengard,
Barbalbero vide, con raccapriccio, la deforestazione coronata dallo stregone,
oramai scevro da alcun criterio. Barbalbero conosceva molte delle creature
sradicate, sin da quanto esse erano poco più che noci o piccoli frutti. L’Ent
non udirà più il loro canto trasportato dalla brezza sino ai meandri del bosco.
Con
un urlo angosciato e collerico, il custode della foresta chiamò a sé i suoi
simili. I Pastori
degli Alberi emersero dalla boscaglia, avanzando adagio per un’ultima marcia. I
guardiani della natura muoveranno su Isengard, irrompendo sulla torre come la
pioggia sulle rocce.
Dalla foresta, da tanto, si era levato un grido assordante eppur
cheto, ma nessuno era riuscito fino ad allora a sentirlo. Gli alberi
soffrivano, i cespugli si struggevano, le piante si lamentavano, i fiori penavano
ma nessuno osò mai dar loro attenzione ed accogliere quella sommessa richiesta
d’aiuto. La natura si destò da sola,
poiché altri non vollero proteggerla. Gli Ent attaccheranno la valle di
Isengard, disintegreranno le cavità del sottosuolo, ed espugneranno Orthanc
stessa. Essi abbatteranno la diga e libereranno il fiume. L’acqua, come una valanga, ricoprirà il terreno, estinguendo le fiamme
dell’industria. Quel torrente, come un diluvio benedetto, purificherà tutto. I
rami spezzeranno gli scudi, i tronchi frantumeranno le spade, il verde smorzerà
il rosso del fuoco, la natura domerà la
tecnica. Saruman verrà vinto.
La battaglia al Fosso di Helm
Lo sguardo di Théoden ispeziona il nulla, adocchia lo stigio, erra nel dubbio. Il re di Rohan sa che gli eserciti di Isengard giungeranno alle prime ore della notte. Diecimila unità assedieranno una fortificazione difesa da 300 uomini a malapena. Théoden ha condotto la sua gente alla morte? Quante responsabilità può sostenere un comandante, una guida, un monarca? I sudditi affidano il futuro nelle mani del loro re, il quale deve sopportare il supplizio, l’asprezza di una grande responsabilità. Questa consapevolezza pietrifica il cuore e lo sguardo del sovrano. Théoden scruta la vacuità, e vede le tenebre della paura. Domanda al suo fedele Gambling se tutti si fidino del loro re. Gambling risponde che loro seguiranno Théoden verso qualunque sorte.
Théoden ne è al corrente. Le vite del suo popolo sono appese ad un filo, come il loro coraggio. Quanta forza è necessaria per proteggere un popolo indifeso? Théoden esprime, mediante il suo suggestivo monologo, le umane paure di un re.
"Lady Galadriel" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
I tempi sono diventati bui, i giorni sono svaniti ad ovest, dietro colline insormontabili. Si è estinta l’era dei cavalieri, e nessun corno suona più. Nulla è rimasto, se non il crepuscolo che volge verso ovest. Mentre Théoden esplica a parole la tristezza di un tempo cessato, bambini innocenti reggono in mano asce e spade, volti spaventati vengono protetti da elmi, corpi tremanti da cotte e guaine. La gioventù di Rohan, costretta ad abbandonare il proprio candore, è chiamata alle armi, per affrontare l’asperità della battaglia. L’era degli uomini sembra essere finita. La lealtà dei vecchi cavalieri è venuta meno, sostituita dalla barbarie, dalla ferocia degli Uruk-hai. Chi ci ha condotto a questo? Cosa può l’uomo nei riguardi di un tale male? Gli uomini non possono fare altro che resistere e stringersi alla speranza, la luce che mai si spegnerà.
Elrond medita nella sua casa accogliente. La voce di Galadriel fiocca da lontano come neve bianca carica di un luminoso albore. La dama di Lórien non vuole abbandonare gli uomini, così sprona Elrond ad inviare un ultimo reggimento di guerrieri elfici. L’esortazione della custode di Nenya riaccenderà la speranza. D’un tratto, gli elfi di Gran Burrone annunciano il proprio arrivo con il distinto suono di un corno. Essi sono giunti numerosi ai cancelli del Fosso. Un’alleanza esisteva una volta e i primogeniti di Eru vogliono onorare tale antico patto. Quando la pioggia cadrà incessante, gli Uruk-hai occuperanno la vallata. Essi dibatteranno le armi, digrigneranno i denti aguzzi, prima di muovere verso le mura. Le frecce scagliate con rapida velocità dagli elfi arresteranno l’impeto della corsa ma soltanto per poco.
La battaglia al Fosso di
Helm, una delle sequenze d’azione più spettacolari ed impressionanti della
storia del cinema, mostrerà quanto nella storia di Tolkien la tenacia, l’audacia stessa, la voglia di non cedere alla foga del
male siano elementi essenziali per esternare il coraggio degli uomini buoni. Messi alle strette, gli uomini, gli
elfi, i nani, gli Ent, ciascuna delle creature modellate dall’inchiostro e
dalla fantasia immaginifica di Tolkien paleserà un coraggio senza eguali per
opporsi al potere tirannico. “Il signore
degli anelli” è un’opera che esalta l’eroismo, l’altruismo, la magnanimità,
l’alleanza tra specie diverse,
accomunate dal desiderio di libertà e di pace. Poche possibilità di trionfare
possiedono i guerrieri che contrastano la malignità di Saruman riversata sul
Fosso di Helm, cionondimeno, sebbene siano così in minoranza, essi seguitano a resistere, a non
sottomettersi, appellandosi alla flebile
speranza che si tramuterà in un’inaspettata certezza.
Lo scontro al Fosso evidenzia, altresì, l’amicizia assoluta, profonda, incrollabile che lega Aragorn, Legolas e Gimli. I tre si spalleggeranno per tutta la durata del combattimento. Quando Aragorn e Gimli verranno circondati da lottatori Uruk-hai, fuori dalle mura violate, sarà Legolas a non abbandonarli. Lancerà loro una corda e li tirerà su, salvandoli. L’amicizia, la fratellanza, che unisce Aragorn, Legolas e Gimli sarà salda come un albero impossibile da sradicare.
Quando le ultime resistenze della fortezza cadranno, Aragorn e Théoden cavalcheranno verso le truppe nemiche, in un ultimo atto eroico per far echeggiare la gloria di Rohan. Il corno di Helm Mandimartello suonerà nel fosso, ed i cavalli ed i cavalieri cavalcheranno verso il nemico. I tempi bui non sono ancora giunti davvero, vi è ancora la luce del sole. Aragorn e Théoden, attraverso la loro cavalcata nobile e audace, mostreranno come i regali principi degli uomini non verranno mai scossi. “Dove sono il cavallo ed il cavaliere?” – Si domandava il monarca, eccoli laggiù,fuoriuscire dai portoni dell’edificio ed ingaggiare un’ultima sortita contro il nemico.
Gandalf arrivò né in
ritardo né in anticipo ma precisamente quando aveva inteso farlo. All’alba del
quinto giorno, Mithrandir sopraggiunse con Eomer ed i soldati rohirrim. La luce
del sole accecherà gli Uruk-hai, i quali verranno sterminati. Un nuovo giorno è sorto.
Lo dirà anche Sam, inconsapevole
della grande vittoria ottenuta dai popoli liberi. “Arriverà un nuovo giorno, e sarà ancora più luminoso” – sussurrerà
il saggio e buono hobbit. Quando tutto sembrerà incupirsi, una luce ancor più
radiosa comparirà all’orizzonte. Il buono che c’è nel mondo prevarrà sempre sul
male, ed è proprio per quel buono che bisogna combattere.
"Sauron" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Prologo: la luce di Galadriel
Una tenue voce si sente nel
buio. Versi dell’idioma elfico
echeggiano, sommessi, troncando il silenzio.
Il mondo è cambiato – affermano le
parole pronunciate da un’entità femminile il cui volto permane nell’oscurità -
lo si percepisce nell’acqua, nella terra, persino nell’aria. “Molto di ciò che era si è perduto, perché
ora non vive nessuno che lo ricorda.” – Con quanto detto, le tenebre si dissolvono ed i colori
delle prime immagini compaiono.
La voce sin qui udita appartiene
ad una donna. Questa creatura signorile
e schiva continua a mormorare, restando lontana
alla vista eppur tanto vicina dall’essere ascoltata. Gli accadimenti evocati dai sussurri della dama risalgono
ad un tempo antico, un’era di cui pochi possiedono nitide memorie. L’eleganza del linguaggio elfico non può trarre in
inganno; colei che sta esponendo oralmente un trascorso andato perduto è Lady Galadriel, del regno di Lothlórien.
La signora di Lórien, col suo parlato, schiarisce
il tetro, rende cristallini i ricordi che presto narrerà.
Coloro che avevano avuto
l’onore di posare lo sguardo sulla nobile Noldor sapevano della luminosità che ella promanava. La dama
dei boschi indossava sovente un bianco vestito, ed era radiosa, come se il suo
corpo venisse costantemente avvolto da un raggio di luna. L’acqua che scorreva
nella fontana del suo reame era impregnata della luce di Eärendil, la stella più amata. Quando ogni altra luce si
sarebbe spenta, la luce di Eärendil avrebbe
seguitato a brillare. Non a caso, dunque, Galadriel è colei che racconta un
passato così nebuloso ed importante. Ella, palesandosi nel buio attraverso il suono
melodioso del proprio parlato, scacciò
via l’oscurità che avviluppava la visione iniziale dell’opera e riportò
alla luce reminiscenze mai obliate.
Tutto ebbe inizio con la
forgiatura degli anelli del potere,
dice Galadriel. Tre furono dati agli elfi, gli esseri più saggi e leali della
Terra di Mezzo. Sette, invece, furono offerti ai re dei nani, grandi minatori e
costruttori di città nelle montagne. I restanti nove furono donati agli uomini
che li accettarono, bramando il potere in essi contenuto. Perché in questi
anelli era stata sigillata la volontà di dominare
tutte le razze. Ma chi creò tali anelli magici? Galadriel tace sul fabbro
che li realizzò: Celebrimbor. Egli
giace così nel fosco, e non viene rammentato. Celebrimbor era un elfo, il più
grande fabbro dell’Agrifogliere, ingannato dalla figura
che nell’immediato Galadriel nominerà.
Il
personaggio di Celebrimbor, non citato nel prologo dell’opera filmica di Peter
Jackson, venne concepito da Tolkien nel “Silmarillion”.
Tale fabbro per la sua impareggiabile maestria è paragonabile ad un
“ferraio” della mitologia greca, Efesto, la cui abilità nel costruire, nel
plasmare, nel lavorare i metalli rasentava l’indiscussa perfezione. Efesto
nacque con un talento proprio, non ereditato, poiché nessuno degli altri dei
era in grado di praticare l’attività che egli svolgeva. La sua leggendaria padronanza
era, conseguentemente, una peculiarità tutta sua. Differentemente dal racconto
greco, Tolkien fece di Celebrimbor un discendente di una nobile stirpe. Tutti i
Noldor a cui Celebrimbor apparteneva erano abili artigiani e costruttori
di gioielli, ma lui, tra tutti, divenne il migliore. Dalle sue mani, per volere
di un misterioso viandante chiamato Annatar, nacquero i sette anelli dei
nani, i nove anelli degli uomini e, segretamente, i tre anelli degli elfi.
Annatar, il signore dei doni, era in realtà Sauron, il pupillo di Morgoth. Tutti coloro che ereditarono gli artefatti incantati, ad eccezione degli elfi, furono tratti in inganno dal signore della terra nera, poiché Sauron creò, tra le fiamme del Monte fato, un nuovo anello, l’Unico, in grado di trovare, ghermire e dominare tutti gli altri. Nell’Unico, egli rigettò la sua crudeltà, la sua potenza, la sua malvagità.
Prologo: l’artiglio di Sauron
Sauron, rievocato dalle
memorie di Galadriel, è un essere imponente, cinto da vampe incandescenti. La sua pelle e il suo volto appaiono impossibili
da scrutare, poiché celati da una spessa armatura argentea. Tolkien
descriveva Sauron come un Maia corrotto ma di bell’aspetto. Mutando la propria forma, egli riusciva ad ingannare
la vista superficiale di ogni mortale. Basti riflettere sul nome originale del
personaggio: Sauron, in principio, veniva appellato come Mairon, “l’ammirabile”. La natura di Mairon era
angelica, egli, pertanto, era uno spirito puro. Quando Mairon si voterà al male
manterrà per un lungo periodo di tempo la capacità di mutare forma, di mantenersi aggraziato e,
conseguentemente, ammirabile come il suo
nome suggeriva. L’aspetto per Sauron fu importante e di notevole ausilio,
poiché la sua bellezza, abbinata ai suoi modi gentili ma fedifraghi, gli permise
d’insinuarsi facilmente nella Terra di Mezzo.
Jackson, nel suo
lungometraggio, decise di trasporre Sauron come un essere rinchiuso in una
corazza impenetrabile, dalla statura enorme e dal portamento terrificante. Poco
vi è di umano nella sagoma di questo antagonista, se non le fattezze appena immaginabili
del suo corpo gigantesco. Egli non
possiede vero e proprio aspetto, non ha un viso, non lascia intravedere alcuna
espressione se non quella immortalata dalla sua maschera ferrea e minacciosa,
ed i suoi occhi vitrei, presumibilmente iniettati di fuoco, non sono affatto scrutabili.
Sauron è un essere bellicoso, e la sua epidermide è divenuta un tutt’uno con il
rivestimento metallico da guerra che indossa. Durante la battaglia contro le
forze alleate di uomini ed elfi, Sauron avanza e la camera di Jackson si pone
poco al di sopra del suo elmo d’acciaio. Egli
osserva tutti dall’alto, come se dalla sua statura riuscisse a giudicare ed
evocare l’inferiorità delle creature di Eru Ilúvatar. Egli le spazza via, mulinando la sua arma,
sopraffacendo interi schieramenti.
E’ interessante scorgere
i dettagli dello scontro finale tra Sauron e Isildur. L’oscuro signore abbatté
Elendil con la sua arma poderosa come il grande martello degli Inferi. Quando
volle affrontare anche Isildur, il figlio del re, Sauron non fece più uso della sua mazza fatta di duro acciaio, bensì del
suo corpo. Con il suo piede piegò la lama della spada, e con la mano tentò di
afferrare l’uomo. Perché?
Quando ogni speranza
sembrò svanire, Isildur afferrò ciò che rimaneva di Narsil, la spada di suo
padre, e mozzò il dito a Sauron, privandolo dell’anello. Il Maia irretito venne
sconfitto, e svanì. Sauron peccò di
superbia, sottovalutò la forza dell’amore, la disperazione insita nell’animo
umano. Isildur volle difendere il corpo del padre morente, e fece appello
alle forze residue per tentare un ultimo attacco. Brandì l’elsa di Narsil e
compì un movimento. Sauron, al contrario, voleva infliggere un dolore più intimo, personale, al figlio
del re. Così allungò l’arto, nel
tentativo di portare a sé Isildur per ucciderlo con la stessa mano in cui vi
era custodito l’anello. Per tracotanza, Sauron subì il taglio netto del
dito e perse l’Unico.
L’anello passò ad
Isildur, ricorda Galadriel, che ebbe l’unica possibilità di distruggere quel
male, esitando e, in seguito, tradendo il proprio credo. L’anello indurì il
cuore del nuovo re e lo condusse alla morte. Molti ma molti anni dopo, esso passò
nelle mani della creatura Gollum. Nelle caverne delle montagne, l’anello
avvelenò la mente di Gollum, ed attese il ritorno del suo padrone. Passò poi ad
un nuovo portatore, uno hobbit della
Contea, e non di certo uno hobbit qualunque.
Bilbo Baggins, sottratto
allo sguardo di Gollum, raccolse l’anello da terra e lo portò con sé, nella sua
“andata” verso Erebor, e nel suo “ritorno” verso Hobbiville. Da quel
rinvenimento, trascorreranno sessant’anni.
Galadriel conclude la
propria rievocazione suggerendo come gli hobbit forgeranno la fortuna di Arda.
"Bilbo Baggins" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Un racconto hobbit
Non partì dai ricordi ma
dalle constatazioni. Non iniziò con le
memorie bensì con le conoscenze. Bilbo Baggins sedeva bello comodo nel suo
piccolo studio. Beh, relativamente piccolo. Per uno hobbit quella stanza era
spaziosa e molto ben illuminata da una finestra che si affacciava sul panorama
verdeggiante della Contea. Bilbo
scriveva con assiduità al mattino presto. Era così preso dalla stesura
della sua biografia che i più avevano cominciato a dargli del misantropo,
dell’asociale, del mezzuomo decisamente
introverso. Di quelle dicerie, Bilbo non se ne curava. Come dicevo, egli
avviò la scrittura del libro della sua vita non tanto dalle proprie
reminiscenze, ma dal suo sapere. Il
primo capitolo del volume Bilbo lo dedicò agli hobbit. Del resto, lui era
conscio d’essere un esperto in materia. Gli hobbit vivono e coltivano i quattro
Decumani della Contea, felici d’essere estranei alle vicende che riguardano gli
altri popoli della Terra di Mezzo. Gli hobbit appaiono minuti, spesso vengono scambiati
per dei bambini se visti da chi rientra nei parametri degli uomini di statura
normale. Sono creature tradizionali, amanti del cibo, della coltura, della
natura.
Durante le proliferazioni
circa le minuziose descrizioni trascritte di proprio pugno da Bilbo, l’occhio
meccanico della camera di Peter Jackson inquadra i paesaggi accesi e vividi
della Contea, soffermandosi a mostrare molti
degli hobbit che ivi abitano. Alcuni riposano, distesi negli esigui cortili
dei loro giardinetti, rinfrancati dalla fresca brezza, altri bevono, reggendo
sulle loro esili spalle botti da cui sgorga il vino, altri ancora si accingono
a cogliere i frutti che la terra elargisce loro. Tra tutti questi hobbit
catturati dall’inquadratura del sapiente cineasta, ce n’è uno alquanto speciale e coraggioso, sebbene lui non sappia ancora
di esserlo. Mi sto riferendo ad uno hobbit grassottello e dagli occhi buoni.
Questo piccolo ma grande amico ha un volto tondo e folti capelli biondi.
Samwise
Gamgee compare sulla scena senza volersi fare notare, come uno fra tanti.
Egli è intento a svolgere il suo lavoro da giardiniere, solo, accovacciato tra
le piante colorate. Sam tiene in mano dei fiori, li osserva sorridente, felice
di come essi stiano crescendo sani e
belli. Tutti gli hobbit, riporta Bilbo, hanno un debole per quello che cresce,
soprattutto Samwise. Sam appare per la prima volta nella pellicola come uno fra i più nella carrellata che
Jackson dedica alla terra natia di questi mezzuomini. Sin dall’inizio, Jackson
vuol mostrarci come Sam sia e si senta uno
hobbit come un altro, umile e straordinariamente gentile nel prendersi cura di una vita delicata.
Sam è proprio uno dei tanti, e dalla sua candidezza trarrà la forza per
divenire un eroe fra pochi.
In quel giorno, gran
parte dei mezzuomini stava ultimando i restanti preparativi per una festa.
Bilbo compiva, in quel dì, 111 anni. Alla porta di casa Baggins qualcuno continuava
a bussare con impertinenza, ma Bilbo non poteva in alcun modo lasciare la
propria postazione. Egli chiamava Frodo, suo nipote, ma questi era già andato
fuori, e se ne stava a leggere, poggiato ai piedi di un albero. Frodo, d’un tratto, sentì canticchiare:
era una voce roca e profonda quella che echeggiava lungo il verde sentiero. Il
giovane hobbit corse e raggiunse Gandalf, intento, per l’appunto, a cantarellare.
Il grigio pellegrino riabbraccia il mezzuomo, e con lui si avvia tra i tratturi
di quel paradiso fatto di collinette e d’erbe. Un senso di assoluta quiete e serenità accompagna il cammino dei due
protagonisti. La Contea è una regione impregnata di pace, rasserena lo
spirito di chi la osserva da un nastro di celluloide e ristora il corpo di chi
ne respira l’aria pura.
Frodo confida a Gandalf
il preoccupante cambiamento di Bilbo, diventato oramai meditativo, solitario e
sempre più chiuso in se stesso.
Bilbo trascorre le sue giornate a guardare vecchie mappe, ad evocare il trascorso. Terminate,
infatti, le disquisizioni sugli hobbit, Bilbo ha cominciato a narrare il
proprio passato, nel suo testo “Andata e
ritorno”. La cerca di Erebor, il vissuto di Thorin, verranno immortalati
dall’arte scrittoria di Bilbo, oramai perso nel rimembrare il passato. Nella
sua casa, un gioiello proveniente dal
remoto l’ossessiona e lo ha condotto a covare diffidenza nei riguardi dei
suoi prossimi. Per sessant’anni, Bilbo ha custodito l’anello del potere, che
gli ha prolungato la vita, ritardandogli in un certo senso la vecchiaia. Bilbo
non si separa mai da quel “gingillo” d’oro, e presto Gandalf lo saprà.
"Frodo Baggins" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Una festa d’addio, un viaggio incombente
Mithrandir ritrova Bilbo
all’ingresso di Casa Baggins. Accolto nella dimora, Gandalf osserva le mappe
che Bilbo, ultimamente, sta rimirando. Sulla vetta della Montagna Solitaria,
aleggia la sagoma rossa di Smaug,
ritratta sulla bianca carta. L’avventura dei nani della compagnia di Thorin è
sepolta nel passato ed è eternata nei ricordi che Bilbo sta mescolando
all’inchiostro. L’anziano hobbit confessa all’amico l’intenzione di voler
abbandonare la Contea, di tornare ad ammirare le imponenti catene montuose e di
trovare un luogo idilliaco in cui poter terminare il proprio manoscritto.
Quella sera stessa, si consumeranno i festeggiamenti. In un clima di gioia e d’allegria,
Frodo dirà inconsapevolmente addio al suo “tutore”. Quando Bilbo manifesterà il
potere del suo anello, attrarrà l’attenzione di Gandalf. Tornato in fretta a
casa Baggins, lo stregone invita Bilbo a deporre l’anello a terra e lasciarselo
finalmente alle spalle. Con estrema
fatica, Bilbo cede l’anello e si incammina verso l’ultimo viaggio della sua
vita. La Contea, per quanto meravigliosa, aveva annoiato l’animo dello
hobbit, che anelava di rimirare nuovi angoli del mondo. Lo spirito avventuroso di Bilbo non lo aveva ancora abbandonato, fu
l’unica cosa che l’Unico non riuscì mai a mutare di lui.
Osservando l’anello, e
poi toccandolo, Gandalf paventa la possibilità che esso sia invero l’Unico. A
quel punto, il grigio stregone invita Frodo a nascondere questo misterioso
oggetto, dopo di che parte per dare risposte ai suoi enigmi. Da questo momento, un clima di crescente
allerta, di tensione, di paura per eventi concatenati che stanno sempre più
emergendo e scatenandosi, comincia a manifestarsi.
Vi è una contrapposizione
tra due momenti fondamentali delle prime fasi del film. L’atmosfera di calma,
armonia, spensieratezza che si avverte alla Contea, durante il consumarsi della
festa, si contrappone a quella agitata, tumultuosa, frenetica che si percepirà
durante le fasi in cui si scoprirà la reale natura dell’anello di Bilbo, e le
forze di Sauron incarnate nei Nazgul marceranno su Hobbiville. Tale contrasto mi richiama alla mente le
sequenze de “Il cacciatore”, uno dei capolavori
della cinematografia statunitense. In quel lungometraggio, il primo atto è
strutturato secondo l’attenta messa in scena di un clima “cittadino”,
familiare, felice quale potrebbe essere, con le dovute differenze si intende,
il clima della Contea. I festeggiamenti
del matrimonio nella prima parte de “Il
cacciatore” si oppongono alle sequenze immediatamente successive, in cui
gli orrori della guerra in Vietnam verranno palesati in tutta la loro
efferatezza. Nel capolavoro “Il
signore degli anelli – La compagnia dell’anello”, le sequele in cui gli hobbit celebreranno in lietezza il compleanno di
Bilbo si contrapporranno a quelle in cui Frodo e Sam verranno inghiottiti dagli
intrighi legati all’anello, e alla guerra che presto incomberà.
Quando Gandalf farà
ritorno alla Contea, scoprirà quello che temeva. L’anello di Bilbo appartiene a
Sauron e, tramite esso, l’Oscuro Signore
ha perdurato. Il pellegrino dal manto grigiastro sprona Frodo a lasciare
subito la Contea. Lo Hobbit, accompagnato dal fedele Samwise, raggiungerà il
villaggio di Brea, scortato anche da Merry e Pipino, due suoi congiunti. Ad
un’andata e ad un ritorno compiuti da Bilbo è dunque succeduta una nuova andata, molto più ardua,
aspra e pericolosa.
Il bianco macchiatosi di nero
L’ora
è tarda - tuona Saruman -, il capo dell’ordine degli Istari
quando Gandalf accorre a fargli visita. Il signore di Isengard sa che le forze
di Sauron sono state radunate, lo ha visto con i suoi stessi occhi. Gandalf
pare intimorito quando indugia ad ascoltare il sapere del più potente tra gli
stregoni. La luce biancastra emanata dagli indumenti di Saruman non
tranquillizza per niente, anzi, tutt’altro. Le sue espressioni minacciose, i suoi occhi allarmati, che tutto
osservano con severità ed intransigenza, anticipano il suo tradimento, che
presto verrà rivelato. Jackson non vuole che Curunír, l’uomo di Destrezza,
nasconda con astuzia la propria malvagità per poi svelarla inaspettatamente. Il suo carattere scostante verrà colto
nell’immediato. Sarà questo un qualcosa che si ripeterà, per volontà di
Jackson, anche quando verrà presentato il personaggio di Boromir. Sin da
subito, gli spettatori intuiscono la freddezza del fu Curumo, poiché egli non
fa, volutamente, nulla per velare le sue
funeste intenzioni. I suoi gesti, le sue movenze altere, le sue parole
lente e distaccate precedono la rivelazione, sebbene Gandalf tardi a dedurlo
poiché legato al capo del Bianco Consiglio da una lunga amicizia e, pertanto,
incapace d’immaginare cosa trami colui che giudicava come saggio. Dietro la barba lunga e candida dello stregone bianco,
Christopher Lee fa fluire la sua voce “baritonale”, poderosa, e la sua celebre
espressività inclemente, più volte prestata a personaggi negativi da lui
interpretati nella settima arte. Saruman confessa la sua alleanza con Sauron,
la sua infedeltà, e che i nove sono prossimi a recarsi nella Contea. Il bianco si è offuscato, la sua luce
radiosa è divenuta cerea. Gandalf tenterà di arginare le magie dello
stregone ma verrà sconfitto e imprigionato nella torre.
Il grigio è un colore
peculiare. Con esso, solitamente, si
tende a descrivere un qualcosa di criptico, oscillante tra chiarore e oscurità.
Chi viene definito “grigio” ha una personalità miscelata, divisa tra bene e
male. Questo non varrà per gli scritti di Tolkien. Gandalf il grigio non avrà
mai un carattere diviso, non oscillerà
mai tra bene e male. Il suo grigiore avrà sempre lo splendore del bene. Il bianco, un colore con il quale si suole
definire il bene assoluto, verrà sporcato da Saruman che tramuterà la sua
chiarezza in una greve oscurità.
Gli spettri dell’anello
Sauron, confinato nella
sua fortezza, ha radunato le forze del male ed è prossimo a scatenarle per
ritrovare l’anello. Sulla cima della torre di Barad-dûr, lo spirito di Sauron si è esternato ad ha assunto la forma di un
grande occhio senza palpebre avvolto nelle fiamme.Il suo sguardo
infuocato dilania l’oscurità, abbatte il brumoso, irrompe dal vuoto e valica le
ombre, le carni, le terre e vede ovunque.Dalla sua roccaforte, il discepolo
di Melkor ha sguinzagliato i suoi servitori più temuti e fedeli: i Nazgul.
Vi
erano una volta nove re degli uomini. Ad essi Annatar, il menzognere,
elargì nove anelli del potere. Offuscati dal desiderio di averli, gli uomini li
presero e lentamente vennero consumati dall’Unico. La corruzione patita
dissipò le loro volontà, la tentazione subita logorò ciò che restava delle loro
anime, la forza promanata da Sauron li genuflesse, corrodendo i loro aspetti
umani. Nulla restò di questi se non contorni scheletrici ed incorporei,
margini scarnificati, quasi astratti. I grandi re degli uomini caddero,
smarrirono la libertà, perdettero le loro sembianze.
I Nazgul provengono dal regno delle ombre, calcano ancora il terreno dei viventi pur essendo morti, ma non calpestano il suolo dell’aldilà malgrado siano trapassati, come se fossero prigionieri di una stasi perpetua. I Nazgul sono Spettri senza faccia, privi di alcuna fisicità, fantasmi lugubri, parvenze offuscate, essenze stigie. Il loro corpo è impalpabile ma il mantello che indossano come un solo indumento dà forma intuibile alle loro invisibili fattezze. Dove un Nazgul poggia le proprie mani, rivestite da guanti argentei, lascia l’impronta della deformazione. Al passo di uno Spettro, la terra si ritira, rigurgitando vermi e strani insetti. Gli Spettri emettono suoni striduli, penetranti come urla di tormento, si muovono in sella a cavalcature nere, dagli occhi rossi, e sono armati con spade affilate e pugnali Morgul avvelenati. Se si osasse guardare nello spazio libero del cappuccio che poggia sulle loro teste si vedrebbe l’abisso, le tenebre di un vuoto senza esito. Tuttavia, essi possiedono quello che resta della loro corporalità sebbene sfugga alla vista umana.
Quando
Frodo li incontrerà e metterà l’anello, riuscirà a scorgere i volti ossuti,
scarni, macilenti dei morti.
L’incontro con Grampasso
Frodo, Sam, Merry e Pipino sfuggiranno alla gelida presa dei Nazgul e giungeranno a Brea. Nella locanda del Puledro Impennato incontreranno un misterioso ramingo, noto come Grampasso. L’uomo occulta la propria fisionomia sotto un copricapo e fuma silenziosamente una pipa. Il rosso acceso del piccolo fornello, dentro il quale brucia “il tabacco” Galenas, illumina, di tanto in tanto, il viso di questo enigmatico viandante, mostrando il suo sguardo vigile ed impassibile. Grampasso manifesterà presto agli hobbit la sua buona natura. Egli è amico dello stregone e si trova laggiù per proteggere Frodo dalle insidie dei suoi inseguitori.
Quando
Jackson introdusse Aragorn, scelse di fare dell’erede al trono del regno di
Gondor e Arnor un ritratto incerto, imperscrutabile. Coloro che lo
avevano visto vagare per le terre selvagge, lo giudicavano un tipo pericoloso
da cui tenersi ben alla larga. Quanto una singola, fugace, impressione poteva
dirsi errata!
Grampasso è una maschera regale, che confonde gli hobbit. Essi, in principio, temono che si tratti di un nemico eppure, dietro la sua occhiata minacciosa, attenta e avveduta, Grampasso fa emergere una bontà deducibile in poco meno di un istante. Saruman, sin da subito, ha palesato le sue intenzioni meschine. Anche Boromir, al consiglio di Gran Burrone, farà venire a galla i suoi pericolosi propositi fin troppo legati ai desideri di suo padre, il sovrintendente. Saruman e Boromir mostreranno, immediatamente, i loro caratteri ombrosi. Grampasso, invece, oscilla dal mistero al vero, dal plumbeo al cristallino. Vantando il volto di un monarca solenne, Aragorn confonderà i mezzuomini e chi, su di lui, volgerà attenzione per la prima volta. Potrà sembrare un avversario temibile per Sam, che lo minaccerà ingenuamente, persino cattivo, salvo poi rivelare agli hobbit la bontà insita nel suo cuore. Aragorn condurrà i quattro nelle terre selvagge, verso la casa di Elrond.
"Arwen" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
La Stella del
Vespro
Giungeranno poi ad Amon Sûl. Ai pendii di quel colle, il figlio di Arathorn sostò, taciturno, mentre gli hobbit cadevano preda di un sonno leggero. Frodo scelse di rimanere accorto, poiché i sogni tardavano ad arrivare e nulla allietava il suo riposo. Silenzioso, lo hobbit indagò con lo sguardo ildúnedain,il quale se ne stava seduto e meditabondo. Con i suoi occhi grigi egli dava l’impressione d’essersi perso in un’illusione dolce e accattivante. Per la prima volta, Frodo notò la fragilità, il sentimento, l’umanità del ramingo, adombrati sotto la sua veste impavida. Quando scese la notte ed il cielo promulgò un riverbero pallido e ghiacciante, Aragorn, malinconico e affranto, si accinse ad intonare un canto modulato di carezzevole armonia. Le strofe di quell’ode illustravano, in eterno, un amore germogliato in tempi remoti che coinvolse Lúthien, la più bella dei figli Sindar di Ilúvatar, e Beren, un uomo.
L’elfo
femmina ed il mortale si conobbero nei boschi degli aurei Eldar. Lúthien passeggiava
in una radura, ed ivi Beren la notò. La cercò per tutto l’inverno, dal giorno
alla notte, tra i rami secchi e le foglie avvizzite. Gelido era il vento e
fredda la boscaglia. Un bel mattino, sentì un suono melodioso. Vide poi una
lunga chioma bruna cingere il volto di una donna bellissima, dalla cui bocca si
levava una voce incantevole che risvegliava la natura dal torpore. Lúthien cinguettava,
passeggiando col suo tocco etereo, e dal suo canto sublime venne fuori la
primavera. Beren, udendo quel motivo, appellò la fanciulla come Tinúviel, l’usignolo. I due si
avvicinarono e lessero i loro destini negli occhi dell’altro. Lúthien rinunciò
all’immortalità della sua razza per condurre una vita mortale con l’eroe.
Beren considerava la sua Lúthien come un essere di natura angelica. La paragonò
ad un usignolo, il cui splendido suono era lieve come il petalo di un
fiore e forte come lo scorrere di un ruscello.
Beren
non fu il primo innamorato a confrontare l’oggetto del proprio amore con la
levità di un usignolo. Lo scrittore Hans Christian Andersen, quando
s’innamorò di Jenny Lind, soprano lirico, scrisse per lei “L’usignolo”, una fiaba in cui la meravigliosa voce della donna,
conservata nel cuore dell’autore, fu fantasticamente trasfigurata nel canto rinfrancante
di un uccellino, protagonista del racconto.
Mediante
i versi del canto di Beren e Lúthien, Aragorn rievocò l’amore impossibile
tra uno spirito mortale ed un’anima perpetua, sognando anch’egli un destino
in cui il dolce e l’amaro si uniscono.
Arwen Undómielsopravverrà nella notte, spintasi sino ai tardi confini del suo reame per ritrovare Aragorn. Scenderà da un cavallo candido e sprigionerà un bagliore accecante. Frodo, la cui vista è annebbiata dal veleno dei Nazgul, verrà irradiato da quel caldo guizzo. Arwen è una stella, la più luminosa tra le limpide ed incontaminate creature della Terra di Mezzo. La dama di Gran Burrone è splendida come, un tempo, lo fu Lúthien e, attorno al collo, ella porta una gemma bianca, la Stella del Vespro. Arwen dialoga con il númenóreano, in lingua elfica, quand’egli le sfiora la mano.
Arwen
condurrà Frodo in salvo a Rivendell, scampando agli spettri.
"Aragorn e Arwen" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
L’amore tra
Aragorn e Arwen
La
fiamma dell’Ovest smise di divampare molti anni addietro. Veniva chiamata così
Narsil, la gloriosa lama dei re, “fiamma dell’occidente”. Essa, spazzata
via, si spense. Da quando Sauron l’aveva frantumata, non fu più riforgiata. I
frammenti della spada riposavano a Gran Burrone, poggiati su di un morbido
tessuto azzurro e sostenuti dalla presa di una scultura marmorea.
Aragorn onora Narsil come simbolo della sua casata, esita persino a toccarla senza porgerle i propri rispetti. Dinanzi ai resti della futura Andúril, è possibile ammirare un vasto dipinto che cattura il momento in cui Isildur staccò l’anello dalle mani di Sauron. Aragorn è atterrito al cospetto della spada. Essa rappresenta il passato più coraggioso della propria stirpe ma anche il grande fallimento. La lama appartenuta ai suoi padri, ancora affilata ma non integra, testimonia per Aragorn la traccia di un trascorso che grava ancora sul presente e, al contempo, il segno di una debolezza, di un tracollo. Come fu spezzata la spada, così accadde al lignaggio dei re. In quei residui d’acciaio, su cui sono ancora incise rune, è custodita la separazione, la divisione, la perdita dei sovrani di Gondor. Quel cimelio rappresenta molto di più ed Aragorn ne è consapevole. Quando lambisce l’elsa, egli poggia la sua mano sul cuore, come segno di devozione. E’ tutto espresso in questa scena, in quel gesto. Narsil è il passato, Andúril sarà il futuro. Attraverso la sua ricostruzione, potrà essere ricostituita la casata dei monarchi. Tutto resta ancora diviso, come indicato dai frammenti della lama, e tale tutto dovrà essere riunito attraverso le gesta eroiche di Aragorn.
Ma Thorongil ha paura del
suo destino.
Differentemente da Thorin, il nano della dinastia di Durin che perse la corona
per volere di Smaug e agognò riottenerla per tutta la vita, Aragorn non
desidera diventare re. Egli teme il proprio fato, paventando la possibilità
che nel suo sangue scorra la stessa fragilità del suo avo. Aragorn, con
estrema umiltà, scelse l’esilio, nutrendo dubbi sulla sua resistenza al potere
soggiogante. Aragorn teme di non riuscire a sopraffare lo stesso male che
distrusse i suoi antenati. Tuttavia, vi è al suo fianco una persona che gli dà
coraggio, colei che non prova alcun dubbio sulla sua forza, la donna di cui Aragorn
è perdutamente innamorato.
Arwen indossa un vestito bianchissimo, ed è avvolta da un fulgido chiarore. Con voce soave, bisbiglia all’orecchio dell’amato quanto coraggio si possa trovare in lui. La figlia di Elrond è una stella staccatasi dal firmamento, che brilla sulla terra. Ella oltrepassa le nubi che ombreggiano sull’orizzonte, che offuscano le riflessioni di Aragorn, i cui affanni deturpano il suo volto fiacco.
Il
dunedain rimembra, indugiando, coi pensieri, sul primo incontro che ebbe
con Arwen. In quel giorno, per sua stessa ammissione, Aragorn credette
d’essersi smarrito in un sogno. Nei boschi dell’Imladris, il giovane scorse
la nobile fanciulla, ed il suo incedere venusto tra le verdi betulle.
Aragorn chinò il capo, per vedere il prato che si dipanava sotto i suoi piedi.
Volle capire se inavvertitamente stesse valicando un sentiero onirico,
in cui la tersa magia era succeduta alla realtà.
Arwen
rassomigliava alla dama Lúthien,
incarnandone il candore e l’abbagliante bellezza. Aveva la pelle limpida e
vellutata, le labbra rosate, gli occhi cerulei e lunghi capelli corvini che le
scendevano lungo la schiena. Aragorn le rivolse parola, ed ella
contraccambiò. Gli scritti antichi avevano racchiuso l’amore di Beren e Lúthien in un unico canto, ma per
Aragorn nessuna parola dell’idioma conosciuto sarebbe mai riuscita a render
merito a quello splendore elargito che rubò il suo sguardo. Arwen era pura e
delicata, irraggiungibile e rilucente come un astro. Per Aragorn, Arwen
personifica non una sola melodia, ma tutte le arie più liete suonate dai
menestrelli elfici. Ella era flautata come la soavità di un’arpa. La Stella del
Vespro della razza elfica convogliava in sé lo splendore di una stirpe
angelica, la grazia di un popolo imperituro, l’etereità di un’essenza divina,
la gentilezza di un cuore immacolato.
A
Gran Burrone, Aragorn ed Arwen permangono in piedi su di un ponticello
roccioso, stretti ed immersi tra la natura. L’acqua scorre sotto di loro ed
entrambi, come già accaduto a Cerin Amroth, si promettono eterna fedeltà.
Arwen scosta i capelli di Aragorn e gli carezza le gote. Aragorn fa scorrere la
sua mano sul collo della fanciulla, sino a sfiorare la Stella del Vespro. In
quell’attimo, Arwen dona ad Aragorn la gemma elfica, promettendo di rinunciare
all’immortalità della sua gente. La Stella del Vespro, ricolma di una
nitida luce, palpita come un cuore pieno d’amore. La stella simbolizza per
Arwen la parte più intima di sé, il cuore tramutato in oggetto prezioso
che liberamente la donna può scegliere di offrire a colui di cui si è invaghita.
Ella vincola se stessa all’Elessar, in modo che Aragorn, portando il gioiello
con sé, possa averla sempre accanto.
Gli elfi sono esseri
beneficiati da un’esistenza illimitata, non compendiano l’invecchiamento,
l’angustia del tempo che scorre via, e non conoscono la morte che sopraggiunge
al termine di un percorso vitale.
Arwen recede il rapporto con la sua natura eterna, abbracciando la dolcezza
dell’amore e l’amarezza della mortalità. La principessa elfica sceglie di
vivere una vita soltanto, e di consumare la propria leggiadria in poco più di
cento anni. Ma cos’è un secolo per un elfo?Un battito di ciglia in
un vissuto millenario, un sospiro fuggevole in un respiro prolungato, un fiore
caduco che sboccia e appassisce in un sol giorno.
Eppure,
in un tempo più esiguo da condividere con Aragorn, Arwen mira la sostanza
della felicità, della gioia più grande, un morso che appaga molto più di
un lauto pasto. Cento anni vissuti con pienezza varranno ai suoi occhi
tanto più di interminabili ere trascorse nella solitudine e nel rimorso. Arwen,
da donna celeste, diviene donna terrena, “baciando le guance” di un
destino che porta ad una fine. Il suo sarà un amore eterno nelle anime ma
non nei corpi. Aragorn, perdutamente ammaliato dalla dama, non avrà tra i suoi
pensieri che lei, il suo solo conforto, la sua unica ragione. Aragorn ed
Arwen si baceranno tra gli alberi muti e vivi della foresta. La storia ha
trovato il modo di ripetersi, ed Aragorn e Arwen, uniti da un amore profondo ed
inviolabile, ripeteranno quanto fatto da Beren e Lúthien.
Sia Aragorn che Arwen
raffigurano stelle evocative ed ispiratrici. Arwen è la stella che orienta il vagare del ramingo, colei che sempre
guiderà Aragorn nel suo cammino. Aragorn, invece, chiamato in giovane età anche
Estel, è una stella fioca che diverrà sempre più accesa, poiché carica
della luminosa speranza che darà coraggio a tutti i popoli liberi della Terra
di Mezzo.
Se Arwen donerà all’infinto speranza al suo amato, Aragorn donerà la medesima speranza ai dunedain e ai suoi fratelli di Gondor e Rohan.
La compagnia
dell’anello
Frodo
ha rincontrato suo zio Bilbo, il quale, adesso, soggiorna nell’Ultima Dimora
Accogliente. Lo hobbit ambiva a viaggiare, ma lontano dall’innaturale potere
dell’anello, cominciò ad invecchiare rapidamente. Bilbo sfruttò la permanenza
alla Casa di Elrond per concludere il suo libro. Frodo è il primo a sfogliarlo,
loda i disegni in esso contenuti, specialmente la mappa che tratteggia
la Contea. Essa manca molto a Frodo ma il fardello ereditato dallo zio lo
obbligherà a peregrinare ancora. Bilbo dà a Frodo Pungolo e la corazza di
Mithril, due “oggetti” che prestarono già servizio in un’altra avventura.
Al concilio di Elrond si forma un manipolo di 9 eroi. Frodo si assume la responsabilità di portare l’anello sino a Mordor, per gettarlo tra le fiamme del Monte Fato. La compagnia dell’anello partirà da Forraspaccata l’indomani. Otto compagni seguiranno Frodo: Gandalf, fuggito da Isengard, Aragorn, Legolas, l’elfo saggio e potente di Bosco Atro, Gimli, nano astuto e risoluto, Samwise, Merry, Pipino e Boromir, capitano di Gondor.All’interno della compagnia nove compagni, appartenenti a razze diversissime tra loro, stringeranno un rapporto d’inossidabile amicizia. Tolkien, partorendo l’idea di un gruppo di “avventurieri” così eterogeneo, volle, metaforicamente, abbattere le barriere e mostrare come l’amicizia, l’affetto, possano nascere indipendentemente dalla “razza”, ognuna speciale a suo modo. Aragorn lascerà Gran Burrone senza avere la certezza di rivedere Arwen. La guarderà una volta ancora, le farà un cenno, e si aggrapperà alla speranza per riabbracciarla.
Durante
il “concistoro”, Boromir, con sprezzante arroganza, sollecita tutti a usare
l’anello contro Sauron. L’uomo verrà ammonito saggiamente da Aragorn che gli
rammenterà che l’Unico risponde ad un solo padrone.
"Gandalf, il grigio" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Le miniere di
Moria e la morte di Gandalf
La compagnia s’incamminerà sino ai picchi innevati di Caradhras. Verranno, tuttavia, dissuasi dal proseguire dalle arti magiche di Saruman. Nelle prime fasi del viaggio, Boromir interagisce con gli hobbit con simpatia e affetto, in particolar modo con Merry e Pipino. Egli li istruisce come un maestro schermidore, e gioca con loro quando lo “attaccano” scherzosamente. Quando il passo del “Cornirosso” diverrà troppo ostico, Boromir si farà carico di due hobbit, e nel periodo in cui il freddo sarà sempre più pungente, esorterà tutti a lasciare la catena montuosa, in caso contrario, afferma, sarà la fine degli hobbit. Jackson, attraverso questi espedienti, mostra come Boromir si stia affezionando ai mezzuomini, coloro per i quali morrà.
Assecondando
il suggerimento di Gimli, la compagnia giunge alle miniere di Moria. Il dominio
di Khazad-dûm sorgeva nel cuore delle Montagne Nebbiose, e ad esso si arrivava
dopo aver percorso un lungo viottolo, fatto di rocce e sassi. Innanzi alle mura
di Moria, vi era un grande stagno putrido, generatosi dal Sirannon, un torrente
straripato che allagò la vallata prospicente i cancelli occidentali. L’acqua
del torbido lago, così come le stesse miniere, non veniva disturbata dalla
presenza dell’uomo da molto tempo. Gandalf sapeva cosa albergava nelle
profondità segrete della terra, ma non poteva vagliare altra opzione. La voce
di Saruman, mesta e rigorosa, rimbombò nella testa del grigio pellegrino. Lo
stregone bianco lo avvertì: a Moria vigono ombre e fiamme. Gandalf dovrà
compiere l’azione più intrepida della sua vita, semmai il flagello di Durin
dovesse frapporsi e sbarrare loro la via. Al calar della notte, il raggio della
luna illuminò le Porte di Durin, fatte d’Ithilden, e rivelò l’enigma per
varcare la soglia. Fu Frodo a risolvere “l’indovinello”, dimostrando d’aver
“ereditato” il talento dello zio, anch’egli, alquanto, scaltro nel risolvere i
rompicapi.
“Non ho memoria di questo posto” –
ammette Gandalf, lungo il tenebroso sentiero, non riuscendo a rammentare quale
via sia quella corretta. Lo stregone grigio regge il bastone magico donatogli
da Radagast, ha deposto al suolo il capello a punta, e siede su di una roccia.
Resta laconico, indeciso su quale dei due varchi porti all’uscita. Moria è
un reame abbandonato, una tomba oscura, repleta di sofferenza. Gli orchi ed
i goblin dominano l’antico regno di Nanosterro, le fiamme rosse il baratro.
Gandalf riflette, cosciente che presto affronterà la morte e che essa
esigerà la sua vita. Ecco che il discorso che farà a Frodo, relativo al tempo
che viene concesso ad ogni mortale, assume un valore ancor più rilevante poiché
proferito da un uomo consapevole che il suo tempo verrà presto a terminare.
In
uno dei dialoghi più significativi del film, Gandalf citerà la pietà come
qualità intrinseca dell’animo umano. Mithrandir insegnerà a Frodo la compassione,
un principio, quest’ultimo, che anni prima trasmise a Bilbo. Frodo ammatterà di
rimpiangere la scelta effettuata in passato dallo zio, ovvero quella di
risparmiare la vita a Gollum. Fu un peccato non togliere la vita a quella
sgradevole creatura? No, fu un atto di pietà.
Bilbo
osservò quella carcassa dotata di movimento, sparuta e smunta, e vide in essa
l’infezione, la contaminazione dell’oscura pazzia. Eppure, negli occhi tondi
e azzurri, disperati, di Gollum, Bilbo dedusse il supplizio di un essere malato.
Ebbe misericordia, non volle arrecare altro dolore. Neppure i più saggi
conoscono gli esiti di ogni operato, e non si deve mai avere fretta di spargere
condanne e giudizi. Gandalf crede fermamente che il vero coraggio non si compia
nel sottrarre una vita, ma nel risparmiarla. Gollum, per la sua
crudeltà, per la sua violenza, meritava forse di perire, ma chi può sancire
questo con assoluta sicurezza? Nessuno dovrebbe avere l’insensata arroganza
di uccidere un colpevole, poiché diverrebbe reo a sua volta. Ogni atto efferato
dovrà essere punito, ma la morte non corrisponde mai ad alcuna giustizia.
Personalmente,
la pietà espressa da Gandalf mi ricorda alcuni concetti trattati da Cesare
Beccaria nel suo famoso libretto “Dei
delitti e delle pene”. In quel volumetto, il padre di Giulia Beccaria,
nonché nonno di Alessandro Manzoni criticò aspramente la pena di morte,
facendo appello ad una sana giustizia e ad una coscienziosa pietà. Gandalf dirà
poi a Frodo che spesso, tutti noi, non possiamo avere il controllo sui tragici accadimenti,
ma possiamo, nonostante ciò, scegliere come agire di conseguenza, e sfruttare
il tempo che ci viene concesso. Gandalf è al corrente che la sua ora
potrebbe presto giungere ed è pronto ad impiegare quello che gli resta per
proteggere e salvare tutti i suoi compagni.
Quando il Balrog emergerà dal fuoco, lo stregone non esiterà ad affrontarlo e a farlo cadere giù. Verrà trascinato anch’egli, e scomparirà nella gola.
La morte di
Boromir
A
Parth Galen si udì, per l’ultima volta, il suono del corno di Gondor.
Esso aveva il valore di una reliquia, era bianco come l’avorio, vantava una punta
d’argento e diverse incisioni d’oro. Fu spezzato dalla carica degli Uruk-hai.
Boromir lo usò finché ci riuscì, nel vano tentativo di chiamare a sé ulteriore
aiuto in tempo. Boromir peccò, tentò di sottrarre l’anello a Frodo.
Rinsavì dopo aver provato il furto, e si vergognò profondamente. Impiegò
ogni sua forza per salvare Merry e Pipino durante il conflitto con i grandi
guerrieri che portavano la mano bianca di Saruman. Boromir difese
strenuamente i due hobbit, coloro che più gli avevano prestato attenzione ed
amicizia. I piccoli mezzuomini a cui aveva impartito blande, veloci ma
divertenti lezioni di scherma, erano ancora incapaci di difendersi. Il
capitano di Gondor farà quanto potrà per salvarli, ma come punizione per la sua
colpa, fallirà.
La
prima freccia lo trafisse al petto. Boromir parve appena sentirla conficcare
nella pelle, si rimise in piedi e seguitò ad abbattere qualunque avversario gli
si ponesse davanti. Un secondo dardo nero lo raggiunse al cuore e quasi sembrò
sopraffarlo. Il primogenito di Denethor esitò per qualche istante, poi urlò
ancora e sguainò nuovamente la spada. La terza freccia scoccata distrusse la
sua resistenza fisica, non il suo ardore. Ad ogni colpo adempiuto, è
probabile che Boromir ripensasse alla conversazione che ebbe con Aragorn, colui
che sarebbe dovuto essere il suo futuro re. Ogni fendente intercettato, ciascun
colpo assestato non fece che richiamare in lui quel breve ma emblematico
dialogo. Come disse al figlio di Gilraen, Boromir sognò un giorno che entrambi
avrebbero camminato sino alle propaggini del regno di Gondor e Arnor, sino ai
confini di Minas Tirith. Vedendoli, la sentinella, sulla grande torre bianca di
Ecthelion, avrebbe annunciato il ritorno dei nobili figli del regno degli
uomini. Nulla di tutto questo mai si avvererà. Le vedette cercheranno
Boromir in lontananza, ma non lo scorgeranno mai più.
Boromir
cadrà a terra, ma non si distenderà. Resterà in ginocchio, genuflesso al
giudizio. Nel suo permanere chino, Boromir dà l’impressione di non volersi
arrendere, ma se il suo spirito non è ancora piegato, lo è il suo corpo.
Aragorn
piomberà sul terreno di guerra troppo tardi, e potrà soltanto declamare un
estremo saluto. Boromir confesserà il suo errore, pentendosi di non essere
stato saggio come il proprio “fratello”. Egli si è macchiato, e per Tolkien
il peccato più grave non potrà essere perdonato sulla Terra. La fatalità
della morte costituirà il castigo. Fin dall’inizio, Boromir aveva palesato
un carattere forte, aggressivo. Egli tramava d’impossessarsi dell’anello ma
non per servirsene egoisticamente. Invero, voleva porlo a difesa del suo
popolo. Come accadde a Thorin, Boromir morì dopo aver ceduto alla tentazione,
ma mantenendo il proprio coraggio ed il proprio onore. Il capitano di Gondor
incarnava la debolezza umana ma non solo. Egli personificava anche la voglia
di riscatto, d’espiazione, il rimorso, l’altruismo che porta all’atto del
sacrificio: tutte caratteristiche proprie del sentimento umano. Il fatto di
aver errato rende Boromir un personaggio riprovevole? Tutt’altro, schietto e
vero. La grandezza di questo eroe caduto sta proprio nel rammarico, nel voler
epurare il suo sbaglio. La cristianità di Tolkien è espressa pienamente
nella dipartita di Boromir. Il personaggio non verrà graziato sulla Terra,
ma è certamente ipotizzabile che trarrà in salvo la propria anima per essersi
ravveduto prima che l’ombra calasse.
Aragorn
seppellirà Boromir, congedatosi da lui dopo averlo riconosciuto come unico e
vero re. Il sire deporrà il corpo del guerriero, fissato in una nobile
posa, su una barca, e farà sì che essa navighi sino alle cascate di Rauros.
Mentre
Aragorn, Legolas e Gimli partiranno alla ricerca di Merry e Pipino, Sam
raggiungerà Frodo e con lui proseguirà verso Mordor. La tenacia di Sam è
espressa proprio in questo frangente. Egli non abbandonerà mai Frodo, perché
lo ha giurato, ed una promessa per i puri di cuore equivale ad un sigillo. La
compagnia si è disgregata ma non ha fallito, poiché è rimasta fedele al
giuramento d’amicizia e amore. Nessuno verrà abbandonato, nulla cadrà mai
nell’oblio.
Thorin illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Memorie da raccontare
Confidenzialmente, Tolkien disse di aver intuito, per la
prima volta, la magia delle parole
leggendo le fiabe, poiché esse rendono
l’inverosimile veritiero, l’eteroclito usuale, e costituiscono l’elogio più
puro alla fantasia umana. Le fiabe
più antiche nascevano dalla tradizione popolare, venivano tramandate oralmente, raccontate a viva voce, come
fossero memorie fantastiche ma identificative da perpetuare di
generazione in generazione. Le favole conosciute e lette dal Professore
conservavano, nei loro versi, una magia immutata. Le parole, specie quando
vengono fissate su carta, danno forma ad un pensiero, corpo ad un’idea, e costituiscono
una via per l’immortalità. Ciò che
viene impresso sul foglio non può svanire. Un
ricordo, se si mescola all’inchiostro, diventa eterno. Tolkien, un po’ come
lo stesso Bilbo, capì questo con l’esperienza e la maturazione. Quando decise
di trascrivere le proprie memorie su pergamena immacolata, l’anziano hobbit era
ben consapevole che le sue parole avrebbero reso duraturo un passato meritevole d’essere ricordato. Bilbo fece appello alle
sue memorie più care per concepire il proprio componimento scritto.
Alcuni rievocano i loro ricordi con gioia, altri, invece,
preferiscono evitarli, fuggendo via da essi senza mai riuscirci. Per lo hobbit, i ricordi sono uno squarcio su
di un tempo andato ma dal valore mai sopito. Per Thorin, invece, i ricordi
erano una ferita grondante di sangue, mai cicatrizzatasi.
Il secondo capitolo della
trilogia cinematografica dedicata all’avventura di Bilbo cominciò proprio
materializzando un ricordo.
Ombre dal passato
Il sole scese ad ovest, e su tutto calarono le tenebre. Una pioggia incessante si abbatté sul villaggio di Brea. Quella sera, il terreno, zuppo e fangoso, venne percorso da una figura tarchiata, poco più alta di uno hobbit. Si trattava di un viandante piccolo di statura ma balioso, che procedeva con aria vigile, tenendo il volto ben celato da un cappuccio.Costui osservava la realtà circostante con diffidenza e sospetto. D’un tratto, un uomo barbuto e robusto fuoriuscì da una porta, addentando voracemente una carota, prima di dileguarsi nel buio. A Brea era possibile incontrare genti diverse, persino bizzarre, provenienti da ogni parte della Terra di Mezzo. Il nostro viaggiatore segreto trovò riparo dall’acqua piovana all’interno del Puledro Impennato. Nella locanda, fra quei tavoli, tutto ebbe inizio.
L’imprecisata figura tolse la veste coprente dal capo e rivelò il proprio volto regale. Thorin si mise a consumare un frugale pasto caldo quando, al suo tavolo, ricevette la visita di un commensale inaspettato. L’intenzione di riconquistare Erebor fu concepita, a quattr’occhi, quella sera stessa. Gandalf raggiunse Thorin a Brea, dopo aver incontrato loschi individui sul Verdecammino. Mithrandir si palesò al cospetto dell’erede del regno di Erebor, spronandolo a riconquistare la sua terra natia. In quella cupa notte, Gandalf non era sereno. Egli temeva il potere che albergava da troppo tempo in quella montagna. Qualcosa, un giorno, avrebbe potuto destare il drago, convincerlo a fungere da indispensabile alleato. Soltanto un nemico molto potente avrebbe potuto farlo, e Gandalf temeva che, costui, avrebbe fatto presto ritorno.
Lo stregone grigio
invogliò, così, Thorin a richiamare i suoi alleati più fidati per formare un
manipolo di eroi pronti a sfidare la furia di Smaug. Ma i nani non sarebbero
bastati per ottemperare ad una tale impresa, Gandalf sapeva che sarebbe servito
uno scassinatore, una creatura dal passo leggero, uno hobbit per trafugare
l’Arkengemma.
“Lo Hobbit – La desolazione di Smaug” dà via al proprio scorrere su pellicola con una scena ambientata nel passato. L’incontro tra Gandalf e Thorin è un ricordo, per l’appunto. I ricordi, ne “Lo Hobbit”, sono fondamentali. Dopotutto, l’intera storia è un viaggio a ritroso tra le memorie di Bilbo Baggins.
Il libro che Bilbo sta scrivendo nasce, di
fatto, dalle sue reminiscenze, con
l’obiettivo di rendere i suoi ricordi sempiterni. In essi, Bilbo custodisce i suoi affetti più cari, le sue amicizie, la
parte più intensa del proprio vissuto. Differentemente da Bilbo, Thorin, al tempo dell’incontro con
Gandalf, possiede ricordi dolorosi, taglienti come fendenti implacabili. I
ricordi danno valore ad una vita, e possiedono consistenze varie, differenti, effimere,
seppur tanto valenti. Essi possono essere cristallini come un diamante rilucente,
ma anche foschi, obnubilanti poiché appartenenti ad un periodo oscuro
dell’esistenza. Il sentiero che conduce alle memorie più profonde, talvolta,
può divenire plumbeo, come se una fitta nebbia calasse lungo il tratturo che
conduce al loro rinvenimento. Varcare la grigia bruma e addentrarsi verso le
rievocazioni più tetre può essere doloroso e, per tale ragione, si preferisce
fuggire da quei ricordi tanto indesiderati. Per Thorin, richiamare alla mente l’addio al suo amato reame equivale a
valicare un regno avviluppato dal buio e dalla dolenza.
Purtroppo non si può
scampare dal proprio vissuto né fuggire dai propri ricordi. Il passato più
tetro può tramutarsi in un predatore feroce, digrignante, ferino come un mannaro selvaggio. Il passato di Thorin non è
fulgente, esso somiglia ad una landa desolata,
spoglia, taciturna. La scomparsa dell’adorato padre, l’addio alla sontuosa
dimora, la perdita della corona, sono tutti eventi che hanno provato lo spirito
di Thorin, il quale vive una vita a metà, prigioniero
di un fosco passato e di un futuro senza speranza. Egli non può liberarsi
di ciò che è stato. Il passato segue il cammino di questo viandante nanico
dalle nobili origini, con un passo lesto, smorzato, tallonando l’incolume come
un segugio dal manto scuro. Thorin sa che ciò che è successo anni or sono
continuerà a perseguitarlo sino a quando non riuscirà a riottenere la propria
terra natale. Il regno perduto di Erebor
rappresenta l’ecchimosi più lacerante tollerata da questo morigerato sovrano
incompiuto. La Montagna Solitaria sottratta da Smaug costituisce un
tormento per Thorin; un tormento che, per l’appunto, fa eco dal passato. Per l’erede al trono di Erebor riottenere la
Montagna Solitaria rappresenta l’adempimento
di una faccenda rimasta in sospeso. Soltanto riconquistando Erebor, Thorin
potrà venire a patti con i suoi ricordi acuminati, affilati come dardi
appuntiti. Thorin teme le sofferenze di
un mesto passato, Gandalf, al contrario, guarda al futuro con estrema
preoccupazione.
La pellicola torna al “presente”, seguendo Bilbo e i suoi
fidati compagni prossimi a fuggire dai pericoli della foresta. Il passato è pericoloso poiché non sempre
resta confinato nell’oblio.
Presente e futuro
Ogni scelta che compiamo in vita potrà ripercuotersi sul nostro futuro e su quello dei nostri discendenti, ed i vecchi nemici che credevamo annientati potranno tornare: è ciò che l’opera di Tolkien e la trasposizione di Jackson vogliono suggerirci. Azog, l’orco pallido, fu un temibile e massiccio avversario che Thorin affrontò e sconfisse molti anni addietro. Tuttavia, la crudeltà di Azog non cessò mai di esistere, egli riuscì a sopravvivere, ed il suo odio perdurò. Così, l’orco candido poté ripresentarsi dinanzi al suo acerrimo rivale.
Il tempo, ne “Lo Hobbit”, è un pendolo oscillante tra
passato e futuro. Il grigio pellegrino ha intuito che l’oscurità si è
risvegliata e, differentemente, da Saruman (in segreto, già votatosi a foschi
pensieri) non vuole attendere oltre. Durante l’avventura, Bilbo raccoglie un anello
magico, senza poter supporre che quel piccolo gioiello non è un comune gingillo
d’oro luccicante, bensì l’Unico Anello, forgiato da Sauron tra le fiamme del
Monte Fato. Il ritrovamento di Bilbo,
che ha sottratto quel “tessssoro” tanto prezioso dalle grinfie di Gollum, è
avvenuto nel “passato”, ma costituirà un evento che si ripercuoterà sul futuro,
quando Frodo erediterà tale, pesante, fardello.
Sauron è un’ombra occulta avvolta tra fiamme rosse ed infuocate, è l’incarnazione di un male che echeggia dall’avvenuto, un essere che alberga nei ricordi più spaventosi delle creature della Terra di Mezzo. Egli è un’essenza astratta, potente, ombrosa, invisibile, elusoria, apparentemente scomparsa. Egli si dissolse come fumo di un fuoco spento ma non svanì mai del tutto. Consumato dal dubbio circa l’identità di questo Negromante, Gandalf decide di abbandonare temporaneamente la compagnia per indagare sugli oscuri misteri che giacciono velati nella fortezza di Dol Guldur. Gandalf è ben cosciente che ciò che è stato scacciato, ma non estirpato del tutto, potrà ripresentarsi.
Così, lo stregone si
incammina sino al cuore di una montagna, nella cui oscurità riposano le tombe
dei nove re degli uomini. I sepolcri sono stati disseppelliti, la pietra è
stata rotta, le celle che sigillavano le loro anime col ferro sono state
infrante. I Nazgul sono liberi, ed essi rispondono ad un solo padrone. Persuaso
che il Negromante sia realmente un’eco di Sauron, Gandalf giunge a Dol Guldur e
fronteggia la terribile ira dell’Oscuro Signore, oramai smascherato nel suo
inganno. Il grigio pellegrino viene sconfitto agevolmente, e la sagoma
avvoltolata dal fuoco di Sauron si materializza. Il discepolo di Morgoth non è divenuto
un grande occhio senza palpebre avvolto nelle fiamme ma è ancora un “corpo” che brucia senza divenire mai
cenere, impalpabile e vedibile, nero come pece. Sauron è un’orma mai
dissoltasi, la traccia di un passato che
riecheggia nel presente e, ancora, nel prossimo
futuro.
Da Azog a Sauron, le
ombre del passato seguitano a fiancheggiare i corpi impreparati dei
protagonisti, cogliendoli alla sprovvista.
La desolazione di Smaug
Col secondo capitolo della trilogia de “Lo Hobbit”, Jackson proseguì la trasposizione del romanzo del Professore. Tuttavia, se per il primo lungometraggio il regista neozelandese preferì, salvo alcune licenze, mantenersi fedele alla controparte letteraria, in questa seconda pellicola cambiò sostanzialmente alcune partiture della trama. Per marcare il collegamento con la trilogia del Signore degli Anelli, Jackson scelse di inserire Legolas. Orlando Bloom tornò a vestire i panni dell’elfo di Bosco Atro. Jackson e Bloom, probabilmente di comune accordo, optarono per caratterizzare Legolas in maniera differente. Sessant’anni prima degli accadimenti mostrati nella trilogia dell’Anello, Legolas è un elfo diverso, più freddo, impetuoso, a tratti persino spocchioso, meno sensibile e nobile rispetto a quello mostrato nel “Signore degli Anelli”. Jackson vuol fare di questo Legolas un ritratto giovanile e, pertanto, imperioso e meno flemmatico. Legolas è, di fatto, più combattivo e meno saggio, più spericolato e meno accorto, più battagliero e meno altruista. Il Legolas de “Lo Hobbit”, purtroppo, risulta essere un pallido riflesso, un personaggio superfluo, addirittura trascurabile. Difficile da credere, considerando l’importanza e la grandezza che il personaggio rivestirà nella prima trilogia di Peter Jackson.
Legolas - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
La più emblematica modifica alla storia è, però, stata apportata dall’introduzione del personaggio di Tauriel. I lineamenti angelici, delicati, morbidi di Evangeline Lilly furono donati a Tauriel, elfo silvano dai capelli rossastri del regno di re Thranduil. Tauriel è legata a Legolas da un vincolo di profonda amicizia, sebbene quest’ultimo provi per lei un affetto ben più simbolico. Tauriel incontrerà Kili, uno dei nani della compagnia, e tra loro nascerà un tenero rapporto. Entrambi, nella concezione di Jackson, sono membri relativamente giovani della loro specie. Tauriel e Kili dialogano per la prima volta nelle prigioni del palazzo di Thranduil.
Re Thranduil dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Tauriel confessa al giovane di ammirare la luce proveniente dalle stelle. Kili controbatte, affermando di averla sempre reputata una luce fredda, remota, sin troppo lontana. Ma Tauriel è cosciente del fatto che tale luce rappresenti la memoria, sfavillante ed eternamente valida come una promessa pronunciata. Ecco che il concetto di “memoria” torna a ripresentarsi nella nascita dell’amore tra Tauriel e Kili. La memoria ed il ricordo più luminoso splendono su nel cielo, come luce di una stella che guida l’avvenire.
"Tauriel" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Il breve dialogo che
coinvolge Tauriel e Kili li avvicina. L’elfo femmina nota la sensibilità del
giovane, caratteristica non certo identificabile con facilità in un nano. L’infatuazione
amorosa che si svilupperà tra l’elfo femmina e il nano sarà immediata.
Jackson tenta così di abbattere le barriere che separano due razze divise, negli scritti di Tolkien, da un’aspra inimicizia e da una persistente antipatia. Il Professore generò il rapporto tra elfi e nani come ricco di dissapori e avversioni insuperabili. Gli elfi e i nani si evitavano ben volentieri senza mai provare ad avvicinarsi e a conoscersi. Legolas e Gimli, durante gli eventi della Guerra dell’Anello, spezzeranno quest’antica ostilità, legandosi vicendevolmente in un rapporto d’amicizia inossidabile. Jackson prova a ripetere quanto creato dal Professore, cambiando però lo scenario ed il modo in cui due esseri appartenenti a due razze così diverse si rapportano tra loro. Egli, pur consapevole dei rischi e delle critiche a cui andrà incontro, non vuole immaginare un’amicizia, bensì un amore. E’ possibile che tra Tauriel e Kili possa esistere un sentimento così puro e coinvolgente?
Re Thranduil - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
A questo quesito, Jackson
risponde positivamente. Il sentimento che si instaurerà tra i due sfortunati,
ed impossibili, innamorati è reale,
pertanto possibile. Ciononostante,
la tragica fine cui andrà incontro Kili rovescerà ogni destino sperato, come a
testimoniare, in verità, un esito negativo.
"Re Thranduil" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Eredità
A Pontelagolungo, località sita a sud di Erebor, vive Bard, un umile chiattaiolo. Anche su Bard pesa l’eredità di un passato tormentato. Suo è l’antenato che non riuscì a fermare il drago quando questi spazzò via le esigue resistenze di Esgaroth e espugnò la Montagna Solitaria. Bard ha ereditato l’ultima freccia dalla punta nera in grado di perforare le scaglie di drago. Quella freccia, che Bard tiene nascosta nella sua casa, gli ricorda un triste fallimento. Bard, similmente ad Aragorn che paventava la debolezza di Isildur miscelata al suo sangue, trema al pensiero che anche su di lui possa “scorrere” il fato avverso e sfortunato patito dal suo predecessore.
"Re Thranduil" - Dipinto di Erminia A. Giordano perCineHunters
Le ombre e le paure avvolgono Bard, rappresentato dall’impeccabile Luke Evans come un eroe del popolo, che si erge sulle malefatte del potere schiacciante ed oppressivo incarnato dal governatore. L’arciere sa cosa accadrà nel caso in cui Thorin dovesse riuscire a varcare la soglia di Erebor, e teme l’imminente rivalsa di Smaug. Dinanzi alla promessa fatta da Thorin di concedere, agli abitanti di Esgaroth, una parte sostanziosa del tesoro che giace nella montagna, la missione della compagnia di Bilbo viene accolta e benedetta dal popolo ingenuo e dal governatore avido. Il “nocchiero” di Pontelagolungo è il solo a non subire il fascino dell’oro, in una fase della storia in cui i più si faranno accecare dal suo luccichio. Bard, che ha perduto la propria sposa, l’amore più grande della sua vita, possiede il proprio tesoro negli occhi e nelle bocche dei suoi figli, beni più preziosi di qualunque monile inestimabile.
Durante l’avanzata della
compagnia verso Erebor, Tauriel e Legolas raggiungono la regione che giace ai
piedi della Montagna Solitaria. Ivi,
Tauriel trova Kili ferito gravemente da una freccia avvelenata. Usando
l’Athelas, le lunghe Foglie di Re capaci di promanare un effluvio rinfrescante
di calma e pace, l’elfo femmina salverà Kili. Il nano, in quei frangenti per lui tanto confusi e annebbianti, vedrà una luce radiosa cingere il volto
della sua salvatrice. Kili contempla Tauriel conformarsi al bagliore
rilucente delle stelle. Tauriel, per
Kili, è divenuta memoria, come luce brillante di un corpo celeste, un ricordo
d’amore destinato a rinfrancare il suo cuore stanco. Poco dopo, Kili si
sveglierà, e confesserà di aver visto la sua Tauriel. Tuttavia, egli dubiterà
della sua reale presenza. - Non poteva
essere davvero lei, poiché ella è lontana, tanto lontana da me – similmente
ad una stella della volta celeste così distante da un’anima mortale da poterla
solamente ammirare e… rimembrare. Kili
comprende così che la luce ammirata dagli elfi silvani non è affatto fredda, ma
colma di un calore lucente come il ricordo del viso di un’innamorata.
Quando Bilbo entrerà
nella sala del tesoro si troverà al cospetto del drago sputafuoco, destatosi
dal suo sonno e spogliatosi dalle sue coperte d’oro. Smaug ha avvertito la presenza
dello hobbit, pur non avendo mai fiutato la sua specie. Sfruttando la sua abile
dialettica e facendo valere la sua mastodontica stazza, il drago farà uscire
Bilbo allo scoperto. Thorin seguirà il suo minuto amico poco dopo, bramando con insano desiderio l‘Arkengemma.
La tentazione patita da suo padre e da suo nonno prima di lui peserà sul
destino di Thorin. Anch’egli, come accaduto ai suoi padri, sta lentamente perdendo
la ragione. L’arkengemma, come l’Unico, riesce a corrompere l’animo dei puri. Smaug
ne è cosciente, e quasi medita di cedere il gioiello dei re nanici al figlio di
Thrain, solamente per guardarlo perdersi in una pozza dorata, ingurgitante di avidità.
"Smaug" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Ancora una volta un evento accaduto nel passato torna a riverificarsi. Thorin comincia a cadere come avvenuto ai re che lo hanno preceduto. La storia, alle volte, trova, drammaticamente, il modo di ripetersi.
"Bilbo" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Un libro rosso
Anni addietro, una
persona a me molto cara volle farmi una confessione. Mi confidò che il ciclo
generativo della scrittura ha il proprio picco di fertilità alle prime luci del nuovo giorno. Con la
suddetta affermazione, questo “qualcuno” volle suggerirmi di mettermi a scrivere nelle prime ore di ogni
giornata. Il mattino è, infatti, il momento più idoneo per partorire concetti ed
idee che potranno essere tradotti in parole e frasi. Negli anfratti del
pensiero umano, dove la fantasia
germoglia come un seme nel terreno, ragione e immaginazione, sovente, riescono a
congiungersi in un tutt’uno. Al sorgere
del giorno, la mente di uno scrittore, epurata dalle superflue distrazioni
del dì antecedente, è rinvigorita dal sonno della notte. I pensieri
scaturiscono, così, senza eccessiva ponderazione, superano gli argini come un
fiume in piena, zampillano dalla mente alla carta con trascinante intensità. Il mattino è il momento giusto per
cominciare a scrivere ciò che, per troppo tempo, è rimasto confinato tra i
remoti angoli dei ricordi. A pensarci bene, anche un particolare “romanziere”
alle prime armi era solito “scribacchiare” appena alzatosi dal letto, quando i
raggi del sole illuminavano le pianure verdi e le limpide acque del fiume Brandivino.
Molto ma molto tempo fa, questo anziano “signore” era intento a scrivere il suo libro, all’alba di un giorno davvero speciale. In quel dì, questi compiva 111 anni, eppure il suo volto non dimostrava affatto un secolo di vita e poco più. Il tempo, per il nostro “uomo” dall’aspetto minuto, pareva essersi fermato. In verità, tale provetto scrittore non era propriamente un “uomo”, bensì un “mezzuomo”, e si chiamava Bilbo Baggins. Bilbo era un hobbit e viveva nella Contea, uno dei luoghi più belli ed incontaminati di tutta la Terra di Mezzo.
Quel mattino, Bilbo se ne
stava nella sua casetta a rievocare trascorsi
andati e mai obliati. La casa di Bilbo era un buco scavato nelle collinette di
Hobbiville. Non era certo un buco brutto, impregnato di puzzo maleodorante, scabro,
arido e spoglio, ma un buco hobbit, e quindi comodo, ospitale, gradevole per viverci. Le case degli Hobbit erano graziosissime.
Dall’esterno, esse avevano la forma di piccole grotte, con una porta d’ingresso
tonda come un oblò al cui centro vi era posto un pomello d’ottone sempre tirato
a lucido. All’interno, invece, le stanze e i corridoi somigliavano ad ampie e capienti
gallerie, cunicoli accoglienti e confortevoli.
Nel lungometraggio “Lo hobbit – Un viaggio inaspettato”, la
storia di questo hobbit centenario comincia proprio all’interno della sua adorata casa. Bilbo siede al tavolo da
lavoro, tutto assorto a rimembrare circa un’era lontana ma mai dimenticata. La
scrivania di Bilbo è rivolta verso la finestra, come se lo hobbit avesse bisogno
di guardare fuori, verso il paesaggio verdeggiante della Contea, per trarre
ispirazione nel comporre il proprio testo in divenire.
Quelle ore tanto
speciali, Bilbo le passò a trascrivere con acutezza visiva le proprie memorie
sotto forma di racconto avventuroso. Teneva tra le mani un plico di fogli
bianchi e, sul tavolo, una penna d’oca da intingere nell’inchiostro fresco e scuro
contenuto in una boccetta di vetro. I fogli li aveva ordinati per farne pagine di
un libro dalla copertina rossa. Il volume,
rilegato in pelle, era delicatissimo al tocco. Il colore scarlatto e gli
elementi ornamentali che lo decoravano erano capaci di rapire anche il più fugace
degli sguardi. Quel libro invogliava chiunque lo osservasse a farsi sfogliare. Frodo, il nipote di Bilbo, dava spesso una sbirciatina prima del
dovuto, e Bilbo puntualmente s’infuriava, perché la sua opera era ancora incompleta. “Non è
ancora pronto!” - brontolava. “Pronto
per cosa?” – domandava il nipote. “Essere
letto!” - concludeva il vecchio hobbit dalla faccia ancora giovane.
Se più persone considerassero la casa
prima dell’oro…
La storia di Bilbo vede
la luce all’interno di casa Baggins. La
casa, intesa come luogo in cui vivere, stabilirsi, mettere radici,
appartenere, identificarsi, è una
delle tematiche preminenti dell’opera letteraria e dell’adattamento
cinematografico. Bilbo è innamorato di casa Baggins e lo sarà per sempre. Egli
la difenderà con tutte le sue forze dalle arriviste intenzioni dei suoi
antipatici cugini, i Sackville-Baggins, che più volte tenteranno
d’impadronirsene. La casa, per Bilbo, è un luogo di riparo, un rifugio in cui
potersi sentire al sicuro. Senza una casa, immaginata come uno spazio in cui
identificarsi, si corre il rischio di non
appartenere realmente a niente, di essere pellegrini, nomadi, vagabondi in
una terra senza alcuna corrispondenza. La casa non è soltanto un ambiente in
cui vivere ma un “regno” in cui potersi sentire realizzati, unici, se stessi. I nani che Bilbo incontrerà in
giovinezza non possiedono dimora da
svariati decenni, e sentono di non appartenere a nulla. E’ una mancanza
assoluta, intollerabile, quella che affligge i nani della dinastia di Durin,
scacciati e costretti ad errare fino a che la morte non li reclamerà.
Bilbo ama perdutamente la
sua casa e, quando rievoca il passato, tiene anzitutto a descrivere cosa essa simboleggia
per lui, ovvero un “buco” confortevole, profumato, repleto di cibo... e dove viverefelici. Il passato si materializza sotto i nostri occhi durante la
visione del film: di colpo, un giovane Bilbo compare nel mentre si gode la
brezza, oziando, nel suo giardino. Bilbo
si presenta come un tipo casalingo, abitudinario, pigro e dormiglione. Adora
restare seduto sulla sua poltrona, fumare l’erba pipa, osservare lo sviluppo,
giorno per giorno, delle piante che cura nel proprio orticello. Del resto, tutti gli hobbit hanno un debole
per quello che cresce.
Quando incontra Gandalf, accorso alla sua porta per invitarlo a partecipare ad un’avventura, Bilbo gli ricorda che le avventure non sono affatto cose che riguardano gli hobbit, poiché fanno far tardi a cena. Bilbo fa della consuetudine uno stile di vita. Come tutti i mezzuomini, adora mangiare, godersi l’intimità della propria abitazione, il buon cibo ed il tepore di un soggiorno riscaldato dal fuoco del camino. Bilbo è tutto fuorché un avventuriero spericolato. Gandalf, coi suoi occhi attenti, scruta qualcosa di celato, un’indole caratteriale segreta che neppure Bilbo conosce di se stesso. Gandalf lo ricorda quando era un bambino, un hobbit minuscolo ma impavido, dal passo leggero, curioso di esplorare il mondo esterno. Questo spirito “picaresco” Bilbo lo ha perduto durante la crescita. Egli si è adattato alle quotidianità, alla routine dei suoi simili, tutte creature inseparabili dal loro ambiente natio.
Gandalf, però, è cosciente che le attitudini dimostrate in gioventù da Bilbo possano riemergere e, così, sprona il suo nuovo amico a seguirlo e a coadiuvare un manipolo di tredici nani, bisognosi del suo intervento. Quella sera stessa, i nani raggiungono casa Baggins, e, sotto lo sguardo incredulo di Bilbo, “saccheggiano” la sua dispensa. Tra risate, alzate di calici, brindisi, bevute alcoliche e ingurgitamenti voraci, Bilbo conosce quelli che diverranno i suoi amici più cari. D’un tratto, alla porta, bussa il capo della compagnia: Thorin, Scudodiquercia. Thorin è l’erede al trono di Erebor, ed è intenzionato a riconquistare la Montagna Solitaria, espugnata molti anni prima da Smaug, un drago sputafuoco. Nelle viscere della montagna, riposano le immense ricchezze dei nani, tra cui l’Arkengemma, il più prezioso dei gioielli dei figli di Aulë.
Un drago, una
maledizione
Smaug
è un drago cruento e terribile. La sua figura alata non appare nel primo
lungometraggio. Sebbene resti fuggevole alla vista, Smaug lascia che sia
possibile avvertire la pesantezza del suo alito incandescente, la potenza del
suo volo distruttivo, il calore del suo soffio infuocato. Smaug è un drago
che non possiede residenza. Esso è un signore dei cieli, e le sue ali gli
permettono di volare ovunque voglia, di spadroneggiare sul suolo terrestre
dall’alto. Smaug, come ogni altra creatura alata, dovrebbe trovare su,
nell’azzurro della volta celeste, il proprio ambiente prediletto.
Ciononostante, i draghi, secondo il credo fantastico di Tolkien, bramano l’oro
più di ogni altra cosa. Smaug si impadronisce di Erebor per farne la sua
dimora, dalla quale non verrà più via. Avrebbe potuto avere il cielo come casa,
ma Smaug preferì privare del loro reame i nani, coloro che il cielo fanno
fatica a scorgerlo, poiché infatuati delle profondità segrete della terra.
Le
distese dorate delle sale dei re di Erebor divennero il giaciglio di questo
drago. Smaug si addormenterà in quelle lande siffatte di monete e gioielli, e
farà di quei cumuli di gemme le proprie fredde coperte. Quello che nessuno può
intuire è che una maledizione grava sulla montagna e su tutto quell’oro. Una
dannazione che non ottenebrò il cuore già pietrificato di Smaug, ma che potrà irretire
chiunque riesca a valicare i confini del massiccio montuoso.
Thorin, un re
senza corona
Thorin,
come suggerito dall’ottima interpretazione di Richard Armitage, si mostra sin
da subito come un nano austero e dallo sguardo intransigente.
Scudodiquercia, nel film di Jackson, palesa sin dal principio un carattere
arcigno che, a lungo andare, peggiorerà. La lontananza forzata dal suo
regno, il senso di abbandono e di impotenza patiti dinanzi alla venuta del
drago, contro cui non ha potuto far nulla, hanno indurito il cuore del figlio
di Thrain. Thorin, per troppi inverni, non ha avuto una “casa”, la sua
casa, e questo ha adombrato la serenità della sua maturazione. Thorin soffre il
fatto d’essere un re senza corona, un sovrano privato del proprio reame.
Egli è, conseguentemente, iracondo, sospettoso, e solitario. Thorin testimonia
come un evento drammatico possa compromettere lo spirito di un “uomo” di buon
cuore. Il Thorin di Armitage è testardo, tende a non fidarsi di nessuno,
specialmente degli elfi, e a sottovalutare il valore di Bilbo.
Bilbo, umile hobbit della Contea, possiede in casa Baggins un luogo in cui potersi riconoscere; Thorin, al contrario, è un nobile privato però del suo “castello” e, per tale motivo, incapace di identificarsi nel suo ruolo di re dei nani. Thorin avverte, come un peso che gli dilania il cuore, l’incompiutezza della sua vita. Egli è un re senza un regno, un monarca senza un popolo a cui dare protezione, un "uomo" consapevole di un destino a cui non può ascendere. Lontano da Erebor, Thorin è un esule, un “ramingo” costretto a tollerare un’eterna manchevolezza. Nelle mura di pietra della Montagna Solitaria, nel trono semi-distrutto da un artiglio di Smaug, Thorin ha smarrito il frammento più grande del suo cuore, sussultante di luminosa speranza come l’Arkengemma.
Un viaggio
inaspettato
Le migliori decisioni, come le più belle idee che ispirano la scrittura, arrivano al mattino presto, dopo una notte di riflessione e di buoni consigli. Bilbo, all’alba, si sveglia di soprassalto e accetta, sorprendentemente, di seguire Gandalf e i nani. Egli abbandona così il focolare domestico, e corre verso le propaggini della Contea. Bilbo lascia la sua casa per aiutare i nani a riottenere la loro.
"Thorin" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Peter
Jackson, in questa prima pellicola, traspone oculatamente le atmosfere del
testo di Tolkien. Il regista neozelandese cattura l’essenza del romanzo e la
riversa nell’opera filmica, dimostrando d’essere un traduttore di prim’ordine
nel “parafrasare” versi scritti in sequenze visive. Prima di eccedere in grossi
cambiamenti e di mettere mano al successivo sviluppo narrativo dei restanti due
episodi, Jackson ne “Un viaggio
inaspettato” rende merito, con valevole pregevolezza, alla controparte
letteraria. Cionondimeno, il cineasta era ben cosciente di non potersi limitare
a trasporre. Jackson sapeva che sulla trilogia de “Lo Hobbit” avrebbe gravato l’eredità del “Signore degli Anelli”.
Tolkien scrisse “Lo hobbit” ben prima di creare “The Lord of the Rings”. “Lo Hobbit” si sarebbe rivelato il lavoro iniziatico di una complessa cosmogonia, una mitologia estremamente densa, ricca, sfaccettata.
Thranduil - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Jackson si trovò a
compiere un percorso diametralmente opposto rispetto a quello del Professore. Tolkien partì da un racconto fiabesco per poi giungere
ad un romanzo maestoso, Jackson dovette fare l’esatto contrario. Peter
realizzò, dapprima, una trilogia monumentale che, inevitabilmente, avrebbe richiesto
ai suoi prequel di mantenere toni simili e, di fatto, epici. Jackson,
per omologare le due trilogie e dare continuità alla sua visione, fu
“costretto” a tentare di modellare una fiaba ai canoni maestosi della trilogia
dell’anello, con tutti i rischi e le difficoltà del caso. Scelta saggia,
dunque, quella di introdurre, parallelamente alla storia di Bilbo, gli
accadimenti riguardanti l’avvento di Sauron e il suo lento, sinistro, ritorno
nella Terra di Mezzo. “Lo Hobbit – Un
viaggio inaspettato” centra un ottimo equilibrio tra “favola” e “epicità”,
soffrendo però l’uso strabordante della computer grafica che minerà il realismo
del film.
La Terra di Mezzo immortalata da Peter è bella e radiosa, serena e incantevole. I secoli oscuri sono passati e Arda è, al tempo dell’avventura di Thorin e dei suoi congiunti, un mondo in pace. Questo viene certificato dalle prime fasi del viaggio dello hobbit che, in sella ad un pony, contempla le meraviglie di un paesaggio splendido. Ma credere che Terra di Mezzo sia un luogo sicuro è un’illusione e, presto, Bilbo lo scoprirà. Gli orchi si spingono sino alle terre presidiate dagli elfi e attaccano i nani, i troll di montagna procedono sino ai boschi, la progenie di Ungoliant appesta le foreste con il suo incedere tarantolato. Qualcosa di oscuro si è messo all’opera e le forze del male lo avvertono. La presenza di un essere tetro, un Negromante, che si materializza tenebrosamente nella roccaforte di Dol Guldur, mette in allarme Gandalf, il quale tenterà di convincere il Bianco Consiglio ad esplorare l’antica fortezza per scacciare qualunque entità si nasconda in essa.
"Re Thranduil" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Le
intenzioni di Jackson appaiono cristalline: narrare la venuta di Sauron,
massimo antagonista del Signore degli Anelli, e creare così un legame
inscindibile tra le due trilogie. A minare, tuttavia, l’equiparazione tra “Lo Hobbit” e “Il Signore degli anelli” è l’estetica plasmata da Jackson. L’uso
eccessivo della CGI, gli effetti speciali sin troppo invasivi e la computer
grafica sfruttata con eccessiva frequenza rendono il film differente, e le
ambientazioni poco amalgamate alle medesime della prima trilogia.
Jackson,
sapientemente, non sacrifica nulla, cosciente di poter dosare le tempistiche su
tre lungometraggi dalla corposa durata. Egli non dimentica, dunque, di porre
l’attenzione su alcuni dei momenti più importanti della vita dei protagonisti.
La scoperta di Pungolo, la spada che poi Bilbo donerà a Frodo nel suo viaggio
verso il Monte Fato, e l’approdo a Gran Burrone, reame di re Elrond, saranno
alcuni dei frangenti più interessanti eternati in arte filmica da Jackson.
"Gollum" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Bilbo procede nel suo
cammino, mirando, in principio, le bellezze e, in seguito, gli orrori
spaventosi che si celano nei meandri delle terre selvagge. Nel suo lungo e impervio viaggio, Bilbo si
imbatterà anche in Gollum, l’orripilante portatore dell’unico anello, a cui
sottrarrà quel tesoro tanto prezioso.
"Gandalf" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Gandalf, perché
lo Hobbit?
Sebbene
Gandalf e Thorin rivestano ruoli di spessore, il Bilbo di Martin Freeman
(attore straordinario) rappresenta la sostanza del primo lungometraggio della Trilogia.
Gandalf,
pur essendo il più valoroso tra gli Istari, ammette di aver paura di ciò
che si cela nelle terre desolate di Mordor. Gandalf sceglie Bilbo per il suo coraggio,
consapevole che, più spesso di quel che si creda, in un essere così piccolo
è possibile rinvenire la forza più grande di tutte, quella che mantiene,
giorno per giorno, il male sotto scacco: la bontà e la misericordia dei gesti
comuni e altruistici. Gli hobbit, nel loro agire abitudinario, offrono spesso
dolcezza, bontà, amore, caratteristiche che fanno sentire ogni “straniero” senza
un tetto sulla testa a casa propria, protetto, accudito e felice. La pietà
che Bilbo avrà nei riguardi di Gollum, creatura dall’aspetto smunto e dal
colorito mortifero, deciderà il fato di molti e si ripercuoterà sulle
vicissitudini del nipote Frodo. Bilbo è
una persona dalla fisicità esigua, dall’animo impaurito, ma muterà molto nel
carattere e nel modo di fare. Bilbo, come tutti gli hobbit concepiti
dall’inchiostro immaginifico di Tolkien, è una creatura piccola, che
però sarà destinata a compiere imprese grandi. Egli sarà un sassolino cadente
che, all’impatto, genererà una valanga. Bilbo cambierà le vite di Thorin e di
tutti i suoi familiari.
Al
termine di una notte tumultuosa, su di una rupe da cui è possibile scorgere
Erebor, Thorin implora Bilbo di perdonare i suoi errori: sarà la nascita di una
grande amicizia, sorta anch’essa all’alba di un giorno come tanti.
La
Montagna Solitaria attende ilritorno del suo re. Ma laggiù, tra
i silenti tunnel di Erebor, un respiro di drago scuote le sopite prosperità del
regno. Una palpebra si schiude: Smaug è sveglio!