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Il leggendario Indiana Jones si ripresenta al suo pubblico dopo ben vent’anni dal III° Capitolo, ancora da un’idea di George Lucas, e per la regia di Steven Spielberg.

Ci troviamo nel 1957, in piena Guerra Fredda, e gli avversari di Indiana divengono i Sovietici, guidati da Irina Spalko (una dimenticabile, ed è inverosimile scriverlo, Cate Blanchett). Indiana è alla ricerca di El Dorado, una mitica città in cui sono celati i resti di tredici teschi di cristallo appartenuti a una popolazione extraterrestre. In quest’avventura, Indiana sarà spalleggiato nuovamente da Marion Ravenwood, e dal figlio Henry Jones III. 

Sebbene il ritorno dell’eroe – archeologo lo si aspettava con ansia da più parti, la pellicola non è poi risultata un’operazione molto ben riuscita. C’è davvero molto poco che una possibile recensione attuale dedicata alla tetralogia di indiana Jones possa aggiungere ai tanti commenti che si sono susseguiti nel corso degli ultimi anni sulla quarta avventura dell'archeologo, la più discussa e la più criticata. “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo” non è un buon prodotto, per lo meno non lo è se siamo pienamente coscienti di ciò a cui Spielberg e Lucas ci hanno abituato in passato. Sebbene il film appaia divertente e lo scorrere delle sequenze sia piacevolmente accettabile, la figura di Harrison Ford viene fuori come gravata dal tempo trascorso, già dalle prime battute. L’esperto attore, calatosi ancora una volta alla perfezione nel personaggio, assume una veste che ora diverte e rilassa ora porta alla contestazione più accesa. Tutto questo, in un certo senso, snatura il personaggio: Indiana non sembra più il famoso professore di archeologia, ma adesso è un vero e proprio combattente. Ford appare oggi come il personaggio meno accondiscendente, più votato allo scontro che al ragionamento, colui che incarna il trascorrere inesorabile del tempo, appesantito com’è dalle scorie di un passato che non può venire di colpo cancellato. Scopriamo così che Indiana ha prestato servizio come spia durante la seconda guerra mondiale. Una scelta alquanto peculiare quella della premiata ditta Spielberg/Lucas, i quali mutano il loro personaggio da rinomato professore e avventuriero spericolato, a soldato bellico perfettamente a suo agio durante un conflitto mondiale.

In quest’ultimo capitolo, Spielberg e Lucas tentarono di riproporre il rapporto padre-figlio splendidamente portato in scena ne “L’ultima crociata”, eseguendo una sorta di “rovesciamento", in cui Indiana Jones diveniva ciò che fu suo padre in quell’avventura, più serio e saggio nei confronti di un figlio spericolato. La formula non si ripete, però, con le dovute meraviglie, e tra Indiana e il figlio Henry non scocca minimamente una sorta di alchimia.

La vera pecca de “Il regno del teschio di cristallo” sta nel tentativo di proporre qualcosa di fin troppo diverso. Non si percepisce più quel gusto per l’antico tipico dei precedenti capitoli, bensì si nota un cambio di rotta che poco sembra avere a che fare con “Indiana Jones”. I rimandi agli esseri extraterrestri, e un approccio fantascientifico che prende il totale sopravvento nella parte finale della pellicola, sono elementi del tutto estranianti se paragonati alle precedenti avventure dell’archeologo. Il tema inerente alla fantascienza, quantunque sia solo accennato, lascia a desiderare poiché sovverte l'amore per la storia antica e misteriosa.

Eppure, nelle difficoltà di una realizzazione frettolosa e improvvisata, emergono comunque i lati positivi di un film che se sito tra le mani di due geni come Spielberg e Lucas non può del tutto astenersi dall’offrire note interpretative di pregio e di livello. La ricerca ossessiva e alienante perpetrata della Spalko, ovvero il riuscire ad avere accesso alle conoscenze più profonde e recondite dell’universo finirà per annientare la sua stessa essenza, monito imperativo esplicato dai due geni creativi e rivolto universalmente al genere umano, il quale non potrà in alcun modo accedere a una conoscenza che non può ancora comprendere, specie se un male oscuro sorregge questa ricerca.

“Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo” ha il merito di poter comunque intrattenere lo spettatore in un vortice d’azione e d’adrenalina, sempre preminente nell'approccio registico di Spielberg. Ma si tratta di scene spettacolari fini a se stesse, ma poco importa se si riesce ad accettare semplicemente il fatto che questo quarto capitolo risente  di una diversificazione troppo netta rispetto allo stile precedente. Il finale in cui Indiana sposa Marion poteva essere il degno atto conclusivo di una tetralogia impressa nella storia: non sarà così. Sarà un ultimo saluto dal retrogusto amaro, perché avremmo avuto tutto il diritto di aspettarci qualcosa di più, nell'interezza del film, e pertanto, tale sequenza finale non può davvero concretizzarsi con l’addio definitivo.

Abbiamo ancora bisogno di un’ultima avventura di Indiana Jones. Il quinto capitolo, previsto per il 2019, dovrà assolutamente concederci un finale all’altezza.

Voto: 5,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Indiana ed Henry Jones" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Indossa una giacca di pelle, una camicia e porta un cappello: è un cacciatore di reperti antichi e sta per mettere le mani sulla Croce di Coronado. Un ragazzo però sbuca alle sue spalle e gliela soffia da sotto il naso. L’uomo col capello si volta di scatto, ma per noi non è altro che…uno sconosciuto. Il giovane, invece, che scappa via con la Croce in mano è Indiana Jones. Ci troviamo nell’Utah, nel 1912 e Indiana Jones è soltanto un ragazzetto. “Indiana Jones e l’ultima crociata” inizia subito con una particolarità, un ampio flashback dal ritmo incalzante, confezionato con grande maestria nel girare le scene d’azione, tipica del cinema di Steven Spielberg. Ad interpretare un giovane Henry Jones Junior è il compianto River Phoenix. E in poche, inarrestabili sequenze d’azione, il giovane Indiana sembra plasmare il proprio futuro sotto i nostri stessi occhi. Indiana corre sul tetto di un treno in movimento, per sfuggire agli assalti di quei profanatori di tombe che gli sono alle calcagna. Proprio su quel treno, che al momento è in atto un trasporto circense, è più che normale imbattersi in un animale feroce. E’ quanto capita a Indiana il quale si trova davanti un leone, e per sottrarsi alle sue fauci ricorre all’aiuto di una frusta, da cui, come sappiamo, non si separa mai.  Precipiterà successivamente in una “fossa” piena di serpenti, da cui nascerà il suo profondo terrore verso i rettili, e si procurerà una ferita al mento (ricreando così la celebre cicatrice di Harrison Ford, uno dei segni identificativi del personaggio). Giunto a casa, dal padre, Indiana non fa neppure in tempo a dirgli cosa sia successo che i cacciatori di tombe lo raggiungono e si riappropriano del loro bottino. Quell’uomo che inizialmente tutti avevano scambiato per Indiana, rimasto piacevolmente colpito dall’estro e dal coraggio del giovane, lo incita a non arrendersi in futuro, e come pegno per la sconfitta, gli dona il suo cappello.

E’ come se in dieci minuti avessimo realmente assistito alla nascita del nostro eroe. Lucas e Spielberg con un intro mozzafiato volgono un intenso ricordo al passato di Indiana Jones, permettendo al proprio pubblico di scoprire gradatamente ma con una certa velocità, le origini dell’archeologo. Nel momento in cui indossa per la prima volta il suo cappello, nasce, a tutti gli effetti, Indiana Jones. Il passato si sgretola sotto i nostri occhi, come granelli di sabbia portati via dal vento, e riappare Harrison Ford nelle vesti di Indiana Jones, ancora con indosso quell’inconfondibile cappello, intento, a distanza di trent’anni, proprio a chiudere definitivamente quella faccenda in sospeso: riconquistare dunque la corona di Coronado e portarla in un museo: cosa che riuscirà a realizzare.

Una volta rientrato in patria, Indy si mette alla ricerca disperata del padre, caduto preda dei nazisti che necessitano delle sue conoscenze per il ritrovamento del Santo Graal, il leggendario calice da cui Cristo bevve durante la sua ultima cena. Il padre di Indy, Henry Jones, è uno dei maggiori esperti sull’argomento, e ha dedicato la sua intera vita alla ricerca del prezioso calice. Indiana comincia così la sua terza avventura cinematografica…

Con “Indiana Jones e l’ultima crociata” Spielberg e Lucas scelsero di affinare i canoni narrativi adoperati ne “I predatori dell’arca perduta”, per tornare a un clima maggiormente disteso, più improntato all’avventura spericolata, rispetto all’atmosfera dark e violenta vissuta nel precedente, “Il tempio maledetto”. Gli avversari del Dottor Jones tornarono ad essere i nazisti e ancora una volta, Indy dedica le sue ricerche al ritrovamento di un reperto mistico, custode di un potere divino, un po’ come accaduto per l’Arca dell’alleanza: il Santo Graal. Pur affidandosi a una formula vincente e già vista nella medesima saga, “L’ultima crociata” non ripropone, bensì affina, livellando il tutto con fare certosino.

“L’ultima crociata” non sbaglia un colpo, perfezionando ciò che aveva lasciato in sospeso ne “I predatori dell’arca perduta”: Sallah torna a combattere in prima linea, fianco a fianco a Indiana Jones, mostrandosi non soltanto come un prezioso alleato in battaglia ma come un vero amico dell’archeologo, a tratti anche divertentissimo. La personalità impacciata e smemorata di Marcus Brody viene approfondita, anche lui, infatti, viene coinvolto in questa grande avventura con Indy, fungendo tanto da spalla comica che da caratterista irresistibile, merito di un Denholm Elliott perfettamente calato nella parte. Gli avversari di Indiana, i nazisti per l’appunto, ne “L’ultima crociata” divengono ancor più spietati, sadici e traditori. Per la prima volta, infatti, persino la donna che accompagna Indiana Jones in quest’avventura, la Dottoressa Elsa Schneider, con la quale, da principio, si pensava che il protagonista potesse avere una storia d’amore, in verità lo tradirà, poiché anch’essa devota al folle operato nazista. Il male ne “L’ultima crociata” diviene vile e infingardo, e Indiana non potrà davvero fidarsi altri che di se stesso.

“L’ultima crociata” è un’avventura in grado di conservare il fascino immutato tipico di un primo capitolo di una saga. Il modo in cui scava nel passato del protagonista, tratteggiando in scena le sue peculiarità, la sua fobia più comune, e il medesimo stile con cui indaga l’infanzia di Indiana e il rapporto burrascoso con il padre, sono scelte narrative che fanno de “L’ultima crociata” una sorta di film totale di Indiana Jones, quello che pone l’archeologo come assoluto protagonista della scena. Indiana è l’eroe da ammirare nella sua verve spericolata, ma anche l’uomo da comprendere nelle proprie debolezze e perplessità, mai messe realmente in luce nei precedenti due lungometraggi. Il tutto viene vagliato e analizzato senza mai tralasciare l’umorismo tipico del savoir-fare di Indiana Jones.

Ma il cuore de “L’ultima crociata” è nel rapporto, splendidamente portato in scena, tra Indiana Jones e suo padre. Sean Connery venne scelto per interpretare Henry Jones Senior in quanto storico interprete di 007, l’uomo d’azione che ispirò Lucas nella concezione di Indiana Jones. 007 era a tutti gli effetti il padre dell’archeologo. E sarà un duetto senza precedenti quello tra Harrison Ford e Sean Connery, capaci di far ridere ma soprattutto di trascinare, con le loro diversità, gli spettatori in un’avventura carica di suspense. Indiana è un avventuriero coraggioso e inarrestabile, Henry Jones, invece, un accademico serioso e compassato, quasi inetto se calato in una realtà di pericoli. Un padre distaccato, non certo per cattiveria, ma perché caratterialmente ha voluto educare il proprio figlio nel rispetto dei propri spazi e delle proprie libertà. Indiana, dal canto suo, avrebbe voluto una vicinanza maggiore da parte del padre. Spielberg, ancora una volta, pone i propri personaggi nel gravoso compito di sopportare il fardello di una difficile interazione. Tra fughe in sella a una motocicletta, cadute vertiginose a bordo di un aeroplano e combattimenti all’ultimo sangue sopra un carrarmato, Indiana e suo padre torneranno a legare come prima e a comprendere le rispettive diversità caratteriali: dopotutto, come confesserà il suo stesso padre - “condividere le tue avventure, è interessante, figliolo”. E proprio attraverso la sua terza grande avventura Indiana condivide non solo con suo padre i propri segreti, ma anche col suo stesso pubblico.

Ne “L’ultima crociata” i libri e il concetto stesso di “lettura” assumono un valore profondo e inattaccabile. A Berlino, dinanzi ai nazisti che bruciano barbaramente decine di tomi, Indiana e Henry si sentono come “pellegrini in una terra sacrilega”. Persino nella comicità, Spielberg e Lucas trovano il modo di inserire uno spunto di riflessione. Indiana si troverà proprio dinanzi al Fuhrer, con in mano il libro degli appunti di suo padre, su cui sono segnate le restanti tracce per giungere ad Alessandretta, la città dove giace il Graal. Ad Hitler basterebbe allungare il braccio, sfogliare le pagine di quel libro per comprendere realmente chi ha davanti. Eppure, agisce con sufficienza, scambiando quel libretto come una richiesta, da parte dell’ufficiale interpretato dallo stesso Jones, di avere un autografo da Hitler. Quel libretto in cui era custodita la verità viene ignorato da Hitler in persona, simbolo che i nazisti nella loro follia non potevano realmente comprendere l’importanza della lettura: a tal proposito Henry Jones dirà: “Quegli imbecilli che marciano con il passo dell’oca come lei, i libri dovrebbero leggerli invece di bruciarli".

“L’ultima crociata” traccia inoltre una linea di demarcazione tra gli spiriti “puri” e quelli “impuri” attraverso le scene conclusive delle tre prove e del ritrovamento del leggendario Santo Graal. Indiana, protagonista indiscusso della pellicola, resta sempre centrale nello svolgimento della storia, cosa che non avveniva nella parte finale de “I predatori dell’arca perduta”, in cui il destino dei suoi avversari era deciso dal “volere” dell’arca. Qui riuscirà con astuzia e abilità a superare tre ardue prove che lo porteranno a dover scegliere, tra decine e decine di coppe, quale sia realmente quella appartenuta al Re dei re. Indiana sceglierà saggiamente: la coppa di un falegname sarà il calice di Cristo. Il puro di cuore, ovvero Indiana, riuscirà a salvare la vita di suo padre grazie al calice, e l’impuro, rappresentato da Donovan, il leader del gruppo nazista, perirà sotto il giudizio divino.

Nella sequenza finale, veniamo a conoscenza del vero nome di Indiana Jones, ovvero “Henry Jones Junior”, e che Indiana non era altro che il nome del suo cane a cui era legatissimo (in verità si trattava del nome del cane di George Lucas). Con quest’ultima rivelazione Indiana Jones si congeda dal suo pubblico per vent’anni. “L’ultima crociata” è, a tutti gli effetti, un viaggio profondo nelle pieghe segrete di Indiana Jones, magnificamente reso grazie ad un cast stellare di attori, su cui spiccano fra tutti Harrison Ford e Sean Connery, la coppia padre e figlio tra le più riuscite di sempre.

Cavalcando verso il tramonto, i nostri eroi chiudono una trilogia figlia degli anni ’80 e, forse, proprio per questo, pressoché inimitabile.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Al cinema, tra il 1977 e il 1980, Harrison Ford era già diventato l’icona dell’eroe forte e coraggioso, ironico e sbruffone, una vera canaglia potremmo definirlo; in precedenza era già stato Han Solo. Star Wars” e “L’impero colpisce ancora” erano infatti sbarcati al cinema raccogliendo un successo straordinario. Le sorti del contrabbandiere interpretato da Ford al termine de “L’impero colpisce ancora” restavano però in bilico, in una suspense ben congeniata, in attesa del terzo e conclusivo capitolo dell’ormai rinomata “trilogia originale”. Mentre negli occhi di tutti i fan di “Star Wars” restava impressa una sinistra reminiscenza, quella triste immagine in cui Harrison Ford, nei panni per l’appunto di Han Solo, cadeva ibernato nella grafite e portato via dal cacciatore di taglie Boba Fett, lo stesso interprete statunitense veniva contattato da George Lucas per partecipare a un nuovo progetto: “Raiders of the lost ark”.

E proprio l’anno dopo, nel 1981, uscì nei cinema “I predatori dell’arca perduta”, il primo film della tetralogia di Indiana Jones. Lucas voleva da tempo tratteggiare un personaggio che riportasse in auge i canoni avventurosi del cinema anni ’50 e ’60. Serviva un eroe alla Errol Flynn, ma anche un personaggio che riuscisse a convogliare in sé il gusto per l’antico in un adattamento decisamente più moderno. Un protagonista di stampo classico, ma che fosse calato ad arte in una realtà contemporanea, che gli spettatori d’inizio anni ’80 avrebbero potuto apprezzare.

E Indiana Jones, infatti, conquista una grande fetta di pubblico sin dal primo fotogramma in cui appare, divenendo già a conclusione del primo film un autentico simbolo del cinema. Indiana Jones ci viene presentato come un uomo dalla doppia vita, una sorta di supereroe dalla duplice identità: un rinomato professore accademico e, al tempo stesso, un inafferrabile profanatore di tombe antiche. Ma il dottor Jones ama profondamente tutti i reperti che riesce a riportare alla luce, credendo fermamente che meritino d’essere esposti nei musei piuttosto che cadere preda di collezioni private finanziate da ricchi magnati.

Lucas e Spielberg diedero al personaggio persino un proprio “costume identificativo”: Indiana sin dalla sua prima avventura veste sempre con una giacca di pelle, una camicia color marrone chiaro e un pantalone beige. Porta spesso con sé una pistola, ed è inseparabile dalla sua iconica frusta e soprattutto dal suo cappello.

Sin dalle prime sequenze de “I predatori dell’arca perduta”, Indiana Jones appare come un eroe risoluto ma anche un personaggio molto umano, quasi esilarante nelle sue fughe disperate per scampare agli indigeni che cercano di ucciderlo brutalmente. E poi, quando si darà alla fuga a bordo di un aereo, veniamo subito a contatto con la sua più bizzarra caratteristica: la fobia per i serpenti.

Ne “I predatori dell’arca perduta” si torna a respirare il gusto per l’antichità e l’amore per la storia, e il tutto viene amalgamato con la fantasia più sferzante, perché Indiana dà la caccia a un manufatto mistico e dal potere illimitato come l’arca dell’alleanza. E nella sua lotta contro il tempo dovrà vedersela con un gruppo di nazisti. Indiana Jones viene così configurato come l’eroe solitario, all’apparenza un uomo comune, che si erge contro i crudeli, ed è qui probabilmente che si deve riscontrare il legame d’affetto indissolubile che lega l’archeologo al suo pubblico: l’umanità e la semplicità con cui Indiana conduce la sua vita; una vita col piede costantemente premuto sull’acceleratore. Indiana vive d’avventura e lotta per un senso astratto, ma che è più concreto di quanto si possa immaginare, un senso perenne di giustizia. In questa sua prima fatica duetta con l’avventurosa Marion Ravenwood (Karen Allen), con l’amico Sallah (interpretato da John Rhys-Davies, il futuro Gimli nella trilogia de “Il signore degli anelli) e interagisce inizialmente col mitico professor Marcus Brody (Denholm Elliott).

“I predatori dell’arca perduta” ha i meriti di unire in sé avventura, azione e mistero con la dovuta ironia e il giusto umorismo. Anche il suo protagonista non fa che oscillare in tratti caratteristici divergenti: Indiana è un signorile accademico ma anche uno sciupafemmine incallito, che prima seduce e poi abbandona le sue donne. Vanta un coraggio da vendere eppure trema dinanzi alla vista di un serpente. Da queste sue contrapposizioni nasce un successo che andrà sempre più a consolidarsi nel corso della saga, merito soprattutto di un Harrison Ford nato per interpretare tale ruolo, magistralmente ritratto e modellatogli addosso, come fosse un abito sartoriale cucito su misura.

Nulla viene meno ne “I predatori dell’arca perduta” dalla musica, col celebre brano composto da John Williams, agli effetti speciali ancora oggi imponenti per l’epoca (vincitori dell’Academy award), fino al ritmo, cadenzato alla perfezione, in grado di offrire picchi vertiginosi d’azione mozzafiato e scene sicuramente più quiete, sorrette sempre e comunque da una sceneggiatura ben scritta.

“I predatori dell’arca perduta” rappresenta un cult scolpito nell’immaginario collettivo, capace di fregiarsi di ben cinque Premi Oscar, e di compiacersi con altre quattro nomination, tra cui quella per il miglior film dell’anno. Il caposcuola di un genere, lo spartiacque tra ciò che fu in passato e ciò che sarà d’ora in poi il cinema d’avventura, perché ogni cosa, in un modo o nell’altro, scaturirà da Indiana Jones e da quell’inconfondibile stile che sarà emulato e fatto proprio dai diversi personaggi tra grande e piccolo schermo nel corso dei decenni successivi.

Col suo “I predatori dell’arca perduta” Spielberg assieme a Lucas ci permette di interagire con un particolare tipo di sogno, il sogno di poter vivere la vita come fosse una grande avventura (frase che Spielberg inserirà nel suo “Hook – Capitan uncino”).

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Henry Jones Junior non ha certamente bisogno di presentazioni. Beh, forse se lo chiamo col suo nome di battesimo non attiro nei lettori la giusta attenzione e non suscito in loro la dovuta ovazione, cosa che invece dovrebbe manifestarsi. Mi correggo, allora: Indiana Jones non ha di certo bisogno di presentazioni. Così dovrebbe andar meglio! D’altronde, parliamo dell’archeologo più famoso di sempre, un avventuriero che col suo agire spericolato non ha fatto che ispirare tanti altri personaggi che hanno, in qualche modo, voluto avvicinarsi a quel tipico savoir-fare ritratto da Harrison Ford. L’astuto Rick O’Connell, nella trilogia de “La mummia”, vi dice niente? E Lara Croft? L’avvenente e inarrestabile archeologa protagonista della celebre saga videoludica - ma anche cinematografica - Tomb Raider è anche lei ispirata a Indiana Jones. Flynn Carsen, meglio conosciuto come “Il bibliotecario” nei film “The Librarian”, è pure lui una sorta di “discendente” di Henry Jones Junior. Carsen ha generato a sua volta una serie televisiva fantasy-avventurosa recentemente trasmessa su Paramount Channel chiamata “The Librarians”. E come non citare la professoressa Sidney Fox, che passava più tempo a recuperare reperti mistici e manufatti antichissimi con il fido aiutante Nigel in “Relic Hunter” piuttosto che insegnare, seduta comodamente in un’aula universitaria? Tutti figli di uno stesso padre, insomma. Indiana Jones è stato a tutti gli effetti un caposcuola di un genere che è andato sempre più a consolidarsi sul grande e piccolo schermo nel corso degli anni. Indy è una sorta di padre per tutti gli eroi dalla vita spericolata, un po’ come quella che negli anni ’60 viveva al cinema Steve McQueen… (non iniziate a canticchiare…) Ma Indy oltre che padre è stato figlio, a sua volta, venendo creato da George Lucas, plasmato da Steven Spielberg, ma ancor prima ispirato dall’azione spettacolare di uno 007, reso immortale sul grande schermo dal suo primo, storico interprete: Sean Connery. Non è infatti un caso che proprio il grande attore scozzese abbia preso parte come comprimario a “Indiana Jones e l’ultima crociata” nelle vesti di Henry Jones senior, ovvero il padre del famoso archeologo. Sean Connery col suo 007 è stato a tutti gli effetti il padre di Indy. Ma un’altra persona, forse, meriterebbe d’esser menzionata nella concezione originaria dell’avventuriero armato di frusta, che porta sempre un cappello: Charlton Heston. Provate a ricordare l’outfit di Heston ne “Il segreto degli Incas”, non trovate delle somiglianze più che evidenti? Ne “Il Segreto degli Incas” troviamo, forse, le origini primordiali di Indiana Jones, quelle che avrebbero catturato le attenzioni di Lucas per la stesura dei tratti fisici di Indiana Jones.

Charlton Heston ne "Il segreto degli Incas"

 

Indiana Jones è una saga composta da una tetralogia. Il debutto assoluto del personaggio avvenne ne “I predatori dell’arca perduta”. Sin dal suo primo, storico film, conosciamo Indiana come un uomo dalla doppia vita, come fosse una sorta di “supereroe” dalla duplice identità: un rinomato professore accademico e, al contempo, un inafferrabile profanatore di tombe antiche. Ma il dottor Jones ama profondamente tutti i reperti che riesce a trafugare, credendo fermamente che meritino d’essere esposti nei musei invece che cadere preda di collezioni private finanziate di ricchi magnati.

Indiana Jones e il tempio maledetto”, pur essendo all’apparenza un sequel, è in verità un prequel, poiché ambientato prima degli eventi del primo capitolo.  I primi tre episodi della saga sono ancora oggi i più amati, ma forse “Il tempio maledetto” necessita di una riscoperta, in quanto tra i tre è quello che ha suscitato più di qualche obiezione. In questo secondo (anche se cronologicamente primo) capitolo della saga, Indiana divide la scena con il piccolo Short Round (interpretato dall’allora bambino Jonathan ke Quan) che Indy chiama affettuosamente “Shorty” e Wilhelmina Scott, detta “Willie” (Kate Capshaw). Il Dottor Jones diviene il paladino di una tribù povera e isolata dell’India che lamenta la scomparsa di una pietra sacra, rubata dai Thug, una pericolosa setta indigena che compie riti mistici nei sotterranei del palazzo di Pankot. Gli autoctoni informano l’archeologo che molti dei loro bambini sono stati strappati all’affetto delle loro famiglie e condotti in segreto al palazzo. Quando Indiana riuscirà a trovare il passaggio segreto che lo condurrà nei sotterranei, dovrà affrontare numerosi pericoli, dai Thug stessi ai diabolici effetti di un “sortilegio” che arriverà persino a annebbiare la mente del nostro eroe…

Indiana Jones - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

La trama di base del lungometraggio sembrerebbe essere solida e avvincente. Eppure, il film diretto da Steven Spielberg non è esente da difetti. Nella parte centrale della pellicola, quando Indiana varca l’entrata segreta dei sotterranei, il film sembra arenarsi in un pantano fangoso, venendone via con tremenda fatica. Questa fanghiglia appiccicosa vuol quasi “imprigionare” i toni adrenalinici della prima parte del film, per risucchiare a sé e, per l’appunto, impantanarlo nella noia. Il pezzo in cui Indiana viene a contatto con i Thug fino a farsi contaminare dal sangue della dea Kali e cadere preda di un oscuro maleficio che gli avvelena la mente, appare prolisso, scandito da un ritmo fin troppo rallentato. I toni del film più sbarazzini, comici e immediati nella parte iniziale, diventano a un certo punto cupi e brutali. I bambini fatti schiavi che lavorano in quelle miniere a ritmi forsennati, piegati dagli stenti, sono immagini crude, forti, che secondo alcuni poco avevano a che vedere con l’ironia spavalda del personaggio. Ma George Lucas sentiva che un clima pesante si sarebbe dovuto respirare in questa nuova pellicola dedicata al personaggio. George Lucas aveva appena divorziato da Marcia Griffin, e si portava ancora dietro gli strascichi di quella separazione. Il dolore provato da quell’aspro distacco lo portò a desiderare un taglio più rude e crudele per questa sua nuova fatica cinematografica.

Altre critiche vennero mosse dai fan per la caratterizzazione della spalla femminile di Indiana Jones. Willie, per molti, non era altro che lo stereotipo della donna incapace di badare a se stessa, che passa gran parte del tempo a lanciare insopportabili urla e schiamazzi, e a preoccuparsi soltanto del proprio aspetto esteriore. Sebbene queste pecche possano essere condivisibili, “Il tempio maledettoè a tutti gli effetti un cult riuscitissimo. Ma si tratta però di un cult da riscoprire ancora una volta, perché riesce in verità a far divertire anche con i suoi punti deboli. Ad esempio, se Willie appare alquanto stereotipata in alcune sue sfumature caratteriali, ha comunque l’abilità di tenere testa, a suo modo, a Indiana Jones.

A tal proposito Willie è protagonista di un gioco attrattivo indimenticabile con il protagonista, una sorta di caccia tra predatore e preda in cui difficilmente si riesce a stabilire chi sia il “cacciatore” e chi il “cacciato”. La scena notturna, ambientata nelle camere del Palazzo, è girata con un’apprezzabile ironia, e assistiamo agli insoliti approcci amorosi di Indiana e Willie, palesemente attratti l’uno dall’altra, intenti a sfidarsi apertamente su chi cederà per primo e busserà alle rispettive porte. In una gara d’orgoglio entrambi attendono che l’altro faccia la prima mossa, senza però ottenere gli sviluppi sperati. Magari Willie non avrà la fermezza autoritaria della Marion vista nel primo capitolo, ma ha dalla sua una dolcezza che merita d’esser scoperta sotto quell’involucro fastidioso costituito da tutti i suoi commenti apparentemente superficiali. Willie, inizialmente, è una cantante, abituata a un certo stile di vita, dedito più alla forma che al contenuto, eppure si lascia trasportare dal fare avventuroso del protagonista, prestandosi dapprima con riluttanza a quest’incredibile avventura, successivamente con decisione. Ella è caratterizzata da una tragicità-comica che viene ben palesata nelle continue situazioni in cui si trova vittima sfortunata degli eventi. Willie è altresì molto bella e formosa, la Jones-Girl (passatemi la licenza poetica…) più avvenente nonché la più umana e probabilmente la più spontanea. Wilhelmina è dunque il primo personaggio del film a meritare una riscoperta.

Il piccolo Short Round, doppiato in Italia da una giovanissima e sempre eccellente Giuppy Izzo, è una spalla insolita per il grande archeologo. Ma nelle scene in cui i bambini soffrono sotto il giogo dei Thug, Shorty, coetaneo dei prigionieri, rappresenta un piccolo eroe che, quasi al pari di Indiana Jones, può riuscire a liberarli e salvarli da quella prigionia. Una sorta d’interazione significativa per quei poveri bambini fatti schiavi, che possono vedere in lui e nell’archeologo una duplice speranza. Spielberg ancora una volta trae il massimo dalla presenza giovanile all’interno de suoi film, caratterizzando questa scelta come un punto di forza dell’intera pellicola. Da un’attenta analisi comprendiamo come la presenza del piccolo Shorty non fa che accostare ancor di più la maturità del protagonista alla fanciullezza di quei bimbi maltrattati da adulti malvagi e senza scrupoli.

“Indiana Jones e il tempio maledetto” vanta un inizio al cardiopalma, e un finale dal ritmo altrettanto movimentato, in cui i protagonisti, dalla loro fuga attraverso le rotaie sottostanti le segrete al loro miracoloso salvataggio su ciò che rimane di un ponte, riescono a divertire e a tenere incollati sulla poltrona gli spettatori. Se la parte centrale continua a risentire di un ritmo scandito, cadenzato, direi fin troppo lento, il resto del film non fa che regalare scene di vivissima impressione. Jones lotta come un leone, senza mai risparmiarsi, privato persino, verso la fine delle vicende, della sua emblematica giacca di pelle. Corre, salta, si arrampica, combatte con la spada, dimostrando, per la seconda volta nella propria storia, d’essere a tutti gli effetti un grande eroe, un eroe capace per giunta di rubare la scena a qualsiasi antagonista provi anche solo a sfidarlo.

In “Indiana Jones e il tempio maledetto” si avverte quell’amore per il passato e per la storia antica, tipico dei primi tre capitoli, caratteristica che ne fa un cult da poter riscoprire, perché quei difetti se scrutati con occhio attento potrebbero trasformarsi in rivisitazioni ben più benevole. Come recitava Willie, quando sibillava con fare provocatorio, “potevo essere la più grande avventura della tua vita…” così, mi sento personalmente di affermare che, anche se “Il tempio maledetto” non viene tutt’oggi ritenuta la più grande delle avventure di Indiana Jones, non può che farsi considerare comunque indimenticabile. Ma non è questo, dopotutto, ciò che fa di un film un cult?

Voto 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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