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(Rilettura personale della fiaba di Hans Christian Andersen)

Era l’ultimo giorno dell’anno e faceva tanto freddo. Il vento soffiava forte forte dalle montagne, giungendo fino alla città. Quella sferza glaciale, sin dalle prime luci dell’alba, avviluppava i corpi dei viandanti con le sue mani invisibili, stringendoli in un gelido abbraccio.

La gente trotterellava di gran fretta lungo strade serrate da mucchi di neve. Gli uomini che si attardavano per quelle vie, sebbene fossero grandi e grossi, solevano rannicchiarsi di continuo tra le pieghe dei loro cappotti, celando il proprio volto dietro gonfie sciarpe di lana. Le donne, dal canto loro, si coprivano le mani con guanti di pelle scura, velando, al contempo, il viso sotto spessi cappucci. Qualche ciocca arricciata dei capelli di queste donne fuoriusciva, comunque, dal copricapo e veniva lambita dai fiocchi bianchi che scendevano dal cielo.

Venne la sera, e la folla che rallegrava la grande piazza si dissolse. Le persone rientrarono nelle proprie dimore, dove avrebbero atteso la venuta del nuovo anno. Da un misero vicolo, spuntò una bimbetta. Costei procedeva fiacca, col capo chino. Levava gli occhi di tanto in tanto da terra e guardava gli adulti, imponenti, fuggire via verso il tepore del focolare domestico. La bambina provava ancora a farsi ascoltare da chi le veniva incontro, pronunciando fioche parole con la sua voce debole. Nessuno accostò l’orecchio. Nessuno si curò di lei. Tutti passarono oltre.

La bimba era molto triste. Sapeva che non poteva assolutamente fare ritorno a casa. Vagò sola per tutta la sera, disperata e a piedi nudi. In una manina stringeva una scatola di fiammiferi. Avrebbe dovuto venderli tutti entro la fine della giornata, ma non era riuscita a venderne neppure uno. Non aveva incassato un singolo scellino, e non osava fare marcia indietro. Ella sapeva che il patrigno l’avrebbe punita. Le mani nodose e forti del genitore l’avrebbero colpita in viso, le avrebbero fatto male. Per lei, il freddo della notte avrebbe avuto un tocco più lieve.

La piccola fiammiferaia si allontanò dal piazzale, dileguandosi nell’ombra. Trovò un angolino in cui riposare, formato da due case molto vicine tra esse. Si rannicchiò in quella porzione di spazio, tirò verso di sé le gambette e si sfregò le mani. Alitava su di esse nel vano tentativo di riscaldarle. Ad ogni respiro affannoso, vedeva dinanzi a sé il soffio della vita che le stava scivolando via nel freddo.

Il vento continuava a brontolare, oltrepassando le mura ghiacciate che racchiudevano il corpicino della giovane venditrice di fiammiferi. La piccola non aveva di che coprirsi. La sua veste azzurra e minuta era per gran parte scucita, rattoppata alla meglio, e non aveva alcun cappuccio per proteggere il capo. I fiocchi di neve le cadevano addosso, fermandosi tra i boccoli della sua chioma dorata. Era tanto bella, nonostante fosse pallida. Le guance purpuree le erano diventate ceree, le labbra apparivano di un rosso slavato e i piedi avevano assunto un colore violaceo.  La bimba raccolse un fiammifero, lo sfregò contro la parete grezza ed esso si accese. Una tenue fiammella si alzò alta davanti ai suoi occhi, illuminando l’esiguo giaciglio su cui la piccola se ne stava adagiata. Che dolce luce che era quella prodotta dal fiammifero!

Per la piccina, quel riverbero era un raggio di sole giallo, ancor più luminoso delle candele di Natale accese e lasciate sui davanzali delle finestre o sulle balconate delle case. Da quella luce, la piccola vide scaturire un’immagine nitida, come se fosse giunta in un sogno.

La bambina vide una stufetta giacere proprio lì, ferma e pullulante di calore, con il focherello che si muoveva ondulante al centro. Protrasse la mano che non teneva il fiammifero e provò a godere un po’ di quel calore. Le parve di avvertirlo sulla pelle smorta. Quel caldo tenue le ricordò una sensazione passata, la stessa che la piccola avvertiva quando la nonna la svegliava, dandole un bacio sulla fronte al mattino.

Il fiammifero si spense. La fanciullina, allora, ne prese un altro. Lo sfregò nuovamente, ma questo non si accese. Era da molto che vendeva fiammiferi e sapeva che, quando la capocchia di un fiammifero non si accende al primo sfregamento, non si accende più. Un fiammifero è come un pezzetto di vita umana: nasce una sola volta, arde luminoso e si consuma di gran fretta, dopo di che muore, si estingue come una modesta vampa su cui è stata versata dell’acqua.

La piccola fiammiferaia ne raccolse un altro, e poi un altro ancora. Finalmente uno si accese al primo tentativo, e materializzò un nuovo ritratto: una tavola imbandita e un albero di Natale che s’innalzava lì vicino. Era ciò che sognava la fanciullina: del buon cibo e un albero rigoglioso, ricco di colori. La giovane guardò con più attenzione, e scorse un camino dentro cui bruciavano ceppi di abete. Era il camino della nonna, non poteva non ricordarlo. Lo riconobbe dalle pietre grigie che ne ornavano la base. Le toccava sempre quelle pietre quand’era ancora più piccola e se ne stava a giocare sul pavimento caldo. La nonna la prendeva in braccio e la metteva a sedere quando era pronto in tavola. Ma quella visione non era che un idillio, l’eco di una memoria ormai svanita. 

Allora, la bimba volse lo sguardo all’insù. La neve precipitava copiosa su di lei, impedendole di vedere distintamente. Ma ella riuscì lo stesso a scrutare un bagliore improvviso scuotere il buio del cielo. Una stella cadente lo aveva appena attraversato. “Un’anima è pronta a salire in paradiso” – sussurrò la piccola fiammiferaia, con la poca voce che le era rimasta. La nonna le raccontava sempre questa storiella. “Quando vedi una stella cadente, nipotina mia, vuol dire che un’anima è pronta a volare in cielo.”

Le erano rimasti pochissimi fiammiferi. Ne accese un altro. Adesso, vide il volto della sua amata nonna. Ella la salutava, sorridendole con amore. La nonna teneva gli occhi chiusi, sbarrati da un nugolo di rughe. Stupefatta, la piccola fiammiferaia si mosse, e accarezzò i capelli d’argento della nonna; poi le poggiò le mani sulle guance. La nonna non batté ciglio, e sorrise ancora.

“Non senti il freddo delle mie mani, nonna?” – bisbigliò subito. E la nonna scomparve nell’oscurità.

"Ofelia e Pan" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Anche Ofelia, la protagonista del "racconto" di Guillermo del Toro, è una piccola fiammiferaia. Per saperne di più cliccate qui.

Il fiammifero si era spento. Di tutta fretta, la bambina raccolse i fiammiferi rimasti. Li sfregò uno ad uno. La nonna le sembrava più vicina di volta in volta. In un attimo la prese in braccio, tenendola a sé come faceva quando era appena nata. La piccola fiammiferaia si emozionò così tanto che cominciò a piangere, ma le gocce che le scendevano lungo le gote svanivano al contatto con l’aria gelida.

La nonna la cullava pian piano, e la piccola era finalmente felice. Dondolando tra le braccia della nonna, la bambina si sentì lieve come se le paure e i tormenti si fossero staccati dal suo spirito, cadendo al suolo, disperdendosi. La piccola fiammiferaia era tanto emozionata, eppure il suo cuore non batteva velocemente come si sarebbe aspettata. Quando ci fece caso, si accorse di non sentir più alcun battito. La nonna le baciò la fronte e la piccola fiammiferaia chiuse gli occhi. Entrambe volarono via. 

La notte passò rapida. L’indomani, gli uomini e le donne, imbacuccati sotto dense pellicce, accorsero per le strade, lieti di festeggiare il primo giorno del nuovo anno. Alcuni di loro ritrovarono la bambina in quell’angolo tra le due case, addormentata per sempre. I capelli biondi erano coperti di pioggia nivea. Sul visino brillava un sorriso sereno. Era morta di ipotermia, e tra le dita stringeva ancora l’ultimo fiammifero liso nella notte.

Tutti la piansero dopo averla ignorata. Un nuovo anno era sorto, una vita se n’era andata con quello appena trascorso.

In cielo, la piccola passeggiava mano nella mano con la nonna. Su quei pascoli di nuvole, la bambina scorse molte altre anime. Due, in particolare, danzavano alle porte del paradiso. Smisero solo per un attimo, quando volsero lo sguardo verso la piccola fiammiferaia, appena approdata. Erano due anime molto speciali queste due. La prima apparteneva ad un valoroso soldatino fatto di stagno, la seconda ad una ballerina di carta, dalle fattezze di porcellana, la sposa del militarino. Entrambi, come la piccola fiammiferaia, avevano trovato la pace dopo la morte, lassù, in quel mondo luminoso e puro. 

La bambina intravide, poi, una fanciulla dai capelli d’oro e la pelle bianchissima correrle incontro.  Si trattava di una donna molto bella, tanto felice nel correre libera con le sue gambe lisce come seta.

Costei, in passato, fu una sirena del mare. Scelse volontariamente di diventare un’umana per amore, e per il desiderio di ottenere un’anima immortale. Sin da quando era una principessa giovane e garbata, la sirenetta era consapevole che, un giorno, sarebbe morta. Le sirene vivono molto più a lungo di un comune essere umano, ciononostante quando esse muoiono si dissolvono in spuma del mare. Di esse non resta che un sibilo dimenticato tra la correnti dell’oceano.

"La sirenetta e Re Tritone" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Per saperne di più cliccate qui.

La sirenetta voleva ottenere un’anima immortale, così diventò umana e, prima di morire tragicamente per un amore non corrisposto, fu tramutata in uno spirito dell’aria. La sirenetta visse tra i refoli per 300 anni, aiutando i bambini buoni e versando lacrime per i bambini monelli. Fu la piccola fiammiferaia l’ultima bambina aiutata dalla sirenetta. La donna venuta dai fluttui vide l’angoscia della bimbetta, e scortò la nonna della piccina giù, attraverso l’etere. Salvando l’anima della piccola fiammiferaia, la sirenetta ottenne l’immortalità.

Erano tutte in paradiso le creature di Hans Christian Andersen. Il soldatino, la sirenetta, la piccola fiammiferaia, allo scoccare dell’anno, si erano incontrati nel candore del regno dei cieli, felici, distanti dalle tenebre del mondo terreno.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Ariel e Re Tritone - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, una giovane principessa viveva in un castello splendente. Benché avesse tutto quello che poteva desiderare, la giovane era infelice, malinconica e riservata. Non era viziata, tanto meno egoista, figuriamoci se poteva essere cattiva. Era una persona molto diversa da quel principe a cui in origine si riferivano le parole introduttive con cui ho aperto questo mio testo e che ho voluto rivisitare per l’occasione. La fanciulla in questione era un’anima buona, una creatura delicata e sensibile. Il suo cuore si era già schiuso all’amore quando era appena sbocciata come ragazza…metà donna, metà pesce. La principessa non necessitava dell’intervento di una fata che ne maledicesse il suo corso, e la tramutasse in un’orrenda bestia per far sì che, attraverso l’esperienza catartica di una mutazione corporale, il suo animo si aprisse all’amore. La dama del mare cui faccio riferimento era uno spirito ricolmo di dolcezza. Eppure, desiderava andare incontro a una trasformazione. Mediante una magia, voleva mutare parte del proprio corpo, rinunciare alla sua bella coda pinnata per due esili, sia pure aggraziate, gambe umane; non voleva più le squame, ma solo una candida e liscia epidermide. Con le sue pinne non poteva ballare e questo l’addolorava. Si era stancata di nuotare, lei voleva semplicemente camminare.

  • I sogni di una principessa

Ancor prima di nutrire questo desiderio e di anelarlo con tutte le sue forze, la principessa era giovane e bella, e trascorreva le giornate nuotando attorno al grande castello scintillante che presiedeva il regno sottomarino nel quale viveva.  Quando smetteva di nuotare era solita soffermarsi ad osservare, con occhi interessati, la statua di un uomo. Si trattava di una scultura di pietra bianca finita nelle profondità del mare, venuta giù dall’alto, discesa da quello che per le creature del mare era il “cielo”, vale a dire una tavola azzurra che noi umani definiamo abitualmente “superficie marina”. Per le creature che vivevano negli abissi la superficie dell’acqua era un cielo sempre blu, poiché privo di nuvole. Come “un superstite”, quella scultura uscì indenne dal naufragio di una nave, o forse fu gettata volutamente da un’imbarcazione alla deriva, costretta a ridurre il carico per mantenersi sopra la linea di galleggiamento, un po’ come si crede che accadde a due splendide statue bronzee risalenti al V secolo a.C. e rinvenute per caso a pochi metri dalla costa nell’estremo sud dell’Italia.

Nessuno sapeva quale fosse il triste destino di quell’opera plasmata dalle sapienti mani dell’uomo, ma essa venne rinvenuta dalla principessa, la quale cominciò a rimirarla con devozione. Nei giorni a seguire, la giovane volle portare la statua nella sua aiuola, e sopra i sassolini che intanto aveva radunato per cingere la scultura, vi depose vistosi fiori rossi, come se nelle sue intenzioni volesse creare un piccolo giardino, in cui poter contemplare in solitudine la bellezza di quella creazione, immaginando d’essere in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio. Quand’ecco che, un giorno, la nonna della principessa iniziò a reclamare a palazzo la presenza della cara nipote, finché la vide seduta comodamente sul fondale a rimirar ancora e sempre la scultura. La nonna avvicinò a sé la principessa e cominciò a raccontare a lei e alle sue sorelle i segreti e le storie della famiglia e del loro essere sirene.

La nostra principessa era a tutti gli effetti una sirena, ma poteva benissimo essere considerata ancora una bambina. Lei era la figlia più piccola del re dei mari. Andersen, nella sua fiaba, non ci dice molto circa la vita, il carattere e soprattutto l’aspetto del regale padre della protagonista del suo racconto. Sappiamo soltanto che il papà della sirenetta è rimasto vedovo. Il re del mare è una presenza lontana, che fugge dalle indagini di ogni lettore. Non viene per nulla figurato, eppure la di lui regale presenza indugia nella nostra immaginazione, come fosse un alone evanescente, “un’idea” solo accennata ma dalla valenza tale da essere quasi onnipresente. Nello scorrere della lettura, lavorando un po’ di fantasia e molto d’immedesimazione, si può provare a supporre cosa il re abbia provato durante la triste e straziante vicenda vissuta dalla più tenera delle sue eredi. Un fatale destino a cui il regale genitore non potrà porvi rimedio.

Alla nonna, sirena più anziana, spetta il compito di educare con saggezza e amore le proprie nipoti. La grande regina spiega alle fanciulle che le sirene possono vivere molto più a lungo degli esseri umani, ma quando la loro vita cesserà, non resterà alcunché di loro, e si dissolveranno in spuma del mare. Gli uomini, invece, possiedono un’anima, e possono raggiungere l’immortalità. La nonna, quando insegna ciò che sa alle sue nipoti, mostra un affetto sempre crescente per la più piccola di esse, perché intuisce la sua insoddisfazione. La sirenetta viene come investita, nel suo intimo, dal peso delle parole proferite dalla nonna: le si stringe il cuore ad immaginare ciò che l’attenderà un giorno. Lei non vuol morire. La sirenetta vuol avere in dono un’anima immortale.

Le sirene non possono salire in superficie se non dopo aver compiuto il quindicesimo anno d’età. La saggia regina, allora, soddisfa la curiosità delle giovani narrando antichi aneddoti relativi al mondo al di là del “firmamento” siffatto di marosi: il mondo degli uomini. Di anno in anno, al compimento dei tre lustri, ogni sirena nuota fino alla remota superficie per osservare, con le dovute precauzioni, ciò che si nasconde oltre i confini del mare. Mi domando se, al completamento di ogni viaggio iniziatico delle sue figliole, il re padre avesse provato il timore di poterle perdere. Magari in lui albergava la paura che gli uomini, passando da quel preciso braccio di mare a bordo dei loro maestosi vascelli, potessero scorgere una sirena emergere da uno spicchio d’acqua col suo tronco nudo. Il re poteva altresì inorridire all’idea che i marinai lanciassero le reti e tentassero di rapire una delle sue figlie. L’antico monarca avrà pur visto ciò che spesso gli uomini di mare “issavano” al di sotto della prua delle loro veloci golette: sagome di legno intagliate e dipinte che ritraevano sirene. “Le sirene per gli uomini non sono che esseri pericolosi, o prede da catturare e osteggiare…” - avrà supposto tra sé. Tuttavia, il padre delle sirene non poteva impedire loro d’essere libere, doveva lasciare andare le sue figlie, con la speranza di poterle rivedere.

Per sua fortuna, al loro ritorno, ogni sirenetta rientrava senza essersi imbattuta in alcun imprevisto. Tutte mostravano sempre diffidenza, ammettendo di preferire in tutto e per tutto quello che si poteva trovare in fondo al mar

Quando arrivò finalmente il suo momento, la sirenetta risalì i fluttui con il cuore palpitante di gioia. Nei giorni seguenti, la sirenetta continuò a nuotare in superficie, ondulando la sua splendida coda, saltando quando nessuno poteva vederla e rituffandosi in acqua solo dopo essere stata accarezzata dal vento. Una notte assistette persino a un temporale, e vide lo sfavillio improvviso di un fulmine che rischiarò il bianco di un iceberg che sostava in quei pressi. Fu durante quel fortunale che la sirenetta vide un vascello in balia della furia del mare, e un principe appena caduto tra le onde. Sarebbe morto se non fosse intervenuta lei. Lo salvò, lo condusse a riva e cantò per lui. La giovane sirena se ne innamorò al primo sguardo: lui era la personificazione di quella statua che aveva mirato per anni. La sirenetta è, adesso, mossa da un duplice desiderio che la rende forte e intelligente come nessun’altra tra le sue simili: è pronta a sacrificare se stessa pur di poter vivere un amore apparentemente impossibile, ed è anche pronta a trasformare il proprio corpo per sperare nell’immortalità: vuol diventare umana per poter amare e…vivere.

Quel giorno in cui la sirenetta incontrò il principe, il re dei mari, inconsapevolmente, cominciò a perdere sua figlia.

Ursula Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

  • L’amore di un padre

I connotati del volto del re non ci sono pervenuti. Andersen non volle soffermarsi a descrivere le particolarità di un viso regale quale doveva essere quello del sovrano dei mari. La concentrazione dello scrittore, quando compose i passi della sua fiaba, era rivolta soltanto a delineare la figura della sirenetta, la sua figlia più cara. Per Andersen la sirena era tanto una creatura partorita dalla sua mente quando una proiezione di una parte del proprio essere, del proprio vissuto e del proprio sofferto. Nella trasposizione cinematografica della Walt Disney, “La sirenetta”, il padre della protagonista necessitava di un’estetica ben definita. Gli artisti scelsero di disegnarlo come le fantasie comuni tendono a richiamare le sembianze dei grandi re del passato. Un sire non è tale se sul capo non porta con fierezza una corona d’oro e, ancora, se la sua fisicità non emana l’austerità regale dei grandi monarchi. Il padre della sirenetta del lungometraggio d’animazione è rappresentato come un solenne tritone, la cui fisicità promana un’aura di assoluta imponenza. Quel poco del suo volto che è visibile all’occhio, poiché il resto è del tutto coperto da una folta barba bianca, sono i suoi grandi occhi cerulei. Re Tritone brandisce tra le mani un tridente, simbolo per antonomasia del dio greco Poseidone, di cui forse Tritone è diretto discendente. Come nella fiaba, il re è sopravvissuto alla moglie, la regina Atena, perita, probabilmente, per mano dei pirati.

"Ariel al chiaro di luna" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Nel film, Re Tritone è padre di sette figlie. La più giovane tra loro è Ariel, una sirenetta di sedici anni. Il padre appare agli occhi delle sirene come un genitore severo. Ciononostante, Tritone è molto legato alla sua famiglia, anche se fatica a comprendere il carattere di Ariel, molto riservata e estremamente attratta dal mondo degli uomini. Tritone ha posto un veto inviolabile: è severamente vietato avventurarsi oltre i sicuri confini del regno, tantomeno spingersi fino alle rive, presiedute dagli esseri umani. Ariel, all’insaputa del padre, è solita raccogliere oggetti appartenuti agli uomini, che rinviene tra i relitti, e li nasconde in una grotta in fondo al mare. Tra i tanti reperti custoditi c’è anche la statua bronzea di Eric, un principe scampato alla morte grazie al provvidenziale intervento dalla sirenetta e di cui lei ne è perdutamente innamorata. Quando il padre scoprirà il rifugio segreto di Ariel, avrà una reazione d’ira e distruggerà quanto potrà coi poteri del suo tridente. Ariel fugge via, impaurita dalla furia del genitore, per diventare un’umana e tentare di farsi amare dal principe.

Il re non ha mai dato un sufficiente peso alla passione che la figlia nutre per il mondo degli esseri umani, e all’amore che ella prova per il principe. Nel momento in cui punirà la figlia, annientando quei simboli che le donavano conforto in un mondo che non sente suo, Tritone si lascerà dominare da una rabbia apparentemente ingiustificata. Il re assume i contorni di un vile, di un cruento distruttore di sogni, ma invero egli è oppresso da un dolore recondito, esacerbato in lui dall’incomunicabilità che vige nel rapporto con Ariel. Il re non riesce a comprendere cosa stia avvenendo in sua figlia, e al contempo Ariel soffre l’incapacità di non riuscire a farsi capire pienamente dal padre. Tritone patisce una tremenda paura, si rende infatti conto che Ariel gli sta sfuggendo dalle dita senza che lui possa far nulla per fermarla. Ariel si allontana dalla presa protettiva del padre per imboccare una strada che la porterà laddove lui non potrà mai raggiungerla.

Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Ariel è frapposta ad un duplice amore: quello provato da un re, un amore paterno, e quello ricambiato da un principe, un amore spirituale e carnale che la porterà ad abbandonare il regno del mare per vivere sulla terraferma. Il padre incarna così l’acqua, l’origine della sirenetta, il suo passato; il principe, invece, rappresenta la terra, il passo successivo nella vita di questa eterea creatura del mare, il suo futuro. Ariel nella sua “trasfigurazione” fisica sacrificherà una vita per abbracciarne una nuova. Lo farà rischiando tutto ma sospinta da un amore inesauribile che verrà compreso, solamente alla fine, dal suo adorato padre. Lui la osserverà seduta su di uno scoglio a pochi metri dalla riva, sconsolata, e in quel preciso istante capirà che dovrà lasciarla andare. “Nemmeno immagini quanto mi mancherà, Sebastian…” sussurra sommessamente il sovrano al suo granchio fidato dal “guscio” rosso, consigliere di corte e maestro d’orchestra.  A quel punto farà dono alla figlia della libertà: la trasformerà in una ragazza umana. “La sirenetta” della Walt Disney racconta, altresì, l’amore incondizionato e il sacrificio di un padre che permetterà alla sua piccola di andare via.

La saggia decisione attuata dal padre garantirà alla sua giovane figlia la felicità. Non potrà fare lo stesso il re dei mari nella fiaba di Andersen, il quale assisterà impotente alla morte della sua figlioletta e al suo progressivo disfarsi in spuma del mare. Il re, la nonna e le sue sorelle intoneranno una nenia funerea, prima di notare come l’anima della principessa abbia raggiunto l’immortalità, divenendo uno spirito dell’aria, quella stessa aria che la Sirenetta sentì per la prima volta sulla sua pelle quando emerse dagli abissi e rivolse le sue graziose gote al mondo circostante.

  • L’immortalità è nel cuore di un re

Ne “La sirenetta” della Disney, si intuisce come Ariel voglia molto bene al padre. La dolcezza con cui l’abbraccia, poco dopo essersi sposata con Eric, ne è una splendida testimonianza.  Re Tritone era riuscito a salvare la figlia, ma come la sua controparte letteraria, aveva perduto la propria compagna e doveva sedere accanto a un trono vuoto.

Personalmente sono solito immaginare Ariel mentre nuota verso il padre, sorprendendolo alle spalle con delicatezza mentre egli siede sul suo trono. Neppure in quei lieti frangenti, il grande sovrano cede la presa del suo tridente, come se il restare aggrappato alla sua arma gli doni un senso di sicurezza e serenità. Quella medesima quiete che ha perduto il triste giorno in cui scomparve la sua amata sposa. Sorridendo, nelle mie fantasie, Ariel accosta all’orecchio del re una conchiglia, e invita il padre a udire i suoni custoditi al suo interno. Il re non ascolterà la melodia dell’oceano fuoriuscire da quella conchiglia. Mi piace immaginare che sentirà il canto, soave e ammaliante, della sua indimenticata consorte. Seguito ancora a fantasticare che la voce melodiosa della madre di Ariel sia stata “catturata” da ogni conchiglia che giace nel castello del regno di Atlantica, libera di carpire il canto della sua regina e di serbarlo tra le fessure. Semplicemente accostando l’orecchio, ogni conchiglia potrà far riecheggiare i versi che Atena, spesso, intonava quando nuotava, così che Tritone riesca a sentirla ancora vicina a sé, aggirando il volere della morte.

In egual maniera, il re dei mari della fiaba originale potrà anch’egli sconfiggere la morte: quando risalirà su dal suo mondo sommerso, dovrà far sì che il suo viso si stagli oltre lo specchio delle acque e venga accarezzato da una lieve brezza. Sarà proprio la figlia tramutata in aria che, soffiando dolcemente, lascerà un bacio sulle purpuree guance del genitore.

La regina e la figlia, le due sirene, sia nella fiaba che nel cinema, non sono mai andate perdute: esse continuano ad esistere nel cuore di un re buono che vive in fondo al mar.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Madison (Daryl Hannah) ritratta da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Da un’imbarcazione che solca le acque di un mare tranquillo si odono risuonare musiche estrose. In quei frangenti, sul pontile, una festa si sta consumando all’insegna di danze sfrenate. Poca grazia c’è in quei balli, tanto è invece il divertimento che accompagna i passi istintivi, ritmati dalla esuberanza trascinante del brio musicale. E’ un giorno d’estate. Per nulla quel momento di gala attrae l’interesse del piccolo Allen. E’ lo scosciare dei marosi ad attirare la sua attenzione. Egli si sofferma per qualche istante ad osservare il mare dalla ringhiera della nave. Tutto intorno a lui ha assunto una tonalità tra il grigio e il marrone. E’ come se il pigmento estratto dalla sacca di difesa della seppia di mare fosse stato “spruzzato” sulla totalità della visione, per rimarcare un effetto velato, nostalgico, trascorso. E’, altresì, come se i colori appartenenti al regno del mare avvolgessero il piccolo, come se egli si dovesse “allontanare” dal regno terrestre per farsi avviluppare dai colori marini. Incontenibile è il fascino di quelle acque, il bambino, di sua stessa volontà, decide così di gettarsi tra le onde.

Il fanciullo “sprofonda” appena al di sotto della superficie, i suoi occhi sono aperti ma non traggono disturbo alcuno dalla salsedine. Il suo volto indugia in uno spontaneo sorriso, quello che non aveva quando si trovava sul ponte del traghetto e manteneva un’espressione corrucciata. Sorride perché ha intravisto una figura di bambina affiorata dagli abissi.

I due piccoli, persi tra i loro sguardi, hanno un breve contatto, sfiorandosi le mani. Non è che la letizia di un momento! Un uomo si è tuffato in mare e ha già tratto in salvo il bambino, restituendolo all’affetto dei genitori, rimasti a bordo sconvolti ed attoniti. La piccola non è stata notata da nessuno, soltanto Allen continua a guardarla senza sosta quando ella emerge dallo spicchio d’acqua col suo candido visino. La bambina scoppia a piangere, e fatica a contenere i singhiozzii. Le lacrime che le scendono giù per gote si mescolano alle gocce d’acqua salata che le sono rimaste “aggrappate” all’epidermide. Quando la nave si allontanerà spedita, la piccola scomparirà nelle profondità marine, nuotando con la sua coda pinnata.

Quella che ho appena descritto è la sequenza iniziale di una fiaba d’amore. “Splash – Una sirena a Manhattan” è il suo titolo.  “Splash” è una parola onomatopeica, e ci rimanda a un particolare suono, al rumore di un tonfo prodotto da un corpo che cade in un liquido. Quando Allen fu sedotto dalla meraviglia dei fluttui, si gettò in mare, generando appunto uno “splash”. “Splash – Una sirena a Manhattan” è una fiaba innescata dalla scintilla di un colpo di fulmine, di un primo amore destinato a perdurare nell’animo di due innamorati come unico e assoluto sentimento che batte nel loro cuore. Quei brevi istanti vissuti dai due bambini furono eterei attimi d’idillio nei quali scoprirono l’amore più puro, quello esternato nella corrispondenza di uno sguardo inseparabile e nella risposta tutta racchiusa in un sorriso. Una gioia che in pochi attimi ha lasciato il posto alla tristezza, all’amarezza di un abbandono. I due si perdono, separati dal tempo ma ancor di più dalla distanza abissale dei due regni, il terrestre e il marino.

“Splash” è una favola d’arte filmica risalente al 1984. Si tratta di un’opera incantevole, pervasa da magia, diretta da un giovane “autore” come Ron Howard. I due protagonisti ebbero le fattezze di Tom Hanks e Daryl Hannah, che interpretarono le anime inscindibili di Allen e della sua amata sirena.

“Splash” è anzitutto la storia di una crescita fisica, di una maturazione emotiva e caratteriale avvenuta nella sopportazione di una profonda “mancanza”. La prima parte è la celebrazione di un ricordo, di un breve avvenimento che ha conservato la valenza di un momento felice e indimenticabile. Quei pochi istanti tra le ondate valgono più di tanti giorni vissuti insieme nella separazione. E’ un elogio alla bellezza e all’importanza di un momento condiviso nell’innamoramento istantaneo che rende il tempo relativo. La vita stessa, molto spesso, è fatta da frangenti che si consumano con troppa velocità ma che, per quanto emozionanti, hanno il potere d’essere evocativi e imperituri. “Splash” è inoltre voglia e desiderio di dare, una volta cresciuti, sollievo a un senso d’assenza, di annullarlo con il ritrovamento di ciò che arreca questo stato emotivo di vacuità.

Sono trascorsi vent’anni da quel fatidico giorno. Il color seppia si è sbiadito con la stessa rapidità di un colpo di coda, e i colori sgargianti della città sono visibili ovunque la camera decida di puntare il proprio occhio. Allen è proprietario di un piccolo commercio di frutta e verdura insieme al corpulento fratello Freddie (John Candy). Freddie è d’indole allegra e giocosa, Allen è invece spesso triste e malinconico, avverte che qualcosa manca da sempre nella sua vita, anche se non riesce a spiegarsi cosa possa essere. L’ultima delle sue ragazze lo ha lasciato, colpevole di non averle mai detto di amarla. Allen ammette confidenzialmente al fratello di credere che qualcosa non funzioni nel suo “cuore”, come se non riuscisse mai davvero a innamorarsi delle ragazze che incontra. Riguardo quel famoso giorno, egli possiede un ricordo cristallino ma al contempo indistinto: rammenta la letizia provata quando scorse quella piccola figura femminile ma anche l’agonia di quel brusco distacco. Intuiamo che Allen ha un rapporto speciale con il mare, ama osservarlo e camminare lungo la spiaggia, soffermandosi ad ascoltare il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli o che si disperdono lungo la riva. Allen, tuttavia, non sa nuotare. Abbattuto dai suoi fallimenti privati, decide, una notte, di recarsi sulla spiaggia di Cape Cod per rivedere lo stesso tratto di mare in cui un tempo cadde. Per uno strano scherzo del destino, vive quasi la medesima avventura: cade accidentalmente in mare da un natante e perde i sensi. Si risveglia al sicuro sulla costa e scopre di essere stato tratto in salvo da una donna. E’ una ragazza bellissima: lunghi e folti capelli dorati le cingono il viso angelico, le scendono poi giù fin lungo la schiena, mentre sul davanti proseguono fino a coprirle a malapena il seno. Ella gli va incontro, mostrandosi completamente nuda, lo bacia teneramente e poi corre via verso il mare. Una volta tra le onde, la ragazza si rivelerà essere una sirena dalla coda rossa.

La splendida creatura raccoglie dal fondale il portafogli dell’uomo, e reggendolo in mano nuota fino alle profondità marine, alla volta dei resti di un vascello affondato. All’interno di quel relitto la sirena tiene raccolte alcune mappe dove scopre il luogo in cui vive Allen, risalendo al suo indirizzo per mezzo dei dati riportati sui documenti rinvenuti nel portafogli. La fanciulla nuota con la sua coda pinnata sino alla metropoli in cerca del quartiere di Manhattan. Una volta fuori dall’acqua la coda sparisce, ed ella appare semplicemente come una donna meravigliosa. Ella avanza completamente nuda tra la gente, ai piedi della Statua della Libertà, come se si fosse palesata dalla spuma del mare e dal soffio del vento. E’ incapace di comunicare quando viene scortata dalla polizia che le offre i vestiti per coprirsi, e si limita solamente a mostrare i documenti di Allen. Quando la polizia chiamerà l’uomo, egli si precipiterà con la sua auto a tutta velocità per riabbracciarla. Nel momento in cui la donna lo vedrà, anche se non sarà in grado di dialogare, esprimerà comunque tutta la sua gioia nell’averlo ritrovato.

L’incontro tra i due innamorati in età adulta rimarca lievemente il primo incontro tra la sirenetta e il principe nella fiaba di Hans Christian Andersen. Nel racconto di Andersen, la giovane sirena viene attratta in superficie dalle melodie provenienti da un veliero su cui sono in atto dei festeggiamenti. Improvvisamente una terribile tempesta travolge il bastimento e il principe cade in mare preda dei marosi. E’ la sirena a salvarlo e a condurlo a terra. La creatura del mare resta, in seguito, ad osservare il corpo provato dell’uomo, rasserenando il suo spirito inquieto cantando per lui con la sua voce melodiosa. Il principe, al suo risveglio, non fa in tempo a “ghermire” con i suoi occhi l’immagine della sirena, ma conserverà nel cuore il ricordo della sua voce soave. Ella, invece, che lo ha veduto più volte, se ne innamora perdutamente. In “Splash – Una sirena a Manhattan” il richiamo alla sirena che salva l’umano indifeso e lo trae in salvo viene rivisitato in un contesto moderno, dove l’epica di un salvataggio compiuto durante una bufera in mare, viene sostituita dalla dolcezza e dallo stupore di un secondo-primo incontro. La sirena per vent’anni ha continuato a nuotare tra le acque di quel preciso braccio di mare, senza mai migrare in altri lidi, come se attendesse, nell’inesorabile speranza, di ritrovare il bambino cresciuto. Allen, dal canto suo, persiste a conservare un rapporto attrattivo nei confronti di Cape Cod. Separati dagli anni e da mondi tanto diversi, siffatti di terra e acqua cristallina, Allen e la sirena si sono finalmente ritrovati.

La sirena non ha allietato il sonno protratto dallo svenimento dell’uomo con il suo canto, ella lo ha osservato a distanza, riconoscendo nella sua maturità il bambino che vide quando non era che una piccola sirena-bambina anche lei. Nell’opera di Howard, l’uomo mira la sirena nella sua corporalità da umana: quand’ella calca il terreno, la sua coda sparisce, venendo sostituita da due gambe esili e levigate, bianche e delicate. Nella fiaba di Andersen, la sirena è costretta a tollerare un dolore lancinante, una sofferenza persistente pur di poter camminare sul suolo dei mortali. Non vi è sacrificio nella trasformazione della sirena di Daryl Hannah, vi è una trasfigurazione del tutto naturale. Ella può temporaneamente sottrarsi al suo regno marino e assumere completamente l’aspetto di una donna comune. Dove si insinua, dunque, la problematica di quest’amore tra due anime risalenti a mondi diversi? Nella difficoltà dello spazio che essi occupano e nel tempo di cui essi possono disporre: la sirena può restare lontana dall’acqua soltanto per sei giorni. Quando la luna piena si staglierà nel cielo della notte sarà costretta a tornare in mare.

La sirena nasconde il segreto sulla sua provenienza e sulla sua vera natura all’amato. Ella si esprime inizialmente soltanto a gesti ma, dopo aver guardato la televisione per qualche ora, impara a conoscere il linguaggio degli uomini. La lingua del mare è inascoltabile nel mondo degli umani, tant’è che in una delle sequenze più divertenti del lungometraggio, quando Allen chiederà alla donna di rivelarle il suo vero nome, ella emetterà uno strano vocalizzo che “distruggerà” ogni elettrodomestico del centro commerciale. Durante una delle loro passeggiate, la donna chiede ad Allen di assegnarle un nome; ma sarà lei stessa a scegliere “Madison”, letto su un’insegna in un vicolo di “Madison Avenue”. Se la lingua delle creature del mare appare inudibile, anche il canto della sirena non si potrà ascoltare all’interno della pellicola. La sirena di Daryl Hannah non canta mai, non usufruisce del suo potere incantatore, come se non volesse che sia la sua melliflua voce a soggiogare in modo del tutto involontario l’attrazione dell’amato. L’innamoramento tra i due è incondizionato e totalmente spontaneo.

Tra Allen e Madison scoppia la passione. “Splash – Una sirena a Manhattan” sebbene sia strutturata come una sognante fiaba romantica, non rinuncia affatto a inscenare l’amore fisico, passionale, eccitante e incontenibile. Il sensuale e raffinato erotismo dell’opera viene accentuato dalla sinuosità di Daryl Hannah immortalata come giovane, prosperosa e bellissima: le sue forme parzialmente celate dalle punte dei suoi capelli dorati, e lo splendore del suo corpo scultoreo sono state catturate in uno splendido gioco di “vedo-non vedo” per conferire alla sfera sensuale della storia una caratura elegante ma al contempo piccante, in cui l’eros è mescolato alla tenerezza.

Madison viene presentata come una anticipazione leggiadra e sensuale di una futura Ariel, ritratta nella sua bellezza sciolta e svestita. Tante sono le scene in cui Allan e Madison consumano il loro amore con sempre maggiore trasporto, anche negli spazi più disparati dell’abitazione.

Madison regala ad Allen un’imponente fontana, fatta trovare nel soggiorno della loro casa. La fontana è sovrastata dalla raffigurazione di una splendida sirena bronzea da cui sgorga acqua limpida. E’ una delle scene più dolci e commoventi del film, impregnata di un simbolismo che richiama l’arte scultorea rappresentante una sirena: Madison, in quel pegno, immortala se stessa, la sua vera essenza fisica e intima, e ne fa dono ad Allen. E’ un messaggio carico di significato, fatto veicolare attraverso il potere sostanziale di un’opera d’arte. La sirena della scultura domina su di un piccolo laghetto circolare formato dallo scorrere dell’acqua circostante. Viene così mantenuto il rapporto tra l’acqua preziosa (il mare) e la terra (la dimora in cui si trova adesso la statua). Madison, simbolicamente, immagina una convivenza tra il suo essere sirena e il suo appartenere al regno dell’acqua, con la possibilità d’essere anche una donna e restare sulla terraferma, appunto la casa che adesso entrambi condividono.

La New York filmata da Howard e che circonda scenograficamente i due innamorati nelle loro passeggiate mano nella mano è una città luminosa, caotica, linda, piena di gente e di coppie innamorate, e sembra rispecchiare gli stati emotivi provati dai due protagonisti. La sequenza sul lago ghiacciato in cui Allen osserva Madison danzare con una grazia celestiale, lei da sempre abituata a nuotare in acqua e non certo a ballare su di essa, è colma di puro lirismo e anticipa il momento in cui Allen chiederà a Madison di sposarlo. E’ qui che si spezzerà l’armonia e sorgeranno le difficolta che caratterizzeranno la parte conclusiva dell’opera: Madison non può restare nella metropoli e quindi si allontanerà, rifiutando la proposta fattale e gettando Allen in un rabbioso sconforto. New York, a quel punto, muta improvvisamente in una città spettrale, come se riflettesse l’animo e l’ansietà della sirena, quando Madison scruta il mare e prende la decisione di rinunciare a ciò che è pur di restare con Allen.

Ma se dapprima è Madison ad essere pronta a desistere dalla sua vita precedente, infine, sarà Allen a rinnegare i suoi trascorsi con la vita “urbana”. “Splash – Una sirena a Manhattan” è una fiaba che analizza le rinunce, i sacrifici dettati da un amore profondo come la vastità dell’oceano, e lo fa sempre con leggerezza, con grande simpatia, con sensibilità ma anche con fermezza, mescolando la vena sognante di un fantasy con le difficoltà della vita vera.

La situazione precipita quando Walter Kornbluth, uno scienziato, che spia con occhio vigile e minaccioso la coppia perché consapevole della vera identità di Madison, riuscirà a rendere pubblica la vera natura della donna. Gli scienziati “rapiscono” Madison e la sottopongono a test e studi in un laboratorio segreto. Allen resta inizialmente sconvolto e intimidito dalla scoperta ma, spronato dal fratello Freddie, che gli rammenta la felicità provata quando era vicino a Madison, e aiutato proprio dallo sfortunato Kornbluth, pentito di ciò che ha fatto, trova il modo di intrufolarsi nel Museo di Storia Naturale e di portare via la sua amata. Allen e Madison vengono così inseguiti dai militari fino alle banchine del porto di New York. Madison, prima di tuffarsi in mare, ricorda ad Allen l’episodio che condivisero da fanciulli e gli rivela che lei altri non è che la medesima sirena che vide quando era bambino. Allen si getta in mare, e si ricongiunge, tra i flutti, alla sua Madison.

Allen ha sempre avvertito un senso d’inquietudine, di insofferenza nei confronti della realtà circostante, sin da quando era un fanciullo. Se mi soffermo a pensare ancora una volta alla meravigliosa fiaba di Hans Christian Andersen non posso che rammentare l’insoddisfazione della giovane Sirenetta, la quale tanto voleva conoscere il mondo degli uomini e restare vicina al suo amato principe sulla terra. In “Splash” accade un qualcosa di similare ma al contempo diverso: Allen, contrariamente, vuol conoscere il regno del mare per restare accanto alla sua Madison, ed è deciso, sul finale, ad abbandonare un mondo che mai lo aveva fatto sentire parte integrante di esso.  Madison si configura così non soltanto come la metà che completa l’animo dell’uomo ma anche come la risposta vera, carnale, tangibile di un bisogno, di una lacuna riempibile nella profondità di quei suoi occhi verde chiaro, che viene per incanto colmata dalla sua presenza. L’acqua, invece, diviene filtro, portale di consistenza fluida da poter varcare per scoprire un ecosistema nuovo in cui vivere beatamente.

E’ difficile da spiegare ciò che lega Allen a Madison, un sentimento forte, imperituro, sbocciato   sin dall’infanzia e che li rende indivisibili. E’ come se, rivisitando il passo del “Simposio” di Platone raccontato da Aristofane, Madison e Allen fossero figure mitologiche di uomo e sirena, ispirate alle due anime del mito degli androgini. Tali anime nel momento in cui vengono separate, non fanno altro che ricercarsi, riuscendo a riempiere il vuoto della loro disgiunzione solo quando riusciranno a ritrovarsi. La particolarità della fiaba “Splash – Una sirena a Manhattan” è che, in vero, i due corpi che dovrebbero accomunare le due metà sono dissimili: Allen è un uomo, e Madison è, per sua natura, una sirena. Ma non solo, i due corpi concernono due spazi esistenziali diversificati. “Splash” è un elogio all’amore che supera ogni forma esistenziale di diversità, anzi, è proprio l’innamoramento a nascere per le vicendevoli differenze estetiche tra uomo e donna, compiendosi nello sposalizio tra la terra e il mare, e che ha la sua apoteosi nella scelta di un solo piano esistenziale in cui poter vivere insieme. L’amore di Madison è dunque “trasporto” verso una nuova vita, in un altrettanto nuovo mondo, il raggiungimento della felicità.

Il lieto fine è l’esaltazione di un sogno divenuto realtà, della fantasia che flette la tangibilità al proprio volere, la ragionevolezza piegata all’incanto. E’ la forza dirompente e “stregata” di un fantastico amore che congiunge Allen e Madison e permette al protagonista di respirare sott’acqua. Tutto quanto intorno ad Allen e Madison comincia a tingersi di blu.

Se la fiaba cinematografica si apriva con un color seppia che tinteggiava la totalità della proiezione, sul finale, un blu cobalto, il colore degli abissi, “affoga” l’interezza della camera immersa in acqua, mentre Allen e Madison raggiungono il fondale e ammirano un castello regale. E’ il finale che la Sirena di Andersen avrebbe desiderato per se stessa, quello di poter vivere nel castello che, a differenza dell’altro, sorgeva sulla riviera. “Splash” elargisce alla sua sirena un finale felice, che la Sirenetta di Andersen mancò. Allen e Madison coroneranno il loro sogno, la compiutezza delle loro vite in una realtà sommersa, parecchie leghe sotto il livello del mare.

“Splash – Una sirena a Manhattan” è un’opera fantastica, meravigliosa, una rarissima perla nera celata all’interno di una conchiglia che la custodisce come uno scrigno. Colonie di coralli bianchi sorreggono questo “trono naturale” che innalza la conchiglia, posta ai piedi del castello attorno al quale Madison e Allen nuotano felici, in una notte stellata priva di stelle ma con gorghi acquosi di un azzurro intenso.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Fasciame distrutto, remi trasportati dalle correnti, cadaveri abbandonati su dei resti di legni e infine un relitto fantasma, un tempo appartenuto a un glorioso vascello che solcava le acque più burrascose, lasciato adesso navigare senza meta a trovar riposo sottomesso al volere di Poseidone. Erano questi i tetri scenari che le Sirene lasciavano al loro passaggio. Esseri dalla cui voce nasceva un soave e ammaliante canto, che stregava chiunque lo ascoltasse, le sirene erano sensualissime creature del mare, e il loro corpo rappresentava un’irresistibile seduzione per i marinai, che nella solitudine dei loro viaggi, cedevano alla follia del loro richiamo. Accecati nei pensieri, gli uomini, tra le braccia delle sirene, trovavano la morte e conducevano le loro navi alla rovina. Bellissime in viso quanto sinistre e diaboliche nella mente, le sirene erano degli ibridi ittiomorfi: straordinariamente femminile il loro viso e metà del loro corpo quanto inquietantemente animale il prosieguo dalla vita in giù, dove una coda pinnata si dipanava oltre modo, consentendo loro di nuotare liberamente in mare aperto. Lunghi capelli ne cingevano i magnifici volti coprendo talvolta il seno nudo, mentre gioielli serpentiformi e monili dorati, certamente trafugati dai relitti, ne ornavano le braccia.

Una sirena disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

La coda era imponente, nonostante sembrasse leggerissima alla vista, quando veniva mossa con marcata naturalezza da una di esse. Probabilmente nel solcare le acque talvolta strofinavano le code sul fondo del mare, catturando perle preziose che aderivano alle loro squame senza più staccarsi, fornendo alle sirene una lucente pelle riflettente. Nonostante tra le onde trovassero l’ambiente naturale nel quale muoversi con estrema libertà, le sirene riuscivano ed adagiarsi anche sull’arenile, traendo conforto e piacere nello stendersi sugli scogli, venendo accarezzate dagli schizzi dei fluttui che, infrangendosi contro le rocciose pareti, bagnavano i loro corpi. Quando avvistavano una nave all’orizzonte cominciavano a far echeggiare il loro dolce canto, e una volta che i marinai soggiogati indirizzavano le vele verso la loro isola, le sirene si immergevano in acqua nuotando alla volta della nave. Lasciavano i loro corpi semisommersi, mostrando solo il tronco nudo, generando così un turbinio di passioni a tutti coloro che le osservavano attoniti. Nella mente degli uomini quei melodiosi canti ricordavano quanto di più tenero e allettante i loro pensieri lasciavano affiorare: il sorriso di una madre perduta, la risata delle fanciulle di un tempo e il bisbiglio all’orecchio di una sposa lontana che invocava il marito, adagiata su di un caldo e morbido talamo. Gettandosi in mare i marinai rivolgevano i loro sguardi senza sosta alla disperata ricerca di quelle creature incantevoli e leggiadre, per nulla coscienti che in quegli istanti la loro fine stava per giungere implacabile dal fondo del mare: mani misteriose, infatti, afferravano le gambe degli avventati e stolti marinai e li trascinavano verso una morte salmastra. Sulle rive opposte, raccolti i corpi ormai privi di vita, le sirene riempivano l’aria con l’eco di una nenia malinconica, sentenziando un mistico funerale di congedo. Baciato sulle labbra l’uomo che avevano condotto nell’Ade, si immergevano scomparendo nell’oscurità degli abissi.

Il regno delle Sirene si estendeva lungo tutto “l’isolotto” di Scilla e Cariddi, dove resti umani, becchettati da uccelli demolitori, campeggiavano in ogni dove. Compiuto l’efferato attacco le sirene risalivano dal fondale riguadagnando la sponda principale, sdraiandosi appena sulle rive, lasciando che la loro coda continuasse ad essere mossa dolcemente dall’incedere della marea, mentre tra il lento mormorio della risacca, rilassate sul dorso, volgevano lo sguardo verso il cielo, dimora degli dei.

Altre invece stazionavano sugli scogli con la coda verso l’alto, il seno e il busto accarezzavano la superficie, mentre una mano reggeva la presa sulle rocce e l’altra aiutava lo sguardo, coprendo la vista dal sole, permettendo così di scrutare l’orizzonte coi loro occhi bianco latte, alla strenua ricerca di prossime vittime.

E di lì a poco un’altra nave solcò quelle acque: era Odisseo appena fuggito dall’isola della maga Circe. Fissarono i nuovi marinai con sguardo inespressivo. Attendevano con predatoria pazienza che la nave veleggiasse il più vicino possibile a loro. Ulisse però conosceva il pericolo incombente e coprì di cera le orecchie di tutti i suoi marinai cosi che non cedessero al canto delle creature. La curiosità per lui però fu incalzante e volle sentire la voce delle Sirene, tanto decantata e celebrata nelle paure più recondite degli uomini; si fece così legare all’albero maestro della nave raccomandando a ciascuno dei suoi compagni che per nessuna ragione avrebbero dovuto lasciarlo andare. Mentre la nave proseguiva senza sosta lungo il tragitto, Ulisse cominciò ad udire il misterioso canto, che gli ricordò immediatamente la voce della sua cara balia la quale lo accompagnava nel sonno da bambino, infondendogli una pace ed una serenità che tanto gli mancava nel suo lungo peregrinare. Subito iniziò a dibattersi per cercare di liberarsi dalle corde che lo tenevano stretto. Le sirene non rimirando alcun mortale nei pressi delle acque intensificarono le proprie melodie, e per Ulisse la situazione divenne insostenibile. Questa volta riconobbe la voce dell’amata Penelope, la sposa che non stringeva a sé ormai da troppi anni. Il re di Itaca disperato intimò ai suoi compagni di sciogliere le funi. Alcuni colsero le minacce del loro capitano e ne compresero il delirio, allora lasciarono i remi si avvicinarono a lui, ma strinsero ancor di più le corde. Nella follia del momento Ulisse si ferì persino ai polsi nel tentativo di liberarsi. I robusti lacci di fatto penetravano nella carne straziandola. Ulisse sopraffatto dallo sconforto lanciò un urlo animalesco colmo di dolore e di disperazione. Quando riprese coscienza realizzò di essere sopravvissuto alla più spossante esperienza che aveva affrontato in tutte le sue interminabili avventure.

La nave aveva superato quel braccio di mare. Per la prima volta gli uomini erano sfuggiti alla presa mortale delle sirene. Furiose, le stesse, generarono un verso di collera che poco aveva a che vedere con lo splendido vocalizzo intonato poco prima.

Per diretto ordine di Afrodite, le sirene raggirate e sconfitte da Ulisse salirono a fatica sulla cima di un colle a strapiombo, procedendo con la sola forza delle braccia. Lungo il percorso le code si trascinavano al suolo perdendo sempre più la loro lucentezza e anche le perle che avevano aderito cosi perfettamente alla loro cute. Il corpo femminile non era più liscio e delicato ma sporco e ruvido, deturpato da quella terra che così tanto non gli apparteneva. Raggiunta la cima, le sirene si uccisero gettandosi dal dirupo. I loro corpi privi di vita furono trasformati dalla dea dell’amore, per misericordia, in statue di pietra.
La soave bellezza delle sirene si dissolse e, nella pietra bagnata dallo scrosciare delle onde, si perse per sempre il loro melodioso canto.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Era un mercoledì di tristi novelle quello che si consumò, con la stessa rapidità di un fuscello avviluppato dal fuoco, in quel lontano 4 agosto del 1875.  Le ceneri del rametto si levarono alte e sparirono nel cielo come il soffio di un drago che borbotta tra sé e sé al crepuscolo. Una vita era cessata e con essa anche l’artificio produttivo di quell’uomo che aveva vissuto così intensamente. Hans Christian Andersen scrisse l’ultima pagina della fiaba della sua vita un tranquillo giorno di inizio agosto. La rigida copertina di quel tomo che aveva contenuto i passi esistenziali di questo percorso sulla Terra si chiuse. Andersen se ne andò con la consapevolezza di aver lasciato un’impronta del suo passaggio, indelebile come macchia di inchiostro su di un foglio immacolato. Le sue passioni, i suoi sentimenti, la prospettiva fiabesca con cui interpretò il mondo e si fece strada tra i sentieri favolistici della sua vita rimangono impressi nella letteratura. E’ desolante dover leggere l’ultimo capoverso di una vita, non tanto per la consapevolezza che anche la più sensibile delle esistenze ha un inizio e una fine, quanto per la presa di coscienza di tutto ciò che c’è stato prima di quell’ultimo atto. Davanti all’invenzione fantasiosa di una mente prolifica come quella di Andersen, viene spontaneo domandarsi, se avesse avuto un tempo maggiore da poter sfruttare, cosa avrebbe seguitato a raccontarci? Egli morì all’età di settant’anni, quando ancora la sua penna poteva dare vita e anima ai personaggi delle sue fiabe, agli animali dotati di parola e d’intelletto delle sue favole, e avrebbe potuto imprimere ulteriore caratura vitale a nuovi mondi, con cui essi avrebbero interagito. Ma nulla più accadde, e le restanti immaginazioni favolistiche di Andersen furono portate via dal vento e rilasciate, chissà, forse tra le rive del mare, per essere raccolte dalle medesime onde in cui visse la più cara delle sue “figlie”, quella Sirenetta con la quale Andersen scolpì il suo nome tra le mura rocciose del ricordo indelebile.

Hans Christian Andersen nacque a Odense, in Danimarca, il 2 aprile del 1805, da una famiglia di umilissime origini. Era figlio di Hans, di professione calzolaio, e di Anne Marie Andersdatter. Hans Christian vive con la sua intera famiglia in una singola stanza in condizioni di indigenza. L’ambiente modesto in cui Andersen crebbe non pareva essere certamente dei migliori, eppure lo scrittore lo reinterpreterà sempre come un mondo di fiaba, i cui scorci di estrema miseria vengono riletti dalla sua verve sognante e infantile come luoghi impregnati di magia. Sebbene il suo carattere sognante alimenti la di lui fantasia, così come anche l’educazione affettiva del padre, grande narratore di storie (si dilettava nelle letture de “Le mille e una notte” per il figlioletto), non faccia che accrescere in lui uno spirito votato all’inventiva narrativa e fantastica, il giovane Andersen, crescendo, si affaccerà alle difficoltà della vita, dovendo far fronte alle proprie paure e insicurezze. A soli undici anni Hans Christian resterà orfano di padre, e dovrà prendersi cura come potrà della madre, caduta preda dei vizi dell’alcool. Si trasferirà poi a Copenaghen, città dove oggi si staglia sulla riva del mare una celebre scultura ispirata proprio alla sua opera più famosa. Ma come è potuto accadere che un ragazzetto di 14 anni, che pecca di una formazione scolastica frammentaria e che non tollera, se non con stoica sofferenza, quello che definirà un “supplizio”, ovvero la permanenza tra i banchi di scuola, diventare ciò che poi è diventato? Andersen sogna di diventare attore di teatro; ma come fare con quella camminata dinoccolata e quel fisico così magro? E poi quella vistosa gibbosità al naso e una scarsa presenza scenica non promettono niente bene. Andersen cimenta comunque le sue due grandi passioni, che sono il teatro e la letteratura, entrambe ereditate dal padre, e sperimenta nei successivi anni qual è che sia il genere prediletto, a seconda delle sue attitudini scrittorie. Compiuti i trent’anni, Hans Christian comincia la sua forsennata attività letteraria che contempla romanzi, raccolte di poesie, annotazioni di viaggio e componimenti satirici. Tuttavia è soltanto uno il genere che più lo appaga, quello in cui Andersen può rendere tangibile in parole la sua profondità autoriale: la fiaba. In essa, Andersen dimostra la limpidezza del suo talento, soave come la grazia di un cigno che nuota sulla superficie di un lago, mantenendo lo sguardo chinato verso lo specchio dell’acqua a rimirare la propria immagine riflessa di brutto anatroccolo.

Dal 1930 in poi, Andersen scrive alcune delle sue fiabe più famose, racconti intrisi d’ispirazione reale ma al contempo grondanti di un’astratta concezione fantastica. La realtà viene così modellata nella fiaba, rivoluzionata dall’estro dell’autore danese. La penna viene intinta nell’inchiostro, con sempre maggiore frequenza, quando Andersen necessita di trascrivere tutte le fiabe che riesce a partorire dalla propria fantasia. Le notti inquiete, quelle in cui l’autore, chi lo sa, magari faticava a prender sonno perché disturbato da un piccolo legume insinuatosi tra le lenzuola del letto, lo costringono a star sveglio, a creare le sue meraviglie. Egli, per conformare le sue idee in racconti fiabeschi, riflette sui propri stati d’animo e trasforma secondo un ardito uso metaforico ed allegorico i suoi fantasmi in personaggi, le sue paure in animali e le sue sensazioni in contesti fantasiosi. E’ una fiaba fantastica ma attinente al vero, alla formazione vitale e al sentimento umano quella di Andersen, un genere alle volte speranzoso, altre cupo, drammaticamente sofferente e di rado a lieto fine. Per ogni sua fiaba, Hans Christian mescola il piacevole inganno del fantastico con l’asperità della vita vissuta. Il suo aspetto, non proprio da adone, la sua goffa andatura e quello schiacciante senso di solitudine e di “diversità” che lo attanagliano lo fanno sentire come un brutto e sventurato anatroccolo finito in un recinto di anatre, seppur nato da un uovo di cigno. Formazione, crescita, accettazione di se stessi e del proprio posto nel mondo sono solo alcune delle fonti analitiche riscontrabili nei suoi lavori. Andersen eleva gli standard della fiaba, andando oltre ciò che fecero i fratelli Grimm, imprimendo ai suoi scritti il valore assoluto di un racconto trasbordante di emozioni più o meno variegate, e di sicuro non racchiudibili in un spazio circoscritto.

“La principessa sul pisello”, "I vestiti nuovi dell'Imperatore", "Il brutto anatroccolo", "La piccola fiammiferaia", "Il soldatino di stagno", "La regina delle nevi", “Mignolina” sono solo alcune delle sue opere universali. Il 1937 è l’anno in cui vide la luce il suo capolavoro: “La sirenetta”. Hans Christian, influenzato dalla figura mitologica della sirena, scrive una fiaba dal trasporto emotivo ineguagliabile.

La Sirena disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quando compose “La sirenetta”, lo scrittore instillò nel calamaio le proprie lacrime, grosse come gocce di rugiada, le quali si mischiarono all’inchiostro, divenendo tutt’uno con la carta e con ogni singola lettera che servì alla stesura della fiaba. “La sirenetta” è una fiaba forgiata da un amore inviolabile, sbocciato nella speranza come fiamma imperitura che divampa nella sofferenza, nel più lancinante dei patimenti, fin quando non raggiungerà il sublime, in uno dei finali più strazianti che soltanto il genio creativo di Andersen poteva farci dono: un atto conclusivo che conferì alla storia un lirismo estremo. “La sirenetta” di Andersen racchiude in sé un turbinio di sentimenti, i quali risuonano come il dolce e malinconico canto di una sirena logorata dal peggiore dei mali per un’anima sensibile: un amore non corrisposto. Credo sia una nenia angosciante quella intonata dalla sirenetta del racconto, nell’attimo in cui, abbandonatasi sulle sponde di sabbia granulosa, ella richiama l’amore che sparisce via su di un vascello all’orizzonte. Andersen, con “La sirenetta”, innalzò la fiaba a un linguaggio ancor più universale, perché poté rivolgersi in egual misura e con tale coinvolgimento sia ai fanciulli, attenti uditori, che agli adulti, i quali, avrebbero a loro volta letto le fiabe ai loro piccoli.

Andersen era una persona estremamente sensibile, e la sua delicatezza spesso condizionò i suoi rapporti con amici e parenti. Viaggiò ogni qual volta poté, mosso da un’innata curiosità e da un’insaziabile voglia di conoscenza. Di temperamento garbato e malinconico, Hans Christian Andersen nell’animo rimase eterno innocente. Scriveva: “Io scelgo un tema per gli adulti e lo racconto ai bambini, tenendo presente che il padre e la madre ascoltano e bisogna farli riflettere un poco.”

Andersen raggiunse il traguardo dei suoi settant’anni quando aveva già accolto da tempo una fama considerevole. Dall’indigenza del proletariato era divenuto un illustre scrittore, i cui lavori vantavano traduzioni in tutto il mondo. Nella camera in cui trascorse i suoi ultimi mesi di vita, di proprietà della famiglia Melchior che lo ospitò con gioia, immagino francamente che fosse respirabile l’aria, come effluvio incantato, delle sue fiabe. Il magico mondo da lui creato deve averlo accompagnato fino alla fine, quando spirò serenamente.

La Sirenetta di Copenaghen riposa ancora oggi su di uno scoglio in riva al mare. La sua coda è prossima a lasciare intravedere due gambe di epidermide bianca e liscia come seta, così come le aveva sempre sognate per poter calcare il suolo terreno e vivere il suo grande amore. Il suo sguardo rivolto verso l’infinito testimonia la grandezza di una storia talmente bella da dover essere omaggiata come arte bronzea. Una scultura che ci rammenta un tempo ormai passato, in cui ci fu un autore che descrisse questa donna sublime che per amore avrebbe voluto trasformarsi in una comune mortale.

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Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

“LA SIRENETTA” – Dall’opera letteraria di Hans Christian Andersen a quella cinematografica della Disney: capolavori a confronto.

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Una sirena disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Fasciame distrutto, remi trasportati dalle correnti, cadaveri abbandonati su delle assi di legno e infine un relitto fantasma, un tempo vanto e orgoglio della marineria, una possente nave che solcava le acque più burrascose, lasciato adesso navigare senza meta, a trovar riposo sottomesso al volere di Poseidone. Erano questi i tetri scenari che le Sirene lasciavano sul loro cammino nei passi della mitologia arcana. Esseri dalla cui voce nasceva un soave e ammaliante canto, che stregava chiunque lo ascoltasse, le sirene erano sensuali creature marine, e il loro corpo rappresentava una irresistibile seduzione per i marinai, che nella solitudine dei loro viaggi, cedevano alla follia del loro richiamo. Accecati nei pensieri, gli uomini tra le braccia delle sirene trovavano la morte e conducevano le loro navi alla rovina. Bellissime in viso quanto sinistre e diaboliche nella mente, le sirene erano degli ibridi ittiomorfi: straordinariamente femminile il loro volto e metà del loro corpo, dalla vita in giù, invece, una coda pinnata si dipanava oltre modo, consentendo loro di nuotare liberamente in mare aperto. Lunghi capelli ne cingevano il magnifico viso coprendo talvolta il seno nudo, mentre gioielli serpentiformi e monili dorati, certamente trafugati dai relitti, ne ornavano le braccia. La coda era imponente nonostante sembrasse leggerissima alla vista, quando veniva mossa con estrema naturalezza e leggiadria. Probabilmente nel solcare le acque talvolta strofinavano le code sul fondo del mare, catturando perle preziose che aderivano alle loro squame senza più staccarsi, fornendo alle sirene una lucente pelle riflettente. Nonostante tra le onde trovassero l’ambiente naturale nel quale muoversi perfettamente, le sirene riuscivano ed adagiarsi anche sulle rive, traendo conforto e piacere nello sdraiarsi sugli scogli, venendo accarezzate dagli schizzi dei fluttui che, scontrandosi con le rocciose pareti, bagnavano i loro corpi. Quando avvistavano una nave all’orizzonte cominciavano a far echeggiare il loro dolcissimo canto, e una volta che i marinai soggiogati indirizzavano le vele verso la loro isola, le sirene si immergevano in acqua nuotando verso la prua della nave. Lasciavano i loro corpi semi sommersi, mostrando solo il tronco nudo, generando così un turbinio di passione a tutti coloro che le osservavano attoniti. Nelle mente degli uomini quei melodiosi canti ricordavano quanto di più tenero e allettante i loro pensieri potessero rammentare: il sorriso di una madre perduta, la risata delle fanciulle di un tempo e il bisbiglio all’orecchio di una sposa lontana che invocava il marito, distesa su di un morbido letto. Gettandosi in mare i marinai ponevano i loro sguardi senza sosta alla disperata ricerca di quelle creature cosi incantevoli e belle, per nulla coscienti che in quegli istanti la loro fine giungeva implacabile dal fondo del mare: mani misteriose infatti afferravano le gambe degli stolti e li trascinavano verso una morte sicura. Sulle rive opposte, raccolti i corpi ormai privi di vita, le Sirene riempivano l’aria con l’eco di una nenia malinconica, sentenziando un mistico funerale di congedo.

E’ questa che ho raccontato con sentito trasporto la descrizione più classica del mito delle sirene. Una rievocazione descrittiva valevole fino al 1837, quando il genio letterario di Hans Christian Andersen rese partecipi i propri lettori di un capolavoro destinato a mutare per sempre ciò che si poteva immaginare sulle sirene. Non erano più soltanto creature sensuali e bellissime, seducenti e fatali. Le sirene con Andersen erano donne sognanti e innamorate, creature dall’animo puro e incontaminato, anime cristalline, capaci di amare incondizionatamente. Con la fiaba dell’autore danese, le sirene divennero universalmente conosciute anche come delle essenze femminili di armoniosa grazia.

Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Protagonista della fiaba più famosa di Andersen è una Sirena, o meglio, una Sirenetta, tanto gentile, tanto bella, ma anche tanto sfortunata. La storia della Sirenetta ha qualcosa che non si trova di solito nelle altre fiabe: non mette solo in moto la nostra fantasia, la nostra immaginazione, mette in moto soprattutto il nostro sentimento. Il nostro cuore soffre e si rattrista per la giovane Sirena così dolce e delicata, e così pronta al sacrificio. A un sacrificio che le costa la rinuncia al canto e alla parola e la costringe a una continua sofferenza fisica. Ella cerca la felicità nel mondo degli uomini e, quando si accorge che non può realizzare il suo sogno d’amore, diventa una magnanima dispensatrice di bene e d’affetto per colui che, senza saperlo, l’ha fatta tanto soffrire.

La Sirenetta per il suo modo di sentire, è veramente una creatura umana, appunto per questo Andersen ha immaginato per lei, come premio, come ricompensa, un’anima immortale. Una fiaba irreale per le vicende narrate, vicissitudini che sono fuori dalle nostre possibilità, ma sono reali per l’umanità dei personaggi e per i loro caratteri così vivi, così autentici, così veri. Basti andare con la mente alle scene in cui la Sirenetta pensa mestamente ai suoi cari: le sorelle che cantano un triste canto per averla perduta; il Re e la nonna che da lontano tendono il braccio sconsolati. Più che un particolare di una scena fiabesca, sembrerebbe una scena da figurarsi in un dramma, in una tragedia di quelle che creavano gli antichi Greci, tutti dominati dal sentimento di un destino doloroso, avverso che non si può vincere. Chi va a passeggiare lungo il mare che bagna Copenaghen può vedere su un grosso masso, accarezzato dall’onda che fluttua sommessa, una fanciulla di bronzo che guarda, seduta, lungo il lontano orizzonte. E’ il monumento alla Sirenetta, la soave protagonista dell’omonima fiaba.

Le fiabe Anderseniane hanno una grande ricchezza di motivi; improntati a una eccezionale immediatezza d’intenzione psicologica, si sviluppano in una narrazione sobria e limpida, inconfondibilmente ritmata, dove uomini e animali si esprimono in un mondo in cui è infranta ogni barriera tra realtà e fantasia. Scriveva Andersen: “io scelgo un tema per gli adulti e lo racconto ai bambini, tenendo presente che il padre e la madre ascoltano e bisogna farli riflettere un poco”.

Il vero carattere della Sirenetta è descritto da Andersen con dovizia di particolari, specialmente psicologici che di solito si riscontrano nei personaggi delle fiabe. L’autore ha voluto puntare alla ricerca delle emozioni e dei sentimenti del personaggio, creando una figura malinconica e sensibile, altruista e decisa, che nel corso della narrazione vediamo crescere e maturare. Una volta diventata persona umana la sua vita è un alternarsi di speranze e delusioni. Il principe, dal canto suo, la tratta come un trastullo, come un cucciolo a cui voler bene e la fa stare accanto a sé solo perché gli ricorda un’altra ragazza, quella che egli crede l’abbia salvato. Quando la Sirenetta scopre la vera identità della promessa sposa del principe sprofonda nella tristezza più cupa, e malgrado la sua angoscia augura ai due giovani ogni felicità, continuando a sorridere pur sapendo che allo spuntar del sole si trasformerà in spuma del mare. E poi quando le sorelle le mettono in mano il coltello con cui dovrà uccidere il giovane principe per salvarsi, la Sirenetta, raggiunge l’apice della sua umanità, gettando in mare il pugnale e affrontando così il suo crudele destino.

A differenza delle altre fiabe, che di solito si concludono con la famosa formula … “E vissero tutti felici e contenti”, nella Sirenetta siamo in presenza di un finale triste, sconvolgente, anche se intriso di profonda morale. In effetti la Sirenetta è solo apparentemente una fiaba, Andersen ha usato alcuni elementi del fiabesco come appiglio per narrare un’affascinante, ma di certo malinconica, storia d’amore.

Andersen impresse il proprio dolore su quei fogli di carta, la sua vivida sofferenza emotiva nella parole che rinarravano il triste fato della Sirenetta, perpetrando un finale dal distacco prostrante che innalzò a emblema imperituro di quel senso di profonda insoddisfazione che egli provava e di quel dolore che ne torturava l’animo.

La Sirenetta Ariel disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Nel 1989 la Disney distribuì nei cinema di tutto il mondo “La Sirenetta”, il primo classico del cosiddetto “Rinascimento Disney”. Ispirato alla fiaba scritta da Andersen, il lungometraggio d’animazione mutò alcuni punti chiave della storia, donando alla protagonista, nel film battezzata con il nome di Ariel, che richiama lo spirito dell’aria di William Shakespeare, un lieto fine. Fortunatamente, permettetemi di scriverlo, sebbene la storia di Andersen sia assolutamente perfetta, un vero elogio alla sua fantasia creativa in grado di far riflettere sulla tragicità di una fiaba che mescola interpretazioni velate sulla realtà, il finale dell’opera è incredibilmente straziante. Un film che riadattasse il racconto restituendo alla Sirenetta un atto conclusivo sereno e felice fu un vero e proprio “dono” che la Disney offrì non soltanto alla sua protagonista ma a tutti i fan (come il sottoscritto) che amano la fiaba originale e che, pur rispettando il supremo volere dell’autore, provano un senso di profonda angoscia, memori di un finale dalla drammaticità devastante, e che grazie al lungometraggio Disney poteva adesso essere analizzato da una prospettiva tutta nuova.

“La Sirenetta” ebbe il merito di conferire nuova e preziosa linfa vitale alla Walt Disney, reduce da un periodo di magre consolazioni e modesti risultati di critica e di pubblico. Il film diretto da John Musker e Ron Clements fece da apripista al periodo di successi sfolgoranti che dureranno per tutti gli anni ’90: “La Sirenetta” fu a tutti gli effetti la “madre” che generò una luce nuova, chiara e raggiante che illuminerà la Disney per il successivo decennio.

Il film narra naturalmente la storia di Ariel, una sirena del mare, principessa degli abissi, figlia del Re Tritone.  Per disegnare il fisico slanciato e armonico della Sirenetta, gli animatori si ispirarono ad Alyssa Milano, famosissima in Italia come Phoebe nella serie tv “Streghe”. Ariel è una sirenetta di sedici anni dai folti capelli rossi, che nuota sul fondale marino insieme al dolce Flounders, un pesce color giallo e azzurro, e Sebastian, un granchio rosso, consigliere del padre e figura protettiva nei confronti della giovane. Ariel raccoglie spesso oggetti dispersi dagli umani in mare, ella è mossa da una profonda curiosità verso gli uomini, anche se il contatto tra le creature del mare e gli umani è assolutamente proibito dal regno da cui proviene. I canti musicali del film servirono per l’esposizione canora dei sentimenti dei protagonisti. Ariel canta i suoi desideri, ma anche i suoi sentimenti, poggiandosi su di uno scoglio e inarcando il proprio corpo all’indietro e verso l’alto, mentre la marea si scontra con la parete rocciosa: ella esprime il proprio volere di essere libera e intraprendere la vita che vorrebbe sulla terra insieme al suo amato. La protagonista anela a una libertà e canta tale volere in un modo che verrà, ad esempio, ripreso ne “Il gobbo di Notre-Dame”, quando Quasimodo canterà l’ardente desiderio di essere liberato dalla prigionia della cattedrale per uscire fuori. Le canzoni de “La Sirenetta” servirono altresì per tracciare l’amore che le creature del mare riservano al loro mondo nella celebre “In fondo al mar”, splendida melodia che traccia le meraviglie nella vita sul fondo del mare e le differenze rispetto ai pericoli del “mondo esterno.” “La Sirenetta” ebbe il grande merito di aver ripristinato le parti musicali come elementi essenziali e peculiari dei migliori classici Disney. Grazie alle proprie musiche il film vinse due premi Oscar, per la migliore colonna sonora e la migliore canzone, un qualcosa che si ripeterà più volte per le successive opere della Disney, che per le parti musicali impiegherà sempre sforzi massimi per garantire una resa sempre di altissimo livello.

Ne deriva un’immediata demarcazione adoperata nella storia della Sirenetta, ovvero quella tra il mondo degli abissi e quello al di sopra della superficie, ovvero quello degli umani. Se gli umani nutrono una curiosità prettamente scientifica verso ciò che è ignoto ed eseguono una ricerca per conoscere ciò che si cela tra gli abissi dell’oceano, Ariel, un essere per noi così unico e raro, così bello e incantato, desidera conoscere ciò che si trova al di là della superficie. Dal punto di vista degli spettatori è curiosa l’empatia che si sviluppa nei confronti della protagonista, una creatura “fantastica” che mira a voler diventare “normale”. Ariel, infatti, si innamora del principe Eric, un uomo che mira per la prima volta su di un’imbarcazione alla deriva e che salva da morte certa, portandolo fino alla riva e rincuorando il suo spirito dimesso cantando per lui. Eric non può vederla perché ha perso i sensi e conserva i suoi canti nel suo cuore e nella sua mente.

Se gli umani volessero nel profondo conoscere una realtà così magicamente possibile come quella in cui vive Ariel, ella, dal canto suo, desidera ardentemente diventare un’umana, abbracciare il nostro mondo e camminare con le sue gambe sulla superficie terrestre. Ne consegue una flebile interpretazione su come la conoscenza colpisca il sentimento ancor prima della razionalità, spingendo questi alle volte spiriti appartenenti a mondi opposti a volersi incontrare. L’avvicinamento tra Eric e Ariel è l’incontro tra due razze diversificate eppure così accomunate dal medesimo sentimentalismo che ci rende pressoché unici.

E’ curioso notare come l’incontro tra Ariel e Eric rimandi ai classici miti delle sirene cui facevo cenno inizialmente: Ariel emerge dalle acque verso una nave prossima ad affondare ma non è una creatura malvagia, pronta a uccidere i naufraghi. Ariel è una dama del mare d’impareggiabile bellezza e d’inconfondibile sensibilità emotiva. Il suo canto non è un’irresistibile manifestazione atta a stregare le sue prede, è invece un dolce conforto che ella riserva all’amato. Una diversità che cambia i classici approcci delle sirene dei miti rendendoli profondamente simili a quelli voluti da Andersen.

La sirenetta, pur di poter incontrare nuovamente l’uomo, stringe un patto con Ursula, la diabolica strega del mare, rappresentata nel film come una gigantesca piovra dal viso e dal tronco umano, che le dona le gambe privandola però della sua incantevole voce. Ariel dovrà farsi amare dal principe e dovrà riuscire a farsi dare un vero bacio poco prima che tramonti il sole al terzo giorno. In caso contrario sarà condannata a tramutarsi in un essere consumato, e unirsi ai tanti altri mutati in simili sembianze e ingannati dalla strega. Ursula è una piovra viscida dai tentacoli subdoli e pericolosi che sembrano rappresentare metaforicamente le brame di potere cui mira la strega del mare. Un essere in grado di catturare e assoggettare tutto ciò che lo circonda con l’oscurità delle proprie armi tentacolari. La strega del mare è un essere neutrale nell’opera di Andersen ma nell'adattamento cinematografico è l’antagonista principale della storia, dal riso sardonico e dalla fisicità corpulenta, uno dei cattivi più sinistri, e inquietanti mai realizzati dalla Disney.

Ariel incontra così Eric restando perennemente muta, non potendo comunicare con lui se non con i gesti e i suoi sguardi. Tra i due comincia a sbocciare un forte sentimento.

Ursula cova odio nei confronti della bella Ariel, e trasformandosi in umana, usufruisce della voce della Sirenetta per ingannare Eric, cancellandogli la memoria fino a convincerlo che la donna ad avergli salvato la vita sia stata lei. Eric sembrerebbe prossimo a innamorarsi della strega, condannando la povera Ariel a trasformarsi nuovamente in sirena.  Alla fine Ariel riuscirà a sconfiggere Ursula, e suo padre, mosso a compassione e colpito dall’amore provato dalla figlia, decide di trasformarla in umana. Eric, ricambiando l’amore di Ariel, la sposa a bordo della sua nave poco prima di partire verso l’orizzonte.

“La Sirenetta” fu un capolavoro animato che trattò splendidamente il tema del diverso e l’incontro tra due mondi attraverso un amore corrisposto e dal valore ineluttabile. Non solo il ritmo è cadenzato argutamente, e i personaggi sono caratterizzati a dovere, ma è lo sforzo nel ricreare un’animazione innovativa e dal dettaglio curatissimo che fece de “La Sirenetta” un classico di raffinata pregevolezza. Il tratto artistico con cui venne “dipinto” il mondo sottomarino fu una resa scenica di assoluta magnificenza che “immerse” gli spettatori tra i fondali di una realtà che avrebbero dovuto scoprire con tanta indiscrezione, nell’esatto modo in cui Ariel scopre lentamente il mondo che tanto desidera. Venne adoperato uno sforzo mastodontico per l’animazione, con l’elaborazione di oltre un milione di bolle ben visibili ogni qualvolta i personaggi parlano sott’acqua, ma è la luce la quintessenza della finezza e della ricercatezza nel ricreare la minuziosità del dettaglio scenico: come fosse un quadro di Caravaggio, non c’è dato vedere da che punto con precisione arriva il fascio di luce, lieve ma comunque abbastanza luminoso da rendere le profondità del mare ben visibili. I personaggi nuotano nei fondali, dove il buio dovrebbe essere preponderante, ma la luce seguita sempre a irrompere dall’alto, da più parti che possiamo soltanto immaginare. E nelle profondità sono i colori degli oggetti, della flora e della fauna marina a ravvivare l’ambientazione, come se le stesse creature del mare donassero vivezza e colore alle tavolozze artistiche del film. Nell’oscurità degli abissi gli esseri viventi sono i colori luminescenti capaci di esprimere la vitalità dell’esistenza in fondo al mar.

“La Sirenetta” della Disney, sebbene non conservi la drammaticità e l’impressione tragica del corso e del finale dell’opera letteraria, mantiene una decisa tensione emotiva e analizza con garbo e gentilezza un amore impossibile che diventa attraverso un percorso di rinunce, sofferenze e rischi, splendidamente possibile.

L’adattamento cinematografico della Walt Disney, oltre a poter essere naturalmente paragonabile a “La Sirenetta” di Hans Christian Andersen, poiché derivante dalla fiaba dello scrittore danese, può fungere da ultimo tassello del puzzle, e adempiere ad un completamento.

Personalmente immagino Ariel, viva e in salute, volgere il proprio sguardo sulla superficie dell’acqua rischiarata dal sorgere del sole mattutino, e in quei riflessi tra le onde, proprio in quell’istante, quando la brezza soffiando dolcemente le sposta i rossi capelli, ella riesce a rimirare il volto della Sirenetta di Andersen. Un viso che si delinea nei riflessi di un mare che trasfigura se stesso come fosse un portale su un’esistenza parallela. Entrambe nelle mie fantasie incontrano i rispettivi sguardi, e la Sirenetta, prossima a tramutarsi in spuma del mare può, per un solo e meraviglioso istante vedere “se stessa” felice e contenta, essendo riuscita a trovare l’amore che tanto aveva desiderato.

Poco prima di scomparire tra il movimento delle onde, la Sirenetta può avvertire il conforto che la “se stessa” di una realtà, poi non così distante, è riuscita a scorgere e vivere nell’amorevolezza terrena. Ariel può così anch’ella mirare la Sirenetta disfarsi in bolle, e comprendere quanto il dono che è riuscita a cogliere sia prezioso.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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