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"Stanlio e Ollio" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Senti, la mia filosofia è questa: se non si ha un po' di senso dell'umorismo è meglio essere morti.

Roger aveva ragione. Pienamente ragione. Lo disse una sola volta, con la sua voce squillante, blaterando con quella sua bocca grande e pelosa, sputacchiando qua e là. Disse che ridere è l’unica arma che ci rimane. Già, l’unica. Pronunciò questo suo pensiero quando si trovava in un vecchio locale, rannicchiato all’interno di un nascondiglio umido e angusto, utilizzato molti anni prima dai proprietari, ai tempi del proibizionismo.

Quella espressione – “La risata è l’unica arma che ci rimane” – la proferì con aria sincera. Si vedeva lontano un miglio che Roger credeva in ciò che stava dicendo. Ridere, per lui, era la cosa più bella del mondo. La frase di Roger restò impressa a chi stava ascoltando, anche se questi non lo dette a vedere. Eddie Valiant l’improbabile amico umano di Roger, non era, per così dire, un tipo allegro. Nulla riusciva a penetrare la sua pervicace perplessità. Eddie era triste, costantemente abbattuto. Era un investigatore cinico, depresso, avvilito, annebbiato dall’alcol consumato a fiumi per tentare di annegare un malessere che, purtroppo, aveva il salvagente. In quei frangenti, Roger cercava di aiutarlo a capire: ridi, Eddie. Ridi! Ridere è il solo modo per poter andare avanti.

Come dite? Vi state chiedendo chi è questo Roger? Già, avete ragione, perdonatemi. Stavo procedendo un po’ a ruota libera, dimenticandomi di fare le dovute presentazioni. Roger è un coniglio, ovviamente. Beh, “ovviamente” si fa per dire. Diciamo che si tratta di un cartone animato. Sì, insomma, un cartone con le fattezze di coniglio. E non aveva affatto torto. Proprio per niente.

Ridere è l’unica arma che ci rimane. Quando la vita si fa dura, quando intorno a noi sembra tutto fosco, come se una nube caliginosa fosse calata senza più diradarsi, trovare la forza di sorridere è la sola risorsa di cui disponiamo per sopravvivere. In quella storia fantastica vissuta dal coniglio e dal detective con indosso l’impermeabile, in quel film intitolato “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, ne sono state dette, sì, di frasi belle, argute, profonde, indimenticabili, proprio come quella appena citata. Frasi che potrei utilizzare per parlare di un argomento che ha poco a che fare con l’avventura di Roger Rabbit, ma che ben si presta alla sua riflessione più emblematica: talvolta, la risata è l’unico espediente di cui possiamo beneficiare, l’unica àncora a cui poterci aggrappare!

Una scena di "Chi ha incastrato Roger Rabbit". Potete leggere di più cliccando qui.

Ma come si fa a ridere pienamente? E, soprattutto, come si fa a far ridere? Gran bella domanda. Dovremmo chiedere a un esperto in materia. Chissà cosa avrebbe risposto, a tal proposito, un genio della comicità come Stan Laurel. Qualcuno, invero, ebbe la fortuna di chiederglielo, molti anni fa.

Dunque, come si riesce a strappare un sorriso alle persone? Persino Stan cercò di eludere la domanda. “So solo come far ridere la gente”, così rispondeva quando qualcuno, chiamandolo a ragion veduta “maestro”, gli chiedeva quale fosse il segreto per una sana comicità. Stan non lo sapeva. A dire il vero, ci teneva a precisare di non conoscere neppure lui quale fosse il meccanismo per suscitate una risata copiosa o per scrivere una grande commedia. Già! Ma cos’è una commedia?

Una forma d’arte, questo è certo, ma fin troppo difficile da descrivere o sintetizzare a parole, anche per un genio come il signor Laurel. La commedia, Stan, la sentiva dentro di sé, era parte del suo essere, linfa che scorreva nelle sue vene. Far ridere era un’attitudine della sua persona, un talento che aveva fin da quando aveva messo piede nel mondo, il sesto, nonché il più affinato, dei suoi cinque sensi. In realtà Stan sapeva benissimo cosa fosse la commedia, e in egual misura era ben conscio di cosa fosse il mimo, il comico, l’istrione, la maestria di far ridere il prossimo.

Semplicemente non sapeva come spiegarlo, come tramutarlo in un concetto cristallino. Del resto, come avrebbe potuto? Può forse un artista rivoluzionario o un genio innovativo compendiare in brevi estratti in cosa consista la sua arte, l’estro e l’arguzia che tutti sembrano riconoscergli? Certo che no, farebbe troppa fatica anche solo a tentare. Neppure un pennuto, se potesse parlare, riuscirebbe a dire perché sa volare. Già, volare, ma certo!

Ecco, per Stan Laurel la comicità era come volare per un gabbiano: una prerogativa naturale, appresa sin dalla più tenera età. Ridere per Stan significava spiccare il volo, dispiegare le ali e volteggiare tra il cielo ed il mare. Ogniqualvolta immaginava uno scenario comico materializzarsi nella sua mente, Stan abbandonava la sabbia e si librava oltre le onde che si infrangevano contro gli scogli, per salire sempre più su, riuscendo poi a planare sull’acqua per sfiorarla con la punta dei piedi. Solamente quando la gag era svanita, lo sketch compiuto e la mente si faceva sgombra da fantasie ironiche, Stan piombava giù, atterrando lentamente, proprio su quella spiaggia dove tutto aveva avuto inizio.

Era questa la commedia per Stan Laurel: uno strumento per librare, per sollevarsi oltre il suolo, un paio di ali da regalare a tutti gli esseri umani. Ali candide, bigie, magari argentee, che permettessero agli uomini e alle donne di volare via, di allontanarsi da quella terra fredda, desolata, pregna di tristezza.

La commedia è una rappresentazione scenica volta a generare il riso, a far dimenticare, sia pure per un attimo, i problemi della quotidianità. Quando si ride, si abbandona la terraferma, si ascende ad una dimensione fatta di piccoli sprazzi di tempo in cui si smarrisce la realtà delle cose, e con essa ogni forma di ansia e di affanno, annullando così il ricordo di tutto ciò che è spiacevole. Una sana risata ci riporta alla mente la letizia, la gioia, ci permette di accarezzare i lieti momenti, che spesso ci appaiono lontani, perché situati al di là di quella immaginaria linea d’orizzonte in cui ogni essere umano ha relegato la propria felicità, per andare a raggiungerla poi con tanta fatica.

La comicità e la farsa per Stan erano questo: il mezzo per volare via dai problemi, lo strumento per sfuggirgli, un espediente per tentare di soggiogare i drammi della vita.

Stan fece ridere il mondo intero durante gran parte della sua esistenza. E non lo fece da solo. Fianco a fianco a lui, ci fu un amico. Un caro amico, ma che dico, un fratello: Oliver Hardy. Con lui, il signor Laurel formò il più celebre duo comico della storia della settima arte.

Durante il periodo di massima popolarità della coppia, l’umorismo di Stan Laurel e Oliver Hardy conquistò l’affetto di milioni di persone sparse per il globo. L’universo comico di Laurel e Hardy era un susseguirsi di fughe rocambolesche, di amene peripezie, argute trovate in cui l’uomo comune, nelle più variegate vesti di marito, di apprendista operaio, di girovago, spesso di indigente, veniva rappresentato in chiave ironico-grottesca. Stanlio e Ollio rappresentavano, in parte, la condizione umana del loro tempo, misera e aspra, il quotidiano spigoloso e arcigno, facendosene beffa, offrendo a tutte le persone che si recavano al cinematografo non sogni e neppure illusioni ma spontanee risate. (Se ti piacciono le grandi pianole, passa da qui. Stanlio e Ollio hanno una consegna speciale per te).

La comicità di Stanlio e Ollio era tanto allora quanto adesso un toccasana, sia pure momentaneo, capace di rilasciare un immediato senso di appagamento, una sorta di panacea temporanea dei mali che attanagliano l’animo umano. Ridere e far ridere, era questo ciò che importava, la sola terapia palliativa per l’animale uomo, condannato ineluttabilmente a soffrire.

Spesso, Stanlio e Ollio riuscivano a far ridere il proprio pubblico semplicemente ridendo essi stessi. Davanti alla cinepresa, cominciavano a sorridere lentamente, stringendo i denti, come a voler, da principio, soffocare quel riso pronto a scaturire con forza prorompente, simile al getto d’acqua di una sorgente tra le rocce d’alta montagna. Inevitabilmente, poi, il riso prendeva il sopravvento. Stan seguitava a ridere in maniera incontrollata, strillando come una pollastra e picchiettando con il gomito sulla spalla di Ollio, richiedendone la partecipazione e coinvolgendo così l’amico in quel vortice di risate. Il pubblico, osservandoli, non poteva che lasciarsi trascinare da quel clima di sana euforia.

Il riso, come lo sbadiglio, innesca un riflesso condizionato che induce chi si trova a stretto contatto a ridere anch’egli, senza un apparente motivo. Il riso è una sorta di virus contagioso, ma è un virus innocuo. Anzi, è il più salutare. L’allegria fa star bene, riconcilia con il mondo circostante, porta a volare alto nel cielo, un po’ come accadeva in “Mary Poppins” quando la “magica” tata, Bert e i piccoli Jane e Michael si lasciavano trasportare dal riso incontrollato dello zio Albert, salendo su, sempre più su, a sorseggiare del buon thè a qualche metro d’altezza dal pavimento del soggiorno. Zio Albert era sempre di buon umore, e per questo motivo sempre fluttuante, perché libero da preoccupazioni, da angosce, da ansie, insomma da tutti gli affanni delle persone comuni, più costrette che avvezze a vivere la propria quotidianità con i piedi ben piantati per terra. (Ah, quasi dimenticavo, Mary Poppins ti aspetta qui. E, sì, anche qui).

  • Ma io sono un cartone e i cartoni esistono per far ridere la gente!

Tutto ebbe inizio cento anni fa, in quel fatidico 1921. Sul set del cortometraggio “Cane fortunato”, Stan Laurel e Oliver Hardy si incontrano per la prima volta. In quel corto, Oliver appariva tanto diverso da come lo conosciamo tutt’oggi. Il suo faccione rubizzo era coperto da uno spesso strato di trucco, che lo imbruttiva fino a conferirgli un’ovale torva e intimidatoria. E non poteva essere altrimenti, in quella commedia Oliver interpretava un vile delinquente di città, aggressivo e tracotante. Stan, dal canto suo, aveva la sua tipica aria stralunata quando gironzolava senza meta in una grande metropoli, in compagnia di un amico a quattro zampe. Stanlio e Ollio in questo film sono appena un accenno, un abbozzo embrionale, anzi neppure esistono. Nessuno, a quel tempo, poteva immaginare ciò che il futuro aveva in serbo per i due istrioni.

Passarono circa sei anni, intervallati da lavori differenti. Oliver seguitò ad interpretare parti da antagonista nelle commedie più disparate. Dopotutto il suo fisico massiccio ben si prestava a ruoli di contorno, per lo più stereotipati, da corpulento prevaricatore. In quegli anni Oliver era questo, un attore caratterista, il cattivo delle comiche, nulla di più. Neppure uno dei tanti registi che diressero Hardy si accorse del potenziale insito nella fisicità dell’attore, capace di emanare tenerezza e tanta amabilità.

Stan Laurel aveva preso parte a svariate produzioni, il più delle volte come protagonista, ma senza ottenere il successo sperato. Oltre che come interprete, Stan si cimentava nella scrittura e nella regia. Nel 1927, Stan e Ollie torneranno a collaborare davanti alla macchina da presa. Il corto “Zuppa d’anatra” segna l’alba di un sodalizio artistico destinato a segnare la storia del cinema. Per tutta la seconda metà degli anni ’20 del Novecento, Laurel e Hardy forgeranno i loro caratteri somatici sul grande schermo con un complesso e minuzioso lavoro artigianale.

Intagliando nel “legno”, limando un po’ qui e un po’ lì, smussando gli angoli, rimuovendone le scaglie e tutti i frammenti, evidenziando i dettagli dei volti e delle personalità, i due comici inventeranno le loro maschere: Stanlio e Ollio.

Si partì dal “costume”. Stan intuì che i due soggetti, per apparire immediatamente riconoscibili, dovevano avere un dettaglio chiaro e bene evidente, che rubasse facilmente l’occhio agli spettatori. La scelta cadde su un paio di bombette quasi identiche. Stan ricordava che i cappelli a bombetta venivano indossati, solitamente, dai personaggi dei fumetti, divenendo tratti simbolici di questi ultimi. L’intenzione del signor Laurel era quella di rendere Stanlio e Ollio due sagome fuoriuscite da un vero e proprio fumetto, o forse, perché no, addirittura da un cartone animato. E il compito di un cartone – Stan ne era ben conscio - è quello di far divertire la gente.

In effetti, le cadute rovinose, le scivolate improvvise, le case distrutte, le liti inaspettate contro energumeni capitati per caso ricalcano un tipo di comicità cartoonesca, scanzonata e genuina, completamente priva del doppio senso, lontana dalla volgarità e per questa ragione una comicità eterna, universale, cristallina. Stanlio e Ollio sono, a tutti gli effetti, due cartoni animati sfuggiti ai contorni di un foglio bianco, ai singoli e precisi tratteggi di una matita o di un pastello colorato. (Fai un salto qui per incontrare un pericoloso bandito e i suoi fidi scagnozzi).

  • Nessuno riesce a incastrarlo Roger Rabbit!

Oliver Hardy prestò il suo fisico imponente e alquanto rubicondo alla maschera di Ollio, un uomo cordiale ma impacciato, dal viso abbondante, paffuto come quello di un bambolotto, con un baffetto a spazzola atto ad arricchire la parte superiore della sua bocca. La “maschera” di Oliver era quella di un adulto dai modi garbati, eleganti, fanciulleschi ma anche prepotenti nei confronti del suo amico fraterno Stanlio, colpevole di metterlo sempre nei pasticci. Di fatto, pur essendo molto tenero, permissivo e pavido, sovente Ollio si rapporta arrogantemente nei confronti di Stanlio, considerando sé stesso come il membro più intelligente della coppia e l’altro un povero sciocco. Così, Ollio è solito camminare fianco a fianco alla sua inseparabile “spalla” con aria tronfia, dandosi, per così dire, delle arie e pretendendo che gli venga data sempre la precedenza, soprattutto quando c’è da varcare una soglia. Ollio assume, pertanto, l’atteggiamento di uno sfrontato, di uno che non si lascia ingannare o incastrare tanto facilmente. Ma la sua è solamente una perenne illusione, destinata a venire continuamente disattesa poiché Ollio finirà per incorrere di continuo in dolorosissimi incidenti a cui Stanlio si sottrarrà con grande fortuna. 

La “maschera” di Oliver è quella del perpetuo perdente, del “vinto” che ingoia, come pasto unico della giornata, il boccone amaro della sconfitta. Ollio ha spesso un’espressione affranta e malinconica, specie quando si rivolge direttamente alla telecamera, abbattendo la quarta parete e ricercando la complicità degli spettatori che assistono, inteneriti ma festanti, alle sue tragicomiche disgrazie. Su quelle gote pienotte, su quel naso gonfio e quegli occhi tristi, Ollio esprime la rassegnazione dell’essere umano, vittima di un fato avverso, talvolta ingiusto, che si accanisce proprio su chi non lo merita.

  • Già! La proposta! Anche mio zio Thumper aveva dei problemi con la sua "proposta", e doveva prendersi delle pillole grosse così e bere tanta acqua.

Per la creazione del suo alter-ego, Stan mise a punto un lavoro sorprendente. Scelse di adattare su di sé, sulla propria inconfondibile fisionomia, una maschera impreziosita da elementi del tutto particolari: Stanlio è apparentemente un allocco perennemente sulle nuvole, un individuo distratto, lento a capire cosa sta realmente accadendo attorno a lui. Un tipo che riuscirebbe facilmente a scambiare la parola “prostata” per “proposta”, mettiamola così.

Una scelta curiosa, considerando che il signor Laurel era un uomo brillante, arguto e intelligente, rapidissimo nell’escogitare una battuta su due piedi e lesto nell’invenzione della gag comica. Stan era anche un tipetto meticoloso, un lavoratore infaticabile, un artista a tutto tondo, capace di ideare, progettare, scrivere, recitare e montare i film della coppia. Dunque, Stan poteva essere descritto come un essere dalle mille risorse, attore profondamente espressivo e comico dalla fantasia smisurata. Perché, quindi, creare per sé un personaggio all’apparenza così candido e ingenuo? Beh, forse perché “Stanlio” incarnava la parte più opposta di “Stan”.

Il signor Laurel scelse per il suo personaggio la maschera contraria a quella che era la sua vera personalità: lui, così intelligente, così sagace creò per sé un personaggio infingardo, smaliziato. Stanlio era una figura leggera, scanzonata, modesta, Stan invece era un perfezionista, maniaco del lavoro. Nella sua maschera comica, Stan trasferì la rilassatezza e la spensieratezza che egli non poté avere nella sua vita reale.

Come il possente Superman, che finge nella vita di tutti i giorni di essere il mansueto e timido giornalista Clark Kent, la maschera umana necessaria per nascondere l’autentica personalità del supereroe, fatta di astuzia e di incredibile audacia, Stan delineò la sua maschera cinematografica come un “costume” che più rimarcasse la differenza con il suo vero “io”. Così, se l’invincibile Superman simula d’essere un uomo comune, insicuro e goffo, il geniale e creativo Stan recita d’essere Stanlio, un personaggio a prima vista lento di comprendonio, pauroso, infantile, e di certo poco lungimirante. (L'ultimo figlio di Krypton sta volando qui, a Metropolis).

Eppure, ogni tanto, Stan lasciò emergere la parte nascosta del suo vero “io”, la sua mente geniale. Talvolta, infatti, nei vari film, Stanlio ha momenti in cui elabora piani articolati, furbi ed effettivamente acuti, salvo poi, solo dopo qualche istante, non riuscire a ricordarli più, tentando di ripeterli a voce alta e confondendo gran parte delle sue idee. Una gag studiata a tavolino, un piccolo sotterfugio, chi lo sa, elaborato proprio dal signor Laurel per lasciare emergere, di tanto in tanto, il suo acume. Un momento di libertà, in cui dalla maschera di “Stanlio” fuoriusciva il volto di “Stan”, un po’ come è solito fare il Superman di Christopher Reeve, in quei rari attimi in cui non viene osservato sul luogo di lavoro, la redazione del Daily Planet, e lancia il suo borsalino sul porta cappelli centrandolo al primo, chirurgico colpo.

  • Nessuno sa incassare le botte come Pippo! Che tempismo! Che tocco! Che genio!

La comicità di Stanlio e Ollio era genuina, scevra da costrutti ideologici o intenti critici rivolti alla classe dirigente. Era principalmente ciò che appariva: comicità creata con il solo intento di far ridere. Per lo più non vi erano messaggi nascosti, denunce occultate, metafore celate dietro un particolare gesto o una situazione. Stanlio e Ollio erano così come apparivano: autentici, sinceri, incapaci di mentire o di sottintendere. Eppure, dietro molte delle loro storie, al di là delle loro disavventure, era possibile percepire e assaporare un mondo vasto ed eterogeneo, carico di sentimento, di spirito, di riflessioni sociali, talvolta anche involontarie, messe in atto dalla coppia nelle loro opere. A cominciare dalle loro personalità.

Stanlio e Ollio sono due bambini nel corpo di due adulti, creature profondamente altruiste e innocenti, bistrattate e derise dai più. Persone intimamente candide, incapaci di provare disprezzo e di compiere cattiverie. Essi possiedono un animo puerile, ma la loro infinita bontà viene schernita o mai del tutto compresa dagli adulti che incontrano lungo le loro tante peregrinazioni. Spesso e volentieri, Stan e Oliver sono i reietti, i dimenticati, le povere vittime della Grande depressione americana, non hanno un soldo in tasca e faticano terribilmente a integrarsi nella società. Vorrebbero dare il loro contributo con il sudore della fronte, ma è proprio il mondo del lavoro a giudicarli troppo inetti e maldestri. Mossi da un’ignara anima distruttrice, Stanlio e Ollio, ogniqualvolta si apprestano a svolgere un compito, finiscono poi per distruggere del tutto ciò che cercavano di accomodare o di incendiare una stanza che tentavano di rassettare; e così l’attività professionale che faticosamente avevano trovato per mettere del pane sotto i denti naufragherà tragicamente, come, del resto, tutte le loro giornate, trascorse all’insegna di una disavventura, di un contrattempo, di un litigio, di un imprevisto.

La società americana, organizzata secondo ben determinate convenzioni sociali rappresentate dall’avere un buon lavoro, una casa accogliente, una famiglia affiatata, veniva, sovente, osservata con distacco da Stanlio e Ollio, i quali provavano in tutti i modi a farne parte integrante, senza esserne all’altezza, perché troppo inadatti e incapaci di svolgere un qualsiasi impiego o di mantenere un equilibrato rapporto matrimoniale. Già, il matrimonio! Per Stanlio e Ollio era una dannazione.

Immagine tratta da "I figli del deserto". Potete leggere di più cliccando qui.

Con le donne proprio non ci sapevano fare. E allora perché prendevano moglie? Beh, è ovvio: perché finivano per innamorarsi! E per seguire il dettame sociale, convolavano a nozze divenendo mariti di donne risolute, tiranniche, severe e inclini al comando.

A tal proposito, quasi tutte le opere del duo comico sembrano permeate da un’ironica “misoginia”: le donne di Stanlio e Ollio, aggressive e burbere, simboleggiano quella maturità che i due personaggi respingono con tutte le loro forze. Le donne amate da Stan e Oliver sono spesso belle ma isteriche, disperate e impossibilitate a capire l’immaturità dei loro partner. Il mondo femminile, imperscrutabile, viene reinterpretato da Stanlio e Ollio come una dimensione adulta e oppressiva, un qualcosa che tenta di limitare e ingabbiare la loro infantile anarchia.

Stan e Oliver non erano semplici attori ma personaggi veri e propri calati in storie sempre nuove e in contesti diversificati. Andando al cinema, gli spettatori in sala non si aspettavano di vedere Laurel e Hardy in ruoli differenti, d’altronde Stanlio e Ollio erano loro, erano le loro maschere, i loro costumi, le loro personalità. I film erano contorni, costruiti attorno alle loro gag, potremmo dire un qualcosa di superfluo, poiché erano i due interpreti il vero fulcro di tutto il sistema.

Quella di Laurel e Hardy era una comicità classica, basata sul linguaggio del corpo, sull’inciampata rovinosa, sulla circostanza esilarante che vedeva i personaggi coinvolti in disastri da loro stessi generati, una comicità eterna e inscalfibile. Per questa ragione, a distanza di novant’anni, Ollio che scivola su una buccia di banana continua a far ridere, così come continua a strappare un sorriso Stan che batte la testa contro un ostacolo che proprio non aveva fatto in tempo a vedere.

Vi è però un alone drammatico ad avvolgere le commedie di Stanlio e Ollio. Noi spettatori non facciamo che ridere con loro, sequenza dopo sequenza. Ridiamo quando Ollio viene percosso dal prepotente di turno, quando Stan piange perché spaventato da un brutto evento o dal sopraggiungere di un energumeno voglioso di fare a botte. Non facciamo che ridere, incidente dopo incidente, scazzottata dopo scazzottata, sopruso dopo sopruso.

Ebbene è proprio qui che la comicità del duo, oltre a generare il riso, indugia su una riflessione più triste e malinconica. Quando Ollio cade a terra, si fa male. Quando Stan piange, lo fa perché è sconvolto e terrorizzato. Eppure noi sorridiamo, senza accorgerci che stiamo ridendo della sventura di due malcapitati. Stan e Oliver sono vittime di un mondo oscuro, violento, pericoloso, nel quale non c’è spazio per i più deboli. L’esistenza riserva soltanto amarezze alla coppia di amici, percuotendoli giorno per giorno. Nessuno sembra incassare i colpi che la vita ha in serbo come riescono a fare Stanlio e Ollio, con il loro tempismo, il loro inconfondibile tocco, la loro arte innata.

Nel cortometraggio “Sotto zero”, ad esempio, è divertente vedere Ollio farsi picchiare da una donna alta e nerboruta, che manda in frantumi sulla testa del povero sventurato il suo violoncello. Ridiamo di gusto guardando ciò. Ma poi ci ricordiamo che Ollio è uno squattrinato in quel film, senza neppure un tetto sulla testa, e in quel momento suonava per chiedere l’elemosina. Di fatto, abbiamo riso di un uomo a cui è stata tolta in malo modo l’unica possibilità che aveva per guadagnarsi qualche soldo. Osservando la medesima scena, è piacevolissimo assistere alla donna che getta la pianola di Stanlio in mezzo ad una strada innevata, ed è ugualmente divertente guardare come la pianola venga distrutta quando un’auto ci passa sopra. Stanlio piange, sconfortato, e non fa altro che indurci al riso. E’ quello il suo intento. Ma noi ridiamo di un uomo a cui è stato sottratto un oggetto prezioso, e che si dispera per quella perdita. La comicità di Laurel e Hardy è così geniale, sensibile, straordinaria da far ridere di primo acchito ma intenerire subito dopo, quando si osserva il tutto con un occhio più attento, desideroso di cogliere qualche dettaglio in più.

Con Stanlio e Ollio si prova a ridere delle ingiustizie, della sofferenza, della delusione amorosa, del matrimonio fallito, del licenziamento subito, del fallimento esistenziale. Si mette alla berlina la ricchezza ristagnando nella povertà.  

  • Non vi ricordate cos'è successo la volta scorsa? Se non la smettete di ridere, farete la stessa fine di quelle idiote delle vostre cugine, le iene ridens!

Alla società del loro tempo Stanlio e Ollio non offrivano speranze o velleità ma soltanto risate, distrazioni temporanee. Sebbene si rida in maniera spontanea e si creda che le avventure di Laurel e Hardy siano sempre all’insegna del buon umore, esse raramente simboleggiano un inno alla felicità assoluta. Basti notare che i film di Stanlio e Ollio non finiscono mai bene. Il lieto fine è pura utopia.

Vi è sempre un caduta funesta, una lite furibonda, una fuga perniciosa, una minaccia incombente a far calare il sipario sull’avventura di Laurel e Hardy. I due non raggiungono mai alcun successo, non ottengono mai la ricompensa sperata né vengono premiati per i loro meriti o quando si mettono in luce per il loro coraggio. Questo perché le loro comiche erano, allora e lo sono tutt’oggi, fatte di peripezie quotidiane. Il viaggio di Stanlio e Ollio è una marcia senza esito e senza vittoria, priva di speranza e scevra dall’happy ending.

Le loro opere non erano fiabe con un finale allegro, ma racconti in cui si doveva ridere quando si poteva farlo, quando la vita ne concedeva l’opportunità. E bisognava coglierla con destrezza. La gioia, di per sé, è sempre momentanea e non eterna come il “vissero tutti felici e contenti” vuol farci credere. (Segui il Bianconiglio, passa da queste parti per incontrare Alice e visitare il Paese delle Meraviglie).

  • Noi cartoni facciamo gli scemi, ma non siamo mica stupidi!

Eppure, Stanlio e Ollio non sempre disdegnarono il mondo fatato e favolistico. Un tempo finirono addirittura in un villaggio popolato da creature magiche. Quaggiù, le maschere di Stanlio e Ollio assunsero una valenza “incantata”; esse divennero volti di fanciulli catapultati in un contesto fiabesco e sognante. 

La pellicola del 1934 “Nel paese delle meraviglie” inizia con una canzone intonata da Mamma Oca. Alle spalle della donna campeggia un grosso libro, dalla copertina spessa e variopinta, che comincia ad aprirsi. Fra le sue prime pagine, vi è un’immagine in movimento che mostra Stan e Ollie riposare in un soffice letto, addormentati come due bambini.

Una piuma, dondolata dall’aria, scende giù e sta per poggiarsi sui loro volti sereni. Il russare di Ollio rimanda la piuma verso l’alto, che cambia subito direzione e fa per avvicinarsi al viso di Stanlio. Il respiro di quest’ultimo la rimanda ancora una volta su, verso il faccione di Ollio. Il forte ronfare di Oliver scaccia nuovamente la piuma che torna in aria, cercando maggior fortuna da Stanlio. Una danza che continua imperterrita.

Come accade in “Forrest Gump”, pellicola del 1994, anche nel film di Laurel e Hardy, “Nel paese delle meraviglie”, è il volteggiare di una piuma bianca a segnare l’inizio di una storia meravigliosa. In “Forrest Gump”, la piuma, così delicata e lieve, vaga di albero in albero, da un quartiere ad un altro, posandosi, infine, a pochi passi dal protagonista, che la raccoglie e la conserva con cura all’interno della sua valigia. Quella piuma, dall’eterea consistenza, rappresenta la levità, la dolcezza del personaggio principale dell’opera, Forrest per l’appunto, libero come l’aria e tenue come una piuma che viene sospinta dalla fresca brezza.

In egual modo, potrei supporre che - nel film di Laurel e Hardy - quella piccola piuma, fuggita da un cuscino strappato, sembri simboleggiare la leggiadria del duo, la bontà, la delicatezza dei loro spiriti, anch’essi liberi e candidi. Volteggiando di viso in viso, la piuma finisce per essere accidentalmente ingerita da Stanlio, senza che questi ne risenta fin troppo. Egli non si desterà dal suo sonno, ma seguiterà a dormire un po’ stranito.

Il canto di Mamma Oca termina con un ultimo acuto e la camera irrompe fra le pieghe del librone, proiettando gli spettatori nel villaggio incantato.

A Balocchia, Stanlio e Ollio esercitano la professione di costruttori di giocattoli. L’ultima creazione a cui hanno collaborato è davvero meravigliosa: un intero esercito di cento soldati di legno, alti come un essere umano. I soldati indossano un chipì sulla testa e una divisa rossa, adornata da spalline dorate e bottoni tondi come una grande moneta. Essi imbracciano una baionetta color argento, e dietro la schiena sono tutti dotati di un pulsante. Una volta premuto, i soldati “prendono vita”, avanzando fieramente senza mai fermarsi. Quel mattino, Babbo Natale giunge alla fabbrica dei giocattoli per visionare i suoi militi in divisa. Invece della solita guarnigione di soldatini scopre una truppa talmente imponente da restarne stupito. A quel punto, Babbo Natale eccede in una fragorosa risata. “Ma non hai capito niente, Stanlio. Io avevo ordinato 600 soldatini di legno dell’altezza di un piede. Io non posso dare ad un bambino dei soldati così grandi per giuocare”. (A proposito di soldatini. Ce n'è uno, molto coraggioso, quaggiù).

Udendo queste parole Stan e Oliver giacciono di stucco, delusi come al solito dalla loro inettitudinePer il loro errore, i due vengono licenziati in tronco e sbattuti fuori dal costruttore capo, non prima di aver cercato di riporre ogni soldato nella propria custodia. L’intero esercito verrà poi trasferito nel magazzino, e lì resterà a coprirsi di polvere. A fine giornata, Stan e Ollie faranno ritorno alla loro dimora.

I due alloggiano all’interno di una casa a forma di scarpa, insieme alla signora Peep e a sua figlia, la pastorella Bo Peep. La dolce fanciulla è vittima delle attenzioni indesiderate di Barnaba, un impresario avido e malvagio, a cui la signora Peep deve una grossa somma di denaro. Per estinguere il debito, Barnaba propone alla signora Peep di concedere la mano di sua figlia, Bo Peep, innamorata, però, del bel Tom Tom, figlio del Pifferaio Magico. L’anziana donna rifiuta categoricamente, contando sull’aiuto di Stanlio e Ollio.  

L’antagonista di questa fiaba natalizia, Barnaba, cammina ricurvo, appoggiandosi ad un bastone dalla forma contorta, e porta sul capo un cappello a cilindro nero. Barnaba somiglia ad un personaggio nato dalla penna di Charles Dickens. Il mento pronunciato, il naso aquilino, gli abiti lievemente eleganti e scuri e il carattere così avido e malvagio, fanno rassomigliare Barnaba ad Ebenezer Scrooge, il personaggio cardine del celebre “Canto di Natale” dello scrittore britannico. (Scrooge e i suoi fantasmi ti stanno aspettando proprio qui).

A differenza di Scrooge, che avrà la fortuna, al ridosso delle festività natalizie, di ricevere la visita di tre spiriti che gli permetteranno di comprendere gli errori commessi e di redimersi, Barnaba è un personaggio negativo fino in fondo, bramoso e spregevole. Desideroso di mettere le mani sulla bella Bo Peep, Barnaba finirà per escogitare un piano subdolo. Egli farà in modo che Tom Tom venga processato per un crimine non commesso ed esiliato a Bobilandia, una regione situata oltre i confini del regno, in cui vivono mezz’uomini mostruosi e famelici.

Non riuscendo ad accettare la perdita del proprio innamorato, Bo Peep si dirige di soppiatto a Bobilandia, ricongiungendosi con Tom Tom in una grotta. Felici ma stanchi, i due innamorati cadono addormentati. Qualche ora dopo vengono trovati da Barnaba, che non si lascia sfuggire l'occasione per cercare di prendersi la ragazza. Destatasi dal sonno, Bo-Peep, nel vederlo, lancia un urlo di terrore, svegliando Tom Tom. Il giovane ingaggia una lotta furibonda con Barnaba, stendendolo a terra. La coppia scappa, inseguita dal reo, il quale, accecato dall’ira, chiamerà a sé le misteriose creature che dominano Bobilandia, ponendosi alla testa di un’imponente e furiosa armata che muove verso il villaggio incantato. Toccherà a due improbabili eroi, Stanlio e Ollio, salvare la fanciulla, il suo amato e l’intero paese delle meraviglie.

Così il duo raggiunge Bobilandia, imbattendosi nei mostri che la presiedono. Le creature del film, dall’aspetto di uomini-bestia, dotati di una fitta peluria, fauci larghe e denti aguzzi e che vivono in una terra fatta di buio ed ombre, lontane eppure vicine alla popolazione della “superficie”, somigliano ai Morlock, le creature raccapriccianti presenti nel lungometraggio “L’uomo che visse nel futuro”, opera di fantascienza tratta dal romanzo di H.G. Wells.

In questa pellicola del 1960, il protagonista George Wells inventa una macchina del tempo. Con essa, lo scienziato intraprende tutta una serie di viaggi straordinari, giungendo sino al futuro. In un’epoca lontana e distopica, George trova dinanzi a sé un mondo ridotto in miseria, una realtà post-apocalittica sconvolta dalle guerre. Sulla superficie terrestre vivono dei sopravvissuti, gente divenuta oramai per lo più apatica, analfabeta, indifferente. Sotto la “crosta”, però, vivono esseri ben più inquietanti e spaventosi: i Morlock. Discendenti della razza umana, sconvolti e mutati nell’aspetto, i Morlock sono individui che vivono nel sottosuolo, hanno sviluppato occhi luminosi e si cibano di esseri umani, hanno zanne possenti e una peluria foltissima.

Abitando nell’oscurità, avendo arti affilati, denti ferini e manti densi, i Morlock possono, in un certo senso, essere paragonati agli abitanti che confinano con il paese delle meraviglie della pellicola di Laurel e Hardy, anch’essi orripilanti, pericolosi e animaleschi, minacce respinte e recluse in luoghi tenebrosi che gli uomini si guardano bene dal percorrere.

Barnaba trascinerà le creature sino alle porte del villaggio, invadendolo. Stanlio e Ollio le affronteranno come potranno, fino a che Stan avrà una brillante idea: i due daranno “vita” ai loro soldatini di legno, che avanzeranno con la loro baionetta verso il nemico.

D’un tratto, le porte del magazzino di giocattoli si spalancano: i soldati in testa suonano la carica con le loro trombe dipinte d’oro ed i tamburini percuotono i loro tamburi, scandendo il ritmo della battaglia. Alle loro spalle, i militi con i fucili argentati iniziano la marcia, volgendo, diritti e ordinati, verso il centro del villaggio. La "fanteria" si abbatte sui mostri, spazzandoli via come un’inarrestabile inondazione.

La scena in cui i soldati rossi vengono attivati, e cominciano a muoversi quasi per magia, somiglia all’emozionante scena finale del classico disneyano “Pomi d’ottone e manici di scopa”. In quest’ultima pellicola, la strega Miss Price, con un incantesimo, dà coscienza e movimento ad un esercito di armature.

Gli stendardi vengono sollevati in alto, le bandiere svolazzano, mosse dal tocco del vento, gli scudi brillano sotto il chiaro di luna. Le armature argentate s’innalzano su di una collina verde e sguainano le spade. Ardite e fiere, esse affrontano gli eserciti tedeschi del Terzo Reich, respingendo l’invasione lungo le coste inglesi. Come accade in “Pomi d’ottone e manici di scopa”, anche nel film di Stanlio e Ollio, “Nel paese delle meraviglie”, un semplice tocco di “magia” anima le forze del bene incarnate da combattenti silenti e dormienti, che sconfiggono il male.

Sul finire delle vicende, Stanlio e Ollio vengono accolti come i salvatori del paese delle meraviglie. Una gioia per loro, seppur caduca.

"Due menti senza un singolo pensiero." - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Non erano di certo due inetti, Stanlio e Ollio. Facevano gli sprovveduti ma non erano mica stupidi! Avevano tratto in salvo un intero villaggio, con le loro creazioni. Così come avevano salvato, e continuano ancora oggi a farlo, il mondo intero. Giorno per giorno. Facendolo ridere. Già, proprio così!

La risata, quella strana sensazione, così spontanea e dirompente, spesso è l’unica arma che ci rimane.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters  

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Svegliarsi di buon ora, dopo aver trascorso una serata deludente, non è mai facile. Quando le prime luci del mattino irrompono dalla finestra e i nostri occhi si schiudono, si torna a pensare. Le delusioni si manifestano in noi sotto forma di idee astratte, di pensieri poco confortevoli. “Che rammarico!” si è soliti sussurrare tra sé e sé. “Sarebbe potuta andare diversamente, se solo…” si borbotta, a volte.

Se la serata è andata storta, il mattino seguente non si ha proprio voglia di cominciare una nuova giornata. Di solito si preferisce starsene a letto, con il capo sotto le coperte. Sebbene conferisca una sensazione confortevole al nostro carattere offeso, rimanere distesi a poltrire non è la scelta giusta. Meglio alzarsi di scatto, fiduciosi che il vento cambi, che la ruota giri, che ogni cosa, insomma, possa migliorare. In un certo senso è ciò che facevano anche Stanlio e Ollio, e più spesso di quel che si pensi.

Durante una famosa tournée teatrale, Stanlio e Ollio dovettero spesso alzarsi all’alba e a seguito di serate non particolarmente piacevoli. In quelle settimane, i loro spettacoli non raccoglievano il successo sperato. Platee semivuote, palchetti lasciati liberi accoglievano le loro entrate in scena, e un’esigua frotta di curiosi assisteva, per nulla coinvolta, ai loro siparietti. Cosa stava accadendo? Invero, gli anni d’oro erano giunti al termine ma Stan e Ollie non volevano saperne di arrendersi. D’altronde, tenacia e fanciullesca speranza avevano sempre fatto parte di loro. Stan Laurel e Oliver Hardy vagavano, sballottati, di teatro in teatro per tutta l’Europa, ancora speranzosi che i loro nomi, un tempo così luminosi, potessero tornare a brillare sulle insegne dei cinematografi di tutto il mondo.

Un mattino, dopo aver avuto una pessima serata, Stanlio e Ollio si recarono alla stazione. No, nient’affatto, non restarono a dormire nei loro letti, anche se, in cuor loro, lo avrebbero voluto. Erano entrambi visibilmente molto delusi. A teatro, il giorno prima, si era radunata una folla decisamente “striminzita”. Ollio, ironicamente, disse che se avessero voluto, avrebbero potuto ospitare tutto il pubblico lì presente nel loro albergo e sarebbero avanzate anche delle camere.

In quel dì, il treno sarebbe arrivato alle otto, e i due, mattinieri non per scelta, stavano per raggiungere la pensilina, impegnati a trasportare, su per una scalinata, un ingombrante baule.  Oliver lo spingeva da sotto mentre Stan cercava di tirarlo dall’alto.

Una volta guadagnato il piano superiore, Stan mollò la presa e il baule precipitò giù. Ambedue, stanchi e affaticati, lo guardarono, sconsolati, giacere lontano e, quasi quasi, si misero a valutare l’eventualità di lasciarlo là dove era andato a finire.

Ci serve davvero quel baule?” – chiese, desolato, Oliver. Stan, che aveva colto l’ironia della situazione, sorrise amaramente.

"Stan e Ollie" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più sul film del 2018 cliccando qui.

Questa particolare disavventura fin qui descritta viene mostrata nel film biografico “Stanlio e Ollio”. Tale sequenza non è altro che una sottile e furbesca citazione ad una delle pellicole cinematografiche più celebri del duo comico. Il sudore che gronda dalla fronte di Laurel e Hardy, la fatica nel percorrere quella lunga “gradinata” trainando, come ciuchini sfruttati e malridotti, quello scomodo baule sono arguti tributi, rimandi che ossequiano un momento preciso della carriera artistica di Stanlio e Ollio. Il momento in cui i due dovettero “scortare” un grosso pianoforte a mani nude su per una ripida e “tortuosa” scalinata.

La scena trattata sino ad ora è un omaggio al cortometraggio “La scala musicale”, una delle opere più belle e esilaranti della coppia comica per eccellenza.

Gli anziani Stanlio e Ollio che spingono quella valigia voluminosa come una bislacca cassapanca, richiamano il loro rispettivo alter-ego immaginario. Nel film biografico, realtà e finzione, cinema e vita quotidiana si amalgamano tra loro, creando un affresco malinconico in cui Stanlio e Ollio, prossimi al loro canto del cigno, ripercorrono i momenti più importanti della loro vita trascorsa fianco a fianco davanti ad una cinepresa che li ha immortalati in centinaia di traversie, consegnandoli alla storia. 

Stanlio e Ollio girarono “The music box” nel 1932, per l’attenta regia di James Parrott. Molto apprezzata dal pubblico e dalla critica, l’opera in bianco e nero vinse il premio Oscar come miglior cortometraggio.

La scala musicale” è una di quelle pellicole che non si dimenticano tanto facilmente, che restano indelebili nella memoria per la spiccata capacità di far ridere genuinamente. Un’attitudine che il cortometraggio mantiene immutata, a quasi novanta anni di distanza. “La scala musicale”, come già accennato, narra del maldestro trasporto di un pianoforte in un appartamento posto in cima a una lunga scalinata. La vicenda, già portatrice in sé di una certa ilarità, presta il fianco ad ogni sorta di gag comica al limite dell’assurdo.

Tutto ha inizio una mattina qualunque. Stanlio e Ollio si sono da poco improvvisati trasportatori di fortuna. In “sella” ad un ronzino, giungono ai piedi di una stretta “scalea”. Subito si mettono all’opera, afferrando con sostenuto impegno la pianola meccanica custodita in una struttura di legno. Questo pesante e imponente strumento è stato commissionato dalla signora von Schwarzenhoffen, la quale desidera farne dono al marito, il professor Theodore von Schwarzenhoffen. Or dunque, Stanlio e Ollio si rimboccano le maniche ed iniziano l’ardua ascesa.

Tanti sono i gradini che li separano dalla meta, ma i due non demordono. Durante la disagevole scalata, Laurel e Hardy s’imbattono in svariati personaggi che non faranno altro che rendere ancor più difficile il loro compito. Spesso, i due saranno costretti a ricominciare da capo, a salire e a scendere svariate volte. Non appena si distrarranno un attimino, la pianola scivolerà via dalle loro mani, obbligandoli a inseguirla avanti e indietro per il “tracciato”.

Di tanto in tanto, Stanlio e Ollio si soffermano a ridosso di un “pianerottolo” che lo separa, con una manciata di gradini, dall’altro, cercando di riprendere fiato. In queste brevissime pause, il pianoforte resta lì, apparentemente immobile, frapponendosi tra i due. Lo strumento musicale non è che un mero oggetto e, per tale ragione, risulta essere del tutto privo di vita. Eppure, le ruote che ha alla base gli permettono di muoversi, di sgusciare dalla presa e “fuggire” via. Il pianoforte, così, sembra essere dotato di un movimento proprio.

In un particolare momento, Ollio darà le spalle alla grande pianola poiché sarà costretto a scendere giù per interloquire con un poliziotto. Lo strumento musicale, rimasto saldo e fermo al suolo, d’un tratto, scenderà giù in picchiata, come se volesse, di sua iniziativa, colpire l’ingenuo malcapitato.

Il pianoforte del cortometraggio sembra essere dotato di una bizzarra forma di “ragione”. Esso, quasi volutamente, sgattaiola via e non soltanto perché la gravità lo richiama a sé, facendolo cascare giù, sino alla strada. Lo strumento pare fare tutto di propria volontà, soltanto per farsi beffe dell’impegno, della dedizione, della fatica di Stanlio e Ollio. Il pianoforte rappresenta l’imprevedibilità della sfortuna, l’illogicità di un fato contrario che si accanisce sui due poveri sventurati. Quel pianoforte è uno strumento “diabolico”, sadico, che deride laconicamente i due protagonisti, obbligandoli a fare gli straordinari.

Nel film “Avventura a Vallechiara”, Stanlio e Ollio si troveranno nuovamente obbligati a trasportare un pianoforte alla volta di una baita isolata. I due dovranno attraversare un ponte pericolante, sospeso su di un crepaccio di montagna.

La scalinata così alta, “scoscesa”, è una metafora dell’esistenza umana, fatta di tratturi impervi, di arrampicate ardue, di lavori usuranti, al compimento dei quali non sempre viene riconosciuto e apprezzato agli interessati quanto è stato fatto. E’ ciò che, per certi versi, accadrà a Stanlio e Ollio. Tra tragici imprevisti, i due riusciranno a portare il pianoforte nella casa del professore Schwarzenhoffen. Tuttavia, lo strumento verrà distrutto in un impeto di rabbia dall’uomo. Tale gesto non è che il simbolo di come l’impegno profuso da Stanlio e Ollio non porti mai ad alcun traguardo né ad alcun trionfo. E’ questo il costante destino che affligge Laurel e Hardy in ogni loro film: finire sempre per essere inseguiti, banditi, scacciati, offesi, denigrati e mai rispettati dai facoltosi, dai benestanti. Stanlio e Ollio sono condannati, dall’ingiustizia, ad appartenere al ceto inferiore, quello eternamente dimenticato: la classe degli squattrinati felici, di coloro che seguitano a sorridere sebbene la vita li obblighi a restare perennemente in bolletta.

 “La scala musicale” col suo ritmo, con la sua freschezza, col suo dinamismo, mette in mostra peculiarità originali, all’epoca assolutamente innovative e temerarie, che rendono quest’opera filmica un’autentica pietra miliare del cinema comico.  

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters     

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"Stan e Ollie" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Ridere è un’aberrazione! Ci fu chi lo credette davvero. Costui sosteneva che il riso fosse un soffio demoniaco, alitato dal diavolo a discapito del comune zolfo. Il riso, seguitava ad affermare tal figuro, è un vento diabolico che deforma il viso degli uomini, rendendoli simili alle scimmie. Eppure, chi contraddì queste bislacche affermazioni rispose che le scimmie non ridono e che il riso è proprio dell’uomo. La burla, lo scherzo, la giocondità, l’ironia sono sinonimi dell’intelligenza, sintomi dell’acume umano. Perché, dunque, denigrare il ghigno, la beffa, la risata? Perché esso, il riso, annienta la paura!

E questo non sarebbe un pregio? Beh, per colui che proferì quelle credenze iniziali tutt’altro. Tutto si consumò centinaia e centinaia di anni or sono, in un’antica abbazia benedettina. Ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco, Jorge da Burgos era un bibliotecario cieco. I suoi occhi dalla sclera slavata erano vuoti, spenti, e somigliavano a frammenti vitrei su cui nessun riflesso poteva esser scorto. Il volto di quel monaco era seminascosto da un cappuccio scuro, i suoi denti erano gialli e per la maggior parte mancanti. Egli era austero, freddissimo, malvagio. Ripugnava la giocosità, l’allegria come fossero un male da estirpare. Nessuno, secondo il suo volere, avrebbe dovuto scoprire cosa fosse il riso indotto, l’arte di far ridere spontaneamente con sagacia e abilità. Nessuno avrebbe dovuto rinvenire e sfogliare il Secondo Libro della Poetica di Aristotele. Questo volume giaceva, celato, proprio nell’immensa biblioteca di quel monastero. Fra quelle pagine, avvelenate dallo stesso religioso, il filosofo greco esaminava la Commedia, considerandola come uno strumento di verità, di riflessione.

Invero, non sono pervenute a noi tracce di questo secondo manoscritto di Aristotele. La Poetica del filosofo è, infatti, giunta incompleta, ed essa tratta la Tragedia e l’Epica. Supponendo la tangibile esistenza di questo secondo manoscritto, Eco stese la propria storia. In un passo del romanzo, frate Guglielmo varca la soglia della biblioteca, un dedalo di scale e cunicoli, e trova il libro in questione. Comincia, allora, a leggerlo con molta cautela. In quella breve e rapida lettura, Guglielmo scopre il presunto parere di Aristotele in merito alla Commedia. Essa, al pari della Satira e del Mimo, suscitando il piacere del ridicolo, perviene alla purificazione di tale passione. Come la Tragedia anche la Commedia adempie, dunque, alla catarsi.

Fantasticando sulla possibilità che il Secondo Libro della Poetica riportasse quando è stato ripetuto ad alta voce da Guglielmo, potremmo certamente affermare che, stando al pensiero di Aristotele, mediante l’ilarità, la letizia, l’uomo può giungere a comprendere, a capire il vero, il bello, la vita stessa, magari. Non è, quindi, soltanto con la seriosità, col dramma, con le peripezie proprie della Tragedia che è possibile guadagnare la catarsi. Anche la Commedia, la Grande Commedia aristofanea, permette di ottenere una epurazione. Una purificazione differente, unica, generata dall’idillio gioioso che genuflette l’uggia di una mente crucciata.

Nel secolo in cui Umberto Eco volle ambientare il proprio romanzo, ridere era un’attività proibita, poiché essa abbatteva il timore, e senza il timore non vi era fede. Il tomo occultato con rabbia, con livore, con follia dal bibliotecario, si tramuterà in uno strumento di morte, un artificio contaminato dal monaco. Chi avesse letto le parole di Aristotele sarebbe morto, come se fosse stato redarguito e punito da una fantomatica giustizia divina contraria alla perpetuazione del riso. Jorge da Burgos considerava il potere intriso nell’inchiostro di quel libro estremamente pericoloso poiché, un giorno, quelle parole sarebbero echeggiate, l’ironia sarebbe divenuta una fonte d’espressione consueta che avrebbe portato a ridere di tutto, anche di Dio. Il libro, quel Libro, secondo quanto temuto dall’anziano frate, avrebbe ucciso il credo antico. Una frase, quest’ultima, che risuona simile anche nei versi intonati da un’altra figura religiosa, in un’opera del tutto diversa. Claude Frollo, l’arcidiacono della cattedrale parigina di Notre-Dame, nel musical popolare ispirato al capolavoro letterario di Victor Hugo, esterna la propria paura sull’inevitabile forza del libro, declamando: “La stampa imprimerà la morte sulla pietra, la Bibbia sulla chiesa e l’Uomo sopra Dio”. La scrittura, al di là della Commedia stessa, dà la possibilità all’uomo di ragionare, di riflettere, di studiare, di elevare la propria cultura e non renderla più soggetta al timore reverenziale, alla paura che, nell’antichità, rendeva vana la stessa religione, abbracciata per pavidità e non per vera fede.

Il riso, come già accennato, spezza le catene, rompe il giogo della schiavitù. Quando si ride, quando si è felici, anche per flebili istanti, per pochi attimi d’oblio, di dimenticanza, non si è più prigionieri della mestizia, dell’angoscia, dell’afflizione che è, anch’essa, propria dell’essere umano. Saper ridere è un’abilità che custodisce in sé una virtù, quella di rendere la vita lieta e piacevole. Far ridere, invece, ancor di più, è un talento prezioso che permette di donare felicità e spensieratezza agli altri. Cosa c’è di più generoso che voler far sorridere qualcun altro?

Chi scrive una commedia, chi riesce ad interpretarla, è un dispensatore di gaiezza, di voglia di vivere, in altre parole: un servo di Aristofane. Con la Commedia, noi tutti riusciamo ad allontanare temporaneamente gli affanni, sorvoliamo, per pochi ma rinvigorenti attimi, i problemi che ci assillano, che rimbombano fra le pieghe della nostra coscienza. Senza commedia saremmo perduti, senza il riso saremmo gelidi automi. Aristotele lo sapeva, lo aveva dedotto, pur classificando la Commedia fra i generi inferiori.  La Commedia attua una mìmesis, un’imitazione. E chi emula, quali personalità mima la Commedia stando ad Aristotele? Le persone che valgono meno. Oggi, diremmo i reietti, i non realizzati, gli esclusi, i dimenticati, i disgraziati, i poveri della società. In definitiva: le caricature interpretate da Stanlio e Ollio.

Derelitti, rifiutati, discriminati, in quanti altri modi potevano essere descritti i personaggi di Stan Laurel e Oliver Hardy? Erano i negletti, i respinti da ogni comunità, gli pseudo altruisti, gli ingenui, i sentimentali, i buoni costretti a fronteggiare gli arroganti e i maligni. Stanlio e Ollio erano soli, sempre soli, ma avevano, perlomeno, una grande fortuna: la loro amicizia.

In “Stan e Ollie”, film biografico del 2018 dedicato alla più celebre coppia comica della storia della settima arte, vi è un suggestivo momento, quello in cui Stan Laurel siede al bar di un hotel. Egli se ne resta silente, immerso tra i suoi pensieri. Viene poi raggiunto da sua moglie che lo mira, assorto nei ricordi. Stan tiene in mano un bicchiere di vetro, lo scruta con malinconia. Assorbe l’odore dell’intruglio alcolico, ne coglie il profumo che effluisce ma non lo beve. Stan rammenta il passato e confessa alla moglie l’essenza basica di ogni disavventura di Stanlio Ollio. “Guardi i nostri film e vedi soltanto noi due…” – Mormora il signor Laurel. “Nessuno ci conosce in quelle storie, siamo soltanto noi. L’uno ha solamente l’altro.”  Quanto era vero!

Gironzolavano per le strade, in città, si spostavano di appartamento in appartamento, vagavano tra i viottoli delle montagne. Si recavano in campagna, poi al Congresso dei Figli del Deserto, tra le periferie del vecchio West come fanciullini innocenti, finivano nei boschi, nei cui meandri rimbombava la voce baritonale di un bandito chiamato Diavolo. Erravano continuamente ed erano sempre insieme. Il più delle volte non avevano spiccioli nelle loro tasche scucite, ma potevano contare l’uno sull’altro. Erano miseri nelle vesti ma nobili negli animi. Erano indigenti, ciononostante potevano vantare la ricchezza più grande: una vera amicizia!

In ogni loro traversia, Stanlio e Ollio viaggiavano molto, si spostavano da un luogo ad un altro, cercavano i lavori più disparati per tentare di sbarcare il lunario. Bramavano l’aiuto dei più ricchi, loro che erano tanto poveri. Il copione dell’ultimo film che avrebbero dovuto girare li vedeva collaborare con Robin Hood, nella vecchia foresta di Sherwood. Questa pellicola ideata dal duo ma mai portata a termine viene spesso citata nel lungometraggio del 2018. Per Stan e Oliver il film su Robin Hood rappresentava l’ultima spiaggia, la restante possibilità di poter tornare sulla breccia attraverso il cinema. Robin Hood rubava ai ricchi per dare ai poveri. Per tale ragione, il famoso fuorilegge avrebbe aiutato ben volentieri i nostri amici, perennemente squattrinati. Nelle loro opere filmiche, erano pochi i comprimari disposti ad aiutare Stanlio e Ollio, i quali precipitavano sempre e comunque in qualche sorta di guaio. Stanlio e Ollio venivano, così, derisi dai prepotenti, offesi dagli arroganti, maltrattati dalle mogli, denigrati dagli adulti, loro che restavano eterni bambini. Continuavano a non avere nessuno, eppure andavano avanti. Insieme riuscivano a darsi forza. Stan lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Del resto, fu lui a plasmare la coppia nelle sue più impercettibili sfaccettature.

Seduto fra quei tavoli, Stan ricorda la verità: Stanlio non può esistere senza Ollio. In quei giorni, la salute di Oliver era peggiorata e la coppia comica si trovava ad un passo dal congedo. Non avrebbero più riso insieme, non avrebbero più fatto ridere. Con le loro vicissitudini, Stan e Oliver riuscivano sempre a strappare spontanei e coinvolgenti sorrisi. Dopotutto, Stanlio e Ollio incarnavano le “persone che valevano di meno”, ma anche le persone che, nel cuore, nel profondo, valevano di più.

E dunque Stan se ne stava solo al bar, prima d’essere raggiunto dalla propria consorte. Il signor Laurel rimembrava quello che fu, ciò che ancora sarebbe potuto essere. Il canto del cigno era ormai imminente. Dinanzi alla fine, non restava che celebrare il principio, la gloria di una vita trascorsa. Stan non avrebbe mai potuto continuare a lavorare senza Oliver, pertanto anch’egli era prossimo al ritiro. Tuttavia, Oliver lo sorprenderà di nuovo, l’indomani, come solo i veri comici sanno fare, ed invoglierà l’amico a continuare. Lo spettacolo dovrà proseguire.

Il film “Stanlio e Ollio” racconta l’ultimo step di questi ineguagliabili maestri della commedia americana. L’opera tenta di mostrare quello che il pubblico disconosce, inscenando l’ultimo atto della rappresentazione teatrale di questa lunga vita vissuta in coppia. La pellicola trasporta sul palcoscenico ciò che è avvenuto dietro le quinte, oltre la scenografia, al di là dell’occhio della camera. “Stanlio e Ollio” indaga il rapporto intimo tra i due attori, volge l’attenzione verso gli ultimi scampoli del lavoro di Laurel e Hardy e lo fa non mostrando nessuna scena dei loro film più famosi, eccetto una: il ballo registrato per “I fanciulli del West”. Questo per un motivo facilmente intuibile. Tutti noi abbiamo imparato perfettamente a conoscere Stan e Ollie sul grande schermo. Sui loro film non è necessario aggiungere altro che non sia stato già detto. Dunque, tale biopic, volendo perseguire intenti innovativi, sceglie sin da subito di concentrarsi su altro, evidenziando nuovi aspetti, quelli riguardanti ciò che Stanlio e Ollio hanno fatto oltre il regno della cinematografia.

Il teatro, i camerini, le stanze d’albergo divengono i luoghi prescelti in cui si sviluppa quest’ultima storia, quest’ultimo lungometraggio. La quotidianità di Stanlio e Ollio si intreccia alla recita, l’esistenza alla finzione. Sul palcoscenico, i due appaiono giovani, lievi e bravi come un tempo ma non appena il drappo rosso del sipario cala, riemergono le difficoltà, le problematiche di una vita colma di delusioni. La pellicola crea uno splendido equilibrio tra “il vero”, rappresentato dai momenti vissuti lontano dalla scena, e “l’immaginario”, il modo in cui il pubblico vede Stanlio e Ollio sul palco o sullo schermo di un cinematografo. Questi due mondi, sovente, si uniscono.

Di stazione in stazione, Stanlio e Ollio si spostano da una metropoli all’altra, tra momenti di quiete a attimi esilaranti in cui la loro routine fa il verso a quella dei loro personaggi impressi sui nastri di celluloide. A tal proposito, la scena in cui Stan si fa sfuggire dalle mani un ingombrante baule che precipita giù da una lunga scalinata, richiama, magicamente, le sequenze di uno dei loro massimi capolavori: “La scala musicale”. Con Stanlio e Ollio si comprende questa verità: la vita è un teatro ed il giorno non è che un singolo atto.

Stanlio e Ollio” racconta la fine ma parte dall’inizio, o per meglio dire dal “mezzo”. Il sipario si alza all’interno di un camerino. Siamo negli anni d’oro, nel mezzo della loro prolifica carriera. Entrambi discutono del più e del meno, dinanzi a due specchi. I loro copricapi, le loro bombette, sono appoggiate su di un appendi cappelli. I due dialogano, Ollio confida all’amico di aver perduto molti soldi col suo ultimo divorzio, Stanlio, dal canto suo, confessa d’essere intenzionato a mandare al diavolo il produttore Hal Roach per una sola ed emblematica ragione: i film di Stanlio e Ollio incassano milioni su milioni, eppure né Laurel né Hardy beccano un singolo quattrino. In quel tempo, le stelle di Stanlio e Ollio sono tra le più sfavillanti del firmamento hollywoodiano.

Di lì a poco, i due raggiungono il set e iniziano a danzare. Passano sedici anni da quel giorno. Entrambi sono visivamente invecchiati. Ollio è più largo e ben più corposo di prima, Stanlio più spossato. Il cinema, lentamente, si è dimenticando di loro. Per racimolare qualche soldo, ambedue sono costretti ad intraprendere una lunga e stressante tournée. Le platee a teatro, però, sono semivuote. Dopo qualche settimana buia, tutto comincia a cambiare ancora. Il loro talento resta trasbordante, immune al sopravanzare dell’età.

Di teatro in teatro, Stanlio e Ollio tornano a far ridere, ed il passaparola diviene inevitabile. Le persone sparse per l’Europa li accolgono festanti, le sale si riempiono. La gestualità, la pantomima, le cadute rovinose a terra, i canti, i balli costituiscono ancora il cuore del loro repertorio; un repertorio immortale, mai volgare, mai banale, insuperabile. Stanlio e Ollio avevano creato una comicità destinata a non conoscere la resa, e se il cinema li aveva ripudiati, il teatro era il luogo in cui potevano ancora donarsi agli altri.

L’esibizione per un artista è tutto. Lo era per Stanlio, lo era per Ollio. Il biopic, diretto da Jon S. Baird e con protagonisti gli straordinari Steve Coogan e John C. Reilly, analizza questo senso dell’esibizione. Stanlio e Ollio agognavano esibirsi ancora ed ancora, non potevano cedere, arrendersi al tramonto di un’era. Desideravano ardentemente andare avanti, far ridere la gente, interpretare un nuovo film. Eppure, come accaduto ai loro personaggi, accadde a loro stessi nella vita vera: i più forti, i più ricchi, li avevano ignorati e lasciati soli.

Ridere è una cosa seria, tutt’altro che un’aberrazione! Stanlio e Ollio lo sapevano, Stan, in modo particolare. Era sempre serio dietro la sua macchina da scrivere, quando concepiva e imprimeva su carta gli sketch. Ridere e far ridere è una cosa maledettamente seria e difficile. E a Stanlio e ad Ollio non fu mai impedito di regalare la loro ironia, davvero. Nulla poté impedirglielo né l’età né gli studi cinematografici. Il film lo sussurra continuamente, volgendo l’attenzione al teatro, il luogo in cui tanti fortunati riuscirono ad ammirare le performance di Laurel e Hardy. In quelle sale, era possibile ammirare i due comici senza il velo della telecamera, senza il filtro di un occhio meccanico, in modo unico. Ed è proprio un punto di vista nuovo, originale, esclusivo quello che la pellicola ci propone. Essa indugia lì dove nessuno si era soffermato, portando in scena anche il loro complesso rapporto d’amicizia.

Stanlio e Ollio, molto legati e affezionati l’uno all’altro, avevano caratteri e interessi differenti. Fuori dal set, entrambi si frequentavano di rado. Stan era dedito al lavoro, alla cura maniacale del dettaglio. Oliver, al contrario, era amante del divertimento, dello spasso. Le malelingue ipotizzarono addirittura che i due riuscivano ad essere veri amici solamente dinanzi ad una cinepresa.

La vita di Stanlio e Ollio, come ogni vita che merita d’essere vissuta, è stata un continuo oscillare dal dramma alla commedia, dal vero al fantastico. L’ultimo periodo, in particolare, vide incrinarsi il loro rapporto. Il biopic analizza anche quest’ultima questione. Ciò che Ollio fece sedici anni prima, quando era al verde, vale a dire girare un film in coppia con un altro attore mentre Stanlio cercava di strappare un contatto ben più cospicuo con un'altra casa di produzione, gravava come una lesione, una lacerazione che avrebbe potuto strappare e separare definitivamente il duo.

Per settimane, Stanlio e Ollio si esibirono a ritmi frenetici, inseguendo la chimerica illusione di poter ricominciare, di non arrendersi al progredire del fato. Essi volevano guardare al futuro, ma il dolore del passato non si era ancora attenuato, la ferita non si era ricucita. Una sera, si riaprì del tutto. Stanlio e Ollio litigarono pesantemente, rievocando quel triste momento. Nella scena più cruda dell’opera, i due si offendono pesantemente, arrivando ad affermare ciò che alcuni giornali erano soliti dire di loro: che non erano degli autentici amici. In quel triste momento, quando Stanlio e Ollio discutono animosamente, a pochi passi, qualcuno scoppia anche a ridere. Costoro avevano scambiato il tutto per una gag, uno dei tanti siparietti. Il destino di molti comici: essere sempre ritenuti giullari di corte, non avere la possibilità di poter soffrire, non essere considerati come uomini comuni, che sanno quando ridere e quando, invece, poter piangere perché ben conoscono il dolore. Ma Laurel e Hardy non rimarranno lontani a lungo, torneranno insieme, per gli ultimi spettacoli. Le cattiverie che erano state sibilate dalle loro bocche avvelenate, dai loro animi frustrati e inappagati, non corrispondevano alla verità. Né l'uno né l'altro potevano credere in quelle affermazioni espresse oralmente e, pertanto, portate via dal vento con rapidità. Stan e Oliver erano davvero degli amici inseparabili e lo sarebbero stati sino all'epilogo, dalla finzione alla tangibilità.

Tra un cambio di scena e l’altro, Ollio si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto, respira affannosamente, cerca disperatamente di recuperare le energie. Stanlio lo sostiene, aiutandolo a rimettersi in piedi. Gli affanni, le stanchezze, le tristi avvisaglie della vecchiaia che deturpano i loro visi spariscono non appena tornano dinanzi al pubblico. La realtà, quella del dietro le quinte, che abbiamo assaporato noi spettatori di questo meraviglioso film biografico si disperde, e torna la finzione, la commedia, quella del palcoscenico, che vede Stan e Ollie festanti, giocherelloni, come se nulla li turbasse mai realmente. E’ questa la magia di un comico manifestata in un sol battito: accantonare la sofferenza per mascherarla con il riso che diffonde altro riso.

Al cospetto di una platea stracolma, Stanlio e Ollio balleranno un’ultima volta. “Ci siamo divertiti, non è vero, Stan?” – Borbotta Ollio.

Certo che sì!” – Replica Stanlio.

L’essenza della commedia viene qui espressa in un semplice scambio di battute: divertirsi e far divertire, sconfiggere, anche per degli ineffabili secondi, lo scoramento dell’animo.

Il film si chiuderà come era cominciato: con un passo di danza. Ollio, grande e grosso, apparirà, sotto i riflettori, leggiadro come una piuma mossa dal vento. Stanlio, così minuto, sembrerà, invece, più grande ad ogni giravolta, come se lui stesso fosse carico di una gioia incontenibile, pronta per essere esternata. In quell’attimo, le luci si spegneranno, lo spettacolo giungerà veramente a conclusione.

Finì quella sera, tra le risate, le gioie, i caldi applausi, i rintocchi strepitanti, i sorrisi. Quel riso che i due comici avevano donato al mondo perdurava sui volti di tutti. Attraverso la commedia in bianco e nero, Stanlio e Ollio avevano scoperto la verità, il miglior modo in cui poter vivere. Essi avevano compreso, carpito, fatto proprio il potere insito nella vera Commedia. Un potere che avvicina ed unisce.

Non vi è cosa più dolce che vedere il volto di chi amiamo mutare, le guance contrarsi, le labbra aprirsi nel generare un sorriso schietto, sincero. Poter ridere è un dono, far ridere un’arte. Non vi è nulla di diabolico in tutto questo. Il riso è proprio un regalo di Dio. Esso avvicina e non divide. Ed infatti, Stanlio e Ollio, sul finale, riusciranno a far avvicinare anche le loro mogli, spesso aspre, discordi e litigiose. Le donne, felici, si terranno per mano, contemplando l’eterea magia di uno spettacolo comico.

Far ridere è il potere più bello, il potere più desiderato, il potere più temuto. Col riso si dà felicità, si può persino fare innamorare.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

A notte inoltrata, il silenzio della natura venne interrotto da un canto subitaneo. In sella ad un bianco cavallo, comparve un uomo vestito di nero, con un mantello di velluto finissimo. Sul capo, portava un cappello scuro, con un fiocco rosso, spesso e fitto come le piume di un’aquila reale. Questi galoppava nel bosco mentre baritoneggiava una canzone. La voce calda e cadenzata di tale figuro giungeva sino al cuore della boscaglia.

Fra' Diavolo cantava libero e sfuggente come un uccel di bosco. Con l’alterità di un sire, egli percorreva, solitario, il viottolo. I suoi vocalizzi risuonavano lungamente, balzando da ramo in ramo, i gorgheggi rimbombavano da tronco a tronco, e gli acuti venivano carpiti dal vento e sospinti sino agli angoli più remoti della campagna. Fra' Diavolo era solito annunciare la sua presenza interpretando le proprie arie con animosità e passione. Il brigante, con la leggerezza di una nota musicale, soleva mettere in guardia le possibili vittime dei suoi furti. L’inflessibile bandito dava alle sue prede una chance: se fossero scappati in tempo, non appena udito la sua voce modulata, pericolosa come il verso leggiadro e soave di una ammaliante sirena, i malcapitati sarebbero forse riusciti ad aver salva la vita.  Il canto di Fra' Diavolo era un lampo che squarciava il cielo e che precedeva il sopraggiungere di un tuono. Fra' Diavolo, dal canto suo, era un’eco, un bagliore preventivo ed una saetta fulminea.

Or dunque, Fra' Diavolo cavalcava lento verso il suo rifugio, senza mai interrompersi. Quei boschi del nord erano il suo palcoscenico, i derubati il suo pubblico inerme, che mai gli avrebbe dedicato alcun applauso. Il bandito tornò alla sua dimora, accolto festante dagli altri briganti. Sceso dal destriero, il prode e signorile masnadiero, radunò i suoi uomini per illuminarli circa il suo prossimo furto.

Nel frattempo, non molto lontano da quei luoghi, due sagome bizzarre emersero da un viottolo. Una di esse era corposa e panciuta, l’altra mingherlina e stiracchiata. Stanlio e Ollio trottavano, rispettivamente, in sella ad un ciuchino e ad un puledro dal manto bruno. Questi inseparabili amici si erano da poco congedati da un faticoso lavoro, durato molti anni. In quel tempo, Stan e Ollie pativano la fame e la sete. Entrambi avevano messo da parte cospicui risparmi. Nelle bisacce dei loro fidati animali da trasporto, i due, infatti, occultavano un bel gruzzolo, con il quale si accingevano a trascorrere i restanti anni della loro vita come pascià. Quando il destino sembrava finalmente volgere a loro favore, due banditi fecero capolino dalla foresta e rubarono loro tutti i quattrini. Stanlio e Ollio, sconfortati, perdettero in un solo istante il frutto dei loro sacrifici. Erano piombati nuovamente in povertà, come spesso gli era accaduto in tutt’altre disavventure.

Nelle varie pellicole a cui presero parte, Stanlio e Ollio assumevano spesso i panni degli emarginati e dei reietti. In “Fra' Diavolo” non furono da meno. Solitamente, Laurel e Hardy tolleravano la ristrettezza economica, i loro personaggi avevano appetito ma non potevano permettersi un pasto caldo, erano spesso vagabondi, zingarelli, nomadi senza un tetto sotto cui ripararsi. Stanlio e Ollio si schieravano sempre dalla parte dei più deboli, dei dimenticati, poiché a loro volta venivano spesso obliati dai benestanti. Essi facevano ridere pur patendo gli stenti e la miseria, strappavano sorrisi pur subendo l’ira dei tracotanti e la furia dei prepotenti. Nulla li abbatteva mai nello spirito, sebbene si scontrassero costantemente con un fato avverso e dispettoso. In “Fra' Diavolo”, Stan e il suo fraterno amico Oliver, viaggiano nel passato, giungendo sino alla penisola italiana, precisamente nel Piemonte del 1700, dominato dal brigantaggio.

Nella loro esistenza, colma di privazioni e soprusi, Stanlio e Ollio non conoscono il riposo e neppure la resa. Nell’opera filmica del 1933 i due hanno lavorato con onestà, senza mai risparmiarsi, lasciando intendere d’essere stati altresì sfruttati, derisi, vessati. Ciò che contava era stringere i denti, sorridere e mettere da parte le monete d’oro che costavano tanto sudore.

Di colpo, però, i risparmi di una vita vengono ghermiti e portati via. Angosciati, i due buoni amici decidono di smetterla di comportarsi bene, d’essere retti e giusti. Dopotutto, perché avrebbero dovuto continuare ad essere integri, corretti e leali, se la vita non aveva fatto altro che riversare su di loro le viltà dei malvagi? Ambedue decidono, così, di diventare banditi!

Non posseggono più la forza per scalare, dal basso, la grossa piramide sulla cui sommità vi è custodita la gioia di una vita agiata. Decidono, pertanto, di cominciare direttamente dalla vetta. Basta comportarsi degnamente. Al diavolo restare giudiziosi e franchi! Stanlio e Ollio scelgono di tramutarsi in banditi e di rubare ai ricchi.

E’ una critica forte quella evocata dall’inaspettata scelta di Stanlio e Ollio. In un mondo cupo, governato da manigoldi, opportunisti e delinquenti, si può restare davvero onesti? Stanlio e Ollio non ne possono più, non vogliono venire ancora bistrattati e umiliati dagli oppressori, e vedono nella possibilità di diventare, a loro volta, bruti e vendicativi, l’unica via per poter sopravvivere. La società continuava ad ignorarli, la gente a trascurarli, il mondo a non sorridergli, sebbene loro fossero sempre solari e gentili. Che opzioni potevano vagliare? Ecco, dunque, la ferma decisione: diventare ladruncoli di strada.

Purtroppo per loro, quello che non possono in alcun modo intuire è che la generosità di un buon cuore non può essere alterata. E così, Stanlio e Ollio, da briganti, provano a rapinare un viandante. Quest’ultimo scoppia in lacrime e i protagonisti si commuovono a loro volta, donando all’apparente sventurato l’unica moneta rimasta nelle loro tasche. Stanlio e Ollio sono troppo buoni, ingenui, secondo il valore più positivo e altruista del termine, non possono neppure improvvisarsi ladri da strapazzo. Ma i due non si danno per vinti, tentano un nuovo colpo. Per ironia della sorte, spingono le loro ricerche sino al covo di Fra' Diavolo. Ollio minaccia il re dei ladri con il fucile, spacciandosi lui stesso per il temutissimo “Diavolo”. Furibondo per essere stato usurpato, Fra' Diavolo si rivela e impone a Stanlio e ad Ollio di divenire i suoi fedeli aiutanti, trascinandoli sino alla sua tana. Ivi, Fra' Diavolo espone il suo piano: egli medita di rubare le ricchezze di Lady Pamela, nobile consorte di Lord Rocburg. Tuttavia, Fra' Diavolo non sa ancora dove la donna nasconda gli inestimabili gioielli e i cinquecentomila franchi avuti dal marito. Per compiere il furto, il bandito decide di celare, nuovamente, la propria identità sotto il falso titolo nobiliare di Marchese di San Marco.  Fra' Diavolo, allora, prende alloggio nell'albergo dove risiedono il burbero Lord e sua moglie. Stanlio e Ollio lo accompagnano, mascherandosi da suoi valletti. Senza neanche accorgersene, Stanlio e Ollio capitolano in un ennesimo pasticcio. Fra musiche e adulamenti, tra balli ed armoniose melodie, gli artigiani della risata si fanno strada verso gli intrighi dell’albergo, generando gioie ed ilarità ad ogni loro gesto.

Fra' Diavolo dà via ad un assiduo corteggiamento per rubare il cuore di Lady Pamela. Lo scaltro furfante mira a intenerire l’animo della ricca signora. Lady Pamela, come la Giulietta di William Shakespeare, si affaccia dal balcone e mira, estasiata, il marchese che l’attende giù. Fra' Diavolo, come già fatto da Romeo, scruta la balconata con gli occhi all’insù, ed il suo sguardo, furbo ed ingannatore, finge di smarrirsi negli occhi della donna sempre più innamorata. Fra' Diavolo si arrampica con abilità sino a guadagnare la camera della dama. Lady Pamela si lascia andare alle lusinghe del marchese e rivela all’uomo dal fiero aspetto che il denaro è cucito nella sua sottoveste. Lady Pamela, a quel punto, solleva il vestito, mostrando al cortigiano come, nella sottoveste, siano stati intessuti monete e gioielli.

Nessuno è mai riuscito a rubare i franchi alla nobildonna poiché nessuno è mai riuscito a giungere sino alle sue grazie. Una forte carica erotica e sensuale viene esternata da questa rivelazione. Per riuscire a possedere i cinquecentomila franchi, Fra' Diavolo deve sedurre la fanciulla, sottrarla alle sue vesti, ai suoi indumenti. L’oro e la fulgida ricchezza sono custoditi vicino alla candida epidermide della donna. Insinuarsi sotto la sua gonna, spogliarla da tutti i suoi abiti coprenti, renderla nuda, così da raggiungere il prezioso patrimonio è una metafora della conquista. La seduzione, l’attrazione fisica, l’infatuazione vengono espressi da questo risvolto della storia: nell’avere il cuore, l’anima ed il corpo di una dama si può ottenere il tesoro più grande, sia esso “materiale” come rappresentato nel film sia esso “ideale” come rappresentato dal vero amore.

Stanlio e Ollio, comprimari e protagonisti al tempo stesso di questa peripezia, restano fin troppo puerili e sciocchi per ben comprendere le trame tessute dal marchese, loro padrone. Essi non si curano dei furti e delle questioni inerenti gli altri personaggi, si limitano a ridere a crepapelle da ubriachi, a giocherellare con “Menadito” o con “Naso, Nasino, Nasello”. Stanlio e Ollio restano bambini intrappolati nel corpo di uomini adulti. Seguitano, conseguentemente, ad osservare le vicissitudini con i loro soliti sguardi: gli occhi di due piccini che trascorrono il tempo scherzando. Proprio grazie alle loro risate, ai loro vezzi, alle loro allegre peripezie, Stanlio e Ollio sono riusciti a cavarsela nelle situazioni più disparate. Persino quando la vita voltava loro le spalle, essi seguitavano ad avere un ghigno giocoso e spensierato.

Quel ghigno poteva essere intravisto persino sotto l’espressione crucciata e rassegnata di Ollio, o sotto la mimica piangente di Stanlio. Essi ridevano sempre, perché sapevano che con le loro candide disgrazie elargivano serenità d’animo a chi li stava ad ammirare. La risata era l’unica arma di Stanlio e Ollio, altro che quei fucili o quelle pistole che impugnavano maldestramente fianco a fianco a Fra' Diavolo. Anche quando erano prossimi ad essere impiccati, verso la fine del film, poco prima di salvarsi per l’ennesima volta, i due, nel proprio intimo, sorridevano come bimbi. Stanlio e Ollio non erano affatto geniali bensì intuitivi, poiché ammiravano il tutto con stupore, come un bimbo che scopre ed impara. Stanlio e Ollio guardavano il mondo così come il Pascoli avrebbe voluto che tutti facessero. Laurel e Hardy osservavano la realtà con gli occhi di un “fanciullino”, con gli occhi dell’innocenza e della purezza.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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