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Jake e rose dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno. (Hermann Hesse)

Nessun passeggero si era intrattenuto in quei locali. Erano tutti fuggiti nel disperato tentativo di trarsi in salvo. Per tutta la sala e attorno alle colonne bianche che svettavano alte giacevano dozzine e dozzine di poltrone vuote. Già, non ve ne era occupata neppure una! Era il 14 aprile del 1912, l’ultima notte del Titanic. Di colpo era avvenuto uno snaturamento nel segmento proravia della nave: quei luoghi, così festosamente gremiti di gente nei giorni antecedenti, erano ora stati evacuati. Una piccola statua raffigurante la dea Artemide e un orologio a sveglia stavano in bella mostra sul camino di marmo in attesa d’essere raggiunti dall’avanzare inesorabile dell’acqua. Il ticchettio dell’orologio era l’unico suono percettibile nella grande sala. In fase di progetto, quella sala, denominata “la stanza di scrittura e lettura”, era appannaggio esclusivo dei passeggeri della prima classe, dove avrebbero potuto godere di un ambiente raffinato e munito di tutti i confort. Si poteva naturalmente ascoltare anche della buona musica e gustare un ottimo tè.  La sala, benché fosse di una sublime bellezza e vantasse un grande arco sostenuto da colonne con capitelli corinzi, perdeva parte della propria magnificenza estetica quando rimaneva “sola”. Le pareti apparivano improvvisamente fredde, non essendo più scaldate dagli accesi sproloqui degli uomini o dai coloriti pettegolezzi di donne d’alto lignaggio. Si guardò attorno sconsolato, Thomas Andrews, l’ingegnere e costruttore del Titanic, quando, nell’opera cinematografica di James Cameron, raccolse l’oriolo posto sul camino dell’ampia sala, aprì il vetro che ne preservava il quadrante e fece roteare le lancette, forse nell’illusione di poter arrestare il tempo o, al contrario, accelerarne il suo corso, nel tentativo disperato di far cessare quella straziante sofferenza a tutti i passeggeri. Andrews abbassò poi il capo e rimase a contemplare il pavimento, mentre l’acqua già invadeva la sala. Quando il lato di prua del transatlantico si inclinò, la sala subì le nefaste conseguenze: le poltrone iniziarono a cadere giù e a sbattere contro i pannelli divisori della stanza. Anche l’oriolo cadde sul pavimento e si frantumò. Il tempo registrato fino a quel momento di colpo si arrestò. Da prezioso artificio dell’ingegno umano, atto a seguire lo scorrere dell’attimo, l’oriolo diviene un artefatto, il testimone di uno squarcio nel tempo. Pur essendo fermo, un orologio riesce a segnare l’ora giusta due volte ogni giorno. E in egual modo continuano a farlo gli orologi a pendolo, quelli da taschino, e le sveglie andate perdute sul fondale oceanico. Ancora oggi, due volte nelle ventiquattr’ore, quegli strumenti, seppur inceppati, segnano l’ora esatta; l’ora in cui per il transatlantico il tempo si fermò per sempre.

E’ pronta a tornare sul Titanic?” - E’ la domanda che Brock Lovett rivolge a un’anziana Rose poco prima che la donna inizi a narrare il proprio trascorso. Per la protagonista tornare sul Titanic equivale a riannodare i fili che la legano ad una triste vicenda accaduta ben 84 anni prima. Se fosse così semplice riattivare il rotismo di un orologio con un semplice gesto non esiterebbe un solo istante a farlo; se spostare indietro quelle lancette comportasse un viaggio a ritroso nella dimensione spazio-temporale, non ci penserebbe su due volte. Ma nessun orologio dona al possessore il vero controllo del tempo, non offre che un’illusione. Padroneggiamo la mera osservazione dello scorrere dei secondi, ma non siamo che spettatori di un progredire che fugge dalla nostra gestione. Il cinema cattura una parte comprimibile dell’essenza del tempo, sebbene esso venga ricreato ad arte e reso in maniera fittizia. “Titanic” solca le acque di un tempo dalla duplice natura, che sia reale e illusorio. Gli spettatori restano ad osservare, prigionieri del tempo reale, lo sviluppo di una storia incastonata in un tempo immaginario, che dondola tra la giovinezza di allora e la vecchiaia della contemporaneità. “Titanic” fa del tempo un motore pulsante, che brucia enormi quantità di combustibile e alimenta il moto rotatorio di tre eliche che sospingono l’avanzata della nave. E’ un tempo basato sul vero vissuto: la tragedia del Titanic è conosciuta universalmente dai più, eppure non propriamente compresa se non da chi fu a bordo del bastimento e sopravvisse. “Titanic” fa della ricostruzione storica un demiurgo generante, e dalla storicità vera il film trae beneficio per raccontare una storia romanzata. E’ la coniugazione del tempo vero mescolato al tempo architettato dalla messa in scena. Il lungometraggio oscilla tra il presente narrato e il passato vissuto, e il tempo della narrazione si conforma alla consistenza del tempo veritiero, anzitutto nella sperimentazione della rievocazione di un'epoca trascorsa. “Titanic” è la navigazione di un percorso a ritroso che dà lustro e vivezza ai primi anni del Novecento.

La forza dei ricordi rende mirabile un trasporto nell’avvenuto. Ma le reminiscenze non sempre vengono conservate e richiamate alla mente con accurata nitidezza. L’anziana Rose ha centodue anni quando raggiunge il cacciatore di tesori Brock Lovett per raccontare la propria storia. I segni della sua veneranda età si notano solo in una candida sequenza, quando la donna si accinge a presentare la nipote al superficiale cercatore. Come terrà a precisare la ragazza alla nonna, invero, i due si erano già presentati sul ponte del transatlantico pochi minuti prima. Rose non lo ricordava affatto, nonostante fossero passati solo pochi minuti. Un’incertezza, una beffa mnemonica che mette in guardia i cacciatori in merito alla reale capacità della donna di rammentare ciò che è avvenuto sul Titanic. E’ una memoria, tuttavia, sorprendente quella di Rose, dettagliata, minuziosa, espressa verbalmente senza interruzione alcuna.  Sono un raggrumato scorrere di pensieri, un fluido fiume di parole le reminiscenze che serba. “Titanic” è l’esaltazione del cinema dei ricordi valenti e profondi, eternati e custoditi per essere tramandati.

“Titanic” è la riattivazione di un orologio rimasto fermo, che torna a ticchettare tramite l’influsso del racconto.

10 aprile del 1912. In un locale, nei pressi del porto di Southampton, Jack vince in una partita a poker i biglietti per la terza classe del transatlantico Titanic, prossimo alla partenza verso l’America. “Non gingillarti, Jack, il tempo non aspetta i ritardatari!” Il proprietario del locale tiene ad avvisare il protagonista, “il Titanic va in America…e fra cinque minuti”. Con la mano l’uomo indica un grosso orologio appeso al muro dimostrando di aver ragione. Mancano poco meno di cinque minuti alla partenza. Ancor prima dell’inizio del viaggio, il tempo si palesa sotto forma di strumento laconico e imparziale, distaccato e inespressivo. L’orologio sovrasta lo sguardo del giovane e lo mette in allarme. Si dipana, da quell’istante, una prima fuga per giungere all’appuntamento col destino, all’incontro con Rose.

  • “Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato.” (Walter Whitman)

Il tempo computato da un congegno torna a materializzarsi di tanto in tanto. Se ne resta inerte sullo sfondo della scena, come fosse un elemento decorativo. L’orologio più presente sulla scena è di forma circolare, ed è incassato nella parete prospicente la grande scalinata della prima classe, ornata di fiori e foglie di bronzo. Mentre aspetta che Rose lo raggiunga, Jack scruta silente quell’orologio con la quiete di chi interpreta il tempo concessogli come un dono, apprezzandone ogni flebile cambiamento. Possono solo pochi giorni compendiare un sentimento tanto profondo e assumere un peso che non potrà essere bilanciato neppure negli anni restanti?

Il tempo, riscontrabile nella rapidità con cui un istante cede il passo al successivo, è ineffabile ma al contempo catturabile. Un momento può essere acciuffato, fatto proprio, ghermito con la rapidità di un battito di ciglia. E’ un fenomeno che avviene nell’isolamento e nell’avulsione soggettiva da ciò che circonda. Accade così che i nostri sensi vengono acuiti da un solo soggetto, tale che il sospiro di Rose possa venire udito distintamente, come se i restanti frastuoni non sfiorino l’orecchio di chi non vuole ascoltare. La smorfia compiaciuta di un volto, il particolare della fossetta formatasi sulla gota durante l’esternazione di un sorriso, il dettaglio di una ciocca di capelli rossi arricciati da una giravolta: nell’innamoramento tra Jack e Rose il tempo si comprime e il credo di dare consistenza ad ogni singolo giorno si piega all’idea di dare importanza ad ogni attimo che, conformato ai successivi, rifinisce la forma cristallina di un ricordo.

Quello tra Jack e Rose è un amore smisurato come l’immensità di un cielo stellato in una calda notte d’agosto. La volta celeste stessa è soggetta al mutamento, al passaggio graduale dal giorno alla notte, dettato dal tempo che passa. In una scena esclusa dal montaggio finale, al calar della sera, Jack e Rose si soffermano ad osservare il firmamento sconfinato. Ne segue una breve riflessione sulla minutezza dell’uomo al cospetto dell’universo. Si avverte, per una frazione di secondo, la percezione d’essere piccoli, piegati alla meraviglia imperscrutabile dell’infinito. I due riescono a vedere una stella cadente. Jack rivela a Rose ciò che un vecchio adagio del padre recitava, ovvero che ogni stella che cade è un’anima che lascia la Terra e vola in paradiso.

Così l’uomo risulta ancora inerme se posto dinanzi alla maestosa presenza impalpabile del tempo. Una notte sul Titanic vola via come verso cantato al cielo, come parole portate via dal vento, un po’ come avviene in quella fredda notte con le rime canticchiate dai due innamorati nel brano “Come Josephine In My Flying Machine”.

Ma il tempo è inclemente, e viene rappresentato nuovamente nel film non più con l’immagine di un orologio, ma con l’azione crepuscolare di un tramonto. Il sole illumina per l’ultima volta la prua della nave, e in quell’addio costituito dagli ultimi bagliori di un raggio che sta per morire all’orizzonte, Jack e Rose si baciano per la prima volta, sgretolando la consistenza dei secondi.

Il Titanic stesso col proprio tragico trascorso ha abbattuto le barriere del tempo storico. L’amore, scritto e interpretato nell’opera di Cameron, è un amore concepito per non durare a lungo. Ma è nella consistenza di quei pochi giorni che si instaura un fervore celato nell’animo. Rose fa dell’ideologia del suo primo amore un’ispirazione che possa guidare, per i successivi 84 anni, il suo spirito inquieto. Conseguentemente l’essenza effimera delle ore, trasfigurata nell’ispirazione ideologica, diviene tempo imperituro, e nel ricordo si adempie una forma d’eterea e impalpabile immortalità.

  • “L'acqua che tocchi de' fiumi è l'ultima di quelle che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente”. (Leonardo Da Vinci)

Tempo realmente vissuto e tempo propriamente inscenato si intrecciano in una narrazione filmica ad ampio respiro. I giovani innamorati Jack e Rose si contrappongono ai coniugi Straus, vissuti realmente e periti insieme durante l’inabissamento del Titanic. Sono due coppie accomunate da un legame profondo e indivisibile ma tanto distinte. Isidor e Ida Straus nel kolossal compaiono solo in un breve frangente, distesi sul letto della loro cabina, stretti in un abbraccio quando la loro camera viene invasa dall’acqua. Durante le operazioni di salvataggio, Ida ebbe la possibilità di salire a bordo di una scialuppa che era prossima ad essere ammainata ma si rifiutò di lasciare il marito. I due attesero la fine della loro vita così come avevano vissuto: insieme. Tra Jack, Rose e i coniugi Straus può esistere una comparazione analitica in merito al tempo concesso in una vita di comunanza. Fu un’esistenza vissuta con pienezza per i due sposi, quella di Jack e Rose, invece, fu una separazione immantinente, troncata nella giovinezza. Jack e Rose non invecchieranno insieme, non trascorreranno il tempo terreno nella reciproca vicinanza. E’ l’inclemente giudizio pronunciato e compiuto dal giudice del fato.

Nel movimento perpetuo dei marosi dell’Atlantico si configura la metafora di un tempo in divenire, che accelera il proprio sviluppo per giungere a conclusione. Le acque gelide dell’oceano parevano così remote, prima d’invadere gli scomparti della nave. Il mare, filtro di un mondo sommerso, è per Cameron anche strumento di morte. Sebbene l’uomo cerchi d’imporsi sulla natura essa è regolata dalle leggi del creato, dalle quali è impensabile prescindere. L’ultima volta che l’orologio del grande salone viene inquadrato dalla cinepresa, la massa d’acqua è salita sino all’altezza del quadrante che segna le 2:15.

Mancano soltanto cinque minuti al definitivo tracollo della nave e al conseguente fermo del tempo.  In quell’addio tra le onde, alla morte di Jack, si disperde il tempo presente. Rose smarrisce in quei fluttui il frammento più palpitante del suo cuore, e da quel giorno, ogni progressione della vita futura sarà dettata dall’ispirazione di un credo carpito nel momento passato.

  • “Sogna come se dovessi vivere per sempre, vivi come se dovessi morire oggi”.

“Titanic”, come ho scritto, è la celebrazione di un ricordo, inteso non soltanto in senso lato, ma come testimonianza di una vita perduta. Nulla può catturare l’incanto di un gesto come può fare un ricordo conservato e raccontato per far prendere coscienza a chi ascolta della bellezza di un periodo ormai andato. La fotografia può immortalare un atto, la scrittura glorificare un evento, ma nel ricordo personale si può compendiare con emozione un volto, una voce, una personalità, una vita. Attraverso le proprie parole, Rose porta a compimento la propria questione in sospeso, l’ultimo passo della propria vita: restituire il ritratto di un uomo scomparso. E solo lei poteva farlo, perché era la sola ad averlo a cuore, e nel racconto della propria esperienza gli ha reso la facoltà di poter essere tramandato.

"La persistenza della memoria" di Salvador Dalì

 

Gli orologi del Titanic, così come tutti gli altri strumenti per misurare lo scorrere del tempo, riposano da quella tragica notte sul fondale buio e sabbioso dell’oceano, fermi a segnare le 2:20. Come saranno oramai? Saranno arrugginiti, ricoperti da microrganismi, oppure schiacciati dall’enorme pressione, come fossero orologi dipinti da Dalì, molli, pendenti e scivolosi, cosparsi dell’austerità del tempo perduto. Gli orologi sono freddi calcolatori che però non possono nulla se confrontati alla persistenza della memoria della donna protagonista, che dà spessore, colore, forma, splendore e straziante dolore a un ricordo vissuto nella fugacità di un tempo soggettivo e, per tale ragione, incalcolabile.

Adempiuta l’ultima volontà di Rose sulla Terra, giunge il momento della ricongiunzione. La volta celeste, colma di stelle luminose, può lasciarne cadere una, la più tardiva, così che un’anima possa prendere il suo posto nel paradiso. E’ l’allegoria conclusiva di un richiamo: è Jack che reclama Rose per il raggiungimento di un tempo senza tempo. Nell’ultimo sogno di Rose, la donna torna nelle profondità degli abissi dell’oceano così come del tempo, e nella paradisiaca nave traghettatrice di anime la meraviglia originaria degli ambienti torna a materializzarsi sotto i nostri occhi.

Il finale di “Titanic” è, a mio dire, paragonabile ad alcuni toccanti passi finali delle fiabe di Hans Christian Andersen. Come accaduto per Jack e Rose non è nella vita terrena che si è potuto vivere un amore tanto intenso, un concetto, quest’ultimo, preminente nelle fiabe dello scrittore danese, nelle quali l’amore non vissuto completamente sulla Terra, essendo immortale, trova compimento nella vita dopo la morte. Jack e Rose si rincontrano nella dimensione metafisica, dove il tempo e lo spazio cedono il passo all’etereo. L’uomo attende, come un tenace soldatino di stagno che resta pazientemente in piedi da più di ottant’anni ad aspettare la donna amata, una ballerina che rapì il suo cuore con un passo di danza in terza classe. Quando si volta, l’orologio alle spalle di Jack segna ancora le 2:20. E’ l’ultima apparizione di un tempo interrotto. Un orario non più riscontrabile, posto là dove la giovinezza non svanisce mai, dove l’amore può albergare per sempre e dove ogni singolo giorno è reso eterno.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

"Titanic negli abissi del tempo" è l'ultimo capitolo dei nostri articoli sull'opera cinematografica e sulla tragedia del Transatlantico. Potete leggere tutti i nostri articoli su "Titanic" cliccando ai seguenti link:

"Recensione e analisi: Titanic - 1997"

"I simbolismi di Titanic - 1997"

"Un'anima dell'oceano - L'affondamento del Titanic tra cinema e realtà"

"Speciali di cinema - Con gli occhi di James Cameron"

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Due identità ambivalenti, due esistenze poste agli estremi: la nobildonna e il povero. Sarebbe stato probabilmente impossibile per due persone appartenenti a classi sociali così demarcate potersi incontrare se non fossero salite a bordo di uno spazio circoscritto come quello di una nave: una realtà talmente eterogenea e uno spazio così particolare dove tutto può succedere. Il Titanic nelle ideologie di Cameron diviene una sorta di “città galleggiante” in cui si intrecciano le vite di persone ben distinte nei loro ranghi e, pertanto, inevitabilmente lontane. La scintilla che innesca l’affinità tra i due passeggeri protagonisti dell’opera è da ricercarsi nella diversità dei loro caratteri mista all’assonanza dei loro voleri. Un concetto questo apparentemente incoerente. Jack crede fermamente che la vita sia una continua sorpresa, un dono che non merita di essere “scartato dal suo involucro e poi gettato via”; andrebbe invece vissuto con pienezza. Rose, dal canto suo, è una donna sola e incapace di reagire, soffocata dal volere della madre la quale l’ha promessa in sposa ad un ricco ereditiere dal temperamento rude e violento, che non tralascia mai di evidenziare tutto il suo lato vile e meschino: un certo Caledon Hockley. La giovane donna avverte un senso di assoluta prigionia, sentendosi come ingabbiata tra le austere pareti della prima classe del Titanic; in quella cabina così addobbata ma anche così vuota nessuno vuol darle ascolto. Nessuno eccetto Jack! Egli è il solo a notare l’angelica bellezza di Rose e a scorgere il dolore che si manifesta nei suoi occhi. La diversificazione tra le anime dei due futuri innamorati è sita proprio nel diverso modo di abbracciare la vita intesa da Jack come un continuo atto di stupore e di innovazione: una “traversata” ricolma di sorprese. Jack tende a dare valore a ogni singolo giorno, apprezzando quel suo vivere senza alcun dettame imposto da terzi, mentre Rose vede snocciolarsi dinanzi a sé un futuro in cui la luce soleggiata della speranza sembra perdersi nella vastità dell’oceano Atlantico, tramontando all’orizzonte per non sorgere mai più. Nella disparità del loro status sociale e nella disuguaglianza delle loro vedute future avviene il primo contatto tra i due giovani. D’improvviso, l’illusoria discordanza muta in una lenta e graduale rivelazione delle rispettive somiglianze. L’ottimismo del “povero” avvolge l’angosciosa insoddisfazione della ragazza che comincia a far intravedere pensieri di certo meno bui, se non addirittura positivi, e proprio grazie alla vicinanza del suo nuovo amico.

La nascita dell’amore tra Jack e Rose avviene tramite un processo relazionale di crescente complicità che inizia proprio con una comune amicizia. Passeggiando su e giù per il ponte, iniziano a conoscersi rivelando un’innata affinità, con scambi di battute ironiche e “offese” innocenti. Sprezzante e sarcastico il battibecco circa la “maleducazione di Jack” nel domandare a Rose, senza remora alcuna, se ama davvero l’uomo a cui è stata promessa. Una domanda questa che scatenerà una reazione del tutto particolare nella donna, che minaccerà di andarsene, pur continuando a sorridere dato l’evidente imbarazzo arrecatole dallo strano atteggiamento di Jack, rimasto lì impassibile ad attendere una sincera risposta da parte della sua interlocutrice. E’ di sicuro la prima volta che nel film vediamo Rose dimenticare per qualche istante i turbamenti che opprimono il suo spirito. E’ questo il primo merito di Jack: riuscire a far ridere Rose e ad allontanarne gli affanni. Jack è un “impressionista”, non a caso riconosce immediatamente il tratto di Monet nel quadro esposto nella cabina di Rose, ammirando l’inconfondibile stile del grande pittore francese. Badate, non intendo dire che Jack sia un artista appartenente al movimento della seconda metà dell’ottocento; già, come potrebbe dopotutto? Mi riferisco invece alla sua sensibilità artistica, la stessa che gli permette di scrutare l’animo di chi ha davanti. Come gli impressionisti riuscivano a cogliere le bellezze figurate della natura e a ritrarle sulle tele all’aperto, allo stesso modo, Jack carpisce gli animi di chi ha dinanzi e in modo particolare di Rose, la donna di cui si è invaghito a prima vista.  Jack ne era certo, l’aveva “sentita”, non si sarebbe mai lasciata cadere giù dalla nave al loro primo incontro, poiché era fin troppo forte per lasciarsi “schiacciare” dalla soffocante casata borghese cui deve il suo nome, che le comprime l’animo col medesimo piglio avvolgente di un corpetto stretto con forza. Emblematica a tal proposito la scena che vede la madre proibire a Rose di rivedere il giovane indigente, allacciando con veemenza il corsetto della figlia.

Jack inizia lentamente a conquistare la ragazza “varcando” la realtà aristocratica cui la donna appartiene, irrompendo in punta di piedi in quel mondo fatto di chiacchiericci vari e specie su ricche eredità, brandy sorseggiati con ritmata frequenza e cene consumate da commensali rigidi nei loro abiti di circostanza, maledettamente monotoni, ripetitivi nel loro tedioso sproloquiare. Jack supera con un ben nascosto imbarazzo la prova cui suo malgrado era stato soggetto, e riesce a strappare Rose, per la prima volta, da quella realtà aristocratica che la stava logorando portandola con sé in terza classe.

Il simbolismo dell’amore tra i due naufraghi trova ampio riscontro nella figura metaforica ma egualmente evidente delle “mani”. Jack porse la sua mano a Rose già dal loro primo incontro, quando volle invitarla a ritornare in sé dopo essersi pericolosamente sporta dalla ringhiera della nave. Quella mano tesa fu la prima “carezza” velata che i due amanti si diedero. L’importanza del loro sfiorarsi con le dita continua a presentarsi di volta in volta nello scorrere della pellicola: Jack bacia la mano di Rose non appena intravede la donna discendere lungo l’ampia scalinata dove l’attende prima di recarsi nelle sfarzose sale da pranzo. Seguita a salutarla lasciando cadere in segreto nella mano di lei, coperta da un guanto di velluto bianco, un frammento di foglio. E ancora una volta intreccia le sue mani con quelle della dama per farla volteggiare in uno spensierato “girotondo” così da strapparle anche un sorriso durante i festeggiamenti in terza classe.

 

La crescente attrazione tra i giovani affronta tuttavia non poche difficoltà: Rose teme l’ira di Hockley nel caso in cui la dovesse rivedere assieme a Jack e prova un senso di profondo malessere interiore quando la madre fa ricadere sulle sua spalle il peso dell’intera famiglia, oppressa dai debiti e quindi bisognosa più che mai di un matrimonio che possa risollevare le compromesse condizioni economiche. Rose si allontana da Jack che cerca un’ultima volta di portarla con sé, in quanto teme che la stessa possa spegnersi d’infelicità in un futuro non troppo lontano. Rose rimane così sola con i propri pensieri, quand’ecco che il suo sguardo cade su un tavolo poco distante dal suo, in cui una madre impone alla figlioletta gli atteggiamenti necessari, forse studiati, da mantenere durante lo stare assieme a tavola. Stanca oramai di una vita organizzata nel dettaglio e programmata persino nella gestualità, Rose fugge per raggiungere il suo liberatore.

Nell’ormai famosissima scena del primo bacio sulla prua del Titanic vi sono molteplici aspetti simbolici da poter evidenziare. Jack e Rose si conobbero presso la poppa della nave. Il ritrovarsi sulla prua, esattamene sul margine inverso rispetto a quello del loro primo incontro certifica una sorta di “progressione scenica” del loro amore, capace di accrescersi sempre più fino ad attraversare l’interezza della nave, quegli stessi confini che faticano a delimitare il dipanarsi di questo smisurato sentimento. E’ come se fossero partiti dal culmine (la poppa) per sporgersi fino al limite massimo della nave (la prua), salvo poi tornare, sul finire delle vicende, ancora una volta dove si erano conosciuti, in un andirivieni che porta la coppia a vivere e sovrastare ogni spazio possibile di quella nave in cui vivrà in eterno il loro amore. Jack invita Rose a chiudere gli occhi per poi sospingerla delicatamente verso la ringhiera, dove la donna protrarrà le sue braccia come se fosse in procinto di volare, sorretta alle spalle dall’amato.

Le mani dei protagonisti, toccandosi con movimenti combinati e carezze armoniche, si congiungono centralmente in un abbraccio poetico che precede il suggellarsi del loro primo bacio. E’ di sicuro il momento più emozionante di quella che personalmente definisco “la dimensione gloriosa” del Titanic. L’inquadratura va lentamente a perdersi fino a mostrare nuovamente il relitto affondato e oramai privo del suo impalpabile alone romantico. Torniamo alla malinconica modernità, allontanandoci per qualche istante da quel sogno che vive nel passato su di una tela cinematografica “dipinta” man mano dai ricordi per nulla sbiaditi di Rose.

“Titanic” si configura così, come un’articolata esplorazione dello scorrere del tempo. Una sorta di pendolo oscillante tra passato e presente. Viviamo l’attimo contemporaneo con un’anziana Rose pur volendo tornare nuovamente in quella dimensione passata che stimola le nostre più recondite emozioni nell’amore quasi fiabesco tra i due prossimi naufraghi. “Titanic” sembra alternarsi su tre dimensioni simboliche di base: la prima, quella spettrale, in cui Cameron ci porta subito negli abissi, immergendo la sua cinepresa tra le gelide acque dell’oceano, nell’avventuroso tentativo di seguire la spedizione dei ricercatori di Lovett. Questi ultimi, supportati da sommergibili da ricognizione e da sonde robot video-guidate, avanzano fino alle profondità in cui il Titanic si trova adagiato e “morente” da poco meno di un secolo. Lentamente appare la sagoma della nave che si materializza dall’oscurità con il fascino sinistro di un vascello fantasma.

Alla prima dimensione appartiene anche la rapida ed estremamente insensibile ricostruzione dell’affondamento del transatlantico. Rose, piuttosto provata dalla superficialità con cui viene rinarrato il destino della nave, osserva uno schermo dove, attraverso una precisa ricostruzione forense al computer, noi spettatori abbiamo la possibilità di capire le dinamiche dell’inabissamento del Titanic. I cacciatori di tesori, nella loro bieca ironia e nel loro trattare il Titanic con dimostrata sufficienza non rappresentano altro che gli spettatori meno propensi a comprendere il lato più angoscioso della tragedia. Un aspetto che il cineasta si prefigge di mutare al termine della sua “seconda dimensione di viaggio”, per l’appunto quella “gloriosa” in cui Cameron ci riporta nel 1912, nella storia fondamentale del film in cui il Titanic si fa carico di oltre duemila anime per poi perire con loro, “soffrendo”, venendo dilaniato dalle acque che ne spezzano letteralmente la gloria di cui si faceva maestoso portatore.

Sin dalle prime scene notiamo come Cal, il deplorevole fidanzato di Rose, tenti di convincere la donna a concedersi a lui, donandole il cuore dell’oceano, un meraviglioso diamante dal valore inestimabile, col preciso intento di sciogliere le resistenze della donna. Rose non cederà mai alle avance di un uomo così rude e violento, anteponendo la delicatezza di un amore sincero alla ricchezza materiale. Jack però non ha nulla di concreto da offrirle, come dice egli stesso, avendo a mala pena qualche dollaro nelle tasche dei suoi modesti abiti. Ma ciò che Jack dona a Rose è qualcosa di ben più profondo: la libertà di un’esistenza in cui non vi è alcuna catena che possa trattenere la donna verso un orizzonte radioso.  Rose trova finalmente il coraggio di lasciarsi alle spalle quell’avvilente realtà per acquisire una maturità tale che le permetterà di scegliere liberamente a chi mostrarsi nella sua più intima naturalezza. Le sinuose forme della donna vengono ritratte da Jack prima che Rose, con il cuore palpitante d’amore, scelga di donarsi completamente a lui. Ancora una volta le mani diventano lo struggente strumento per evidenziare la loro passionale attrazione. Rose comincia infatti a baciarle per poi portarle fino al proprio corpo, inducendo il suo partner ad accarezzarla. La mano della donna, inoltre, si poggia sul vetro appannato dell’auto dove i due innamorati consumano il loro amore, segno indelebile nei ricordi degli spettatori più affezionati, del loro ardore. L’amore tra Jack e Rose abbraccia ogni aspetto possibile dell’animo umano: comincia con un’autentica amicizia, prosegue con una crescente attrazione da parte di entrambi per poi sfociare in un legame intenso e imperituro. Un amore impregnato di puro lirismo e di romantica passione, ma intriso anche di erotismo e sensualità: un amore vero e completo in tutto e per tutto.

Quella stessa notte il Titanic impatta violentemente contro un enorme Iceberg riportando squarci irreparabili sulla fiancata destra della nave che comincia ad imbarcare acqua in ben cinque compartimenti stagni. La grande abilità di Cameron sta nel conformare la spettacolarizzazione dell’azione cinematografica con il dramma emotivo dell’infausto impatto con la montagna di ghiaccio. Se in principio siamo riusciti a respirare l’aria favolistica di una nave foriera di speranza, di colpo, assaporiamo l’amaro retrogusto della paura.  Il cineasta con abile maestria riesce a riversare il terrore dei passeggeri sulle nostre ansie che via via vengono amplificate da un senso di crescente inquietudine. L’agitazione circa il destino dei nostri adorati protagonisti aumenta via via che l’acqua dell’Atlantico risale i diversi livelli della nave, “flagellando” il Titanic. Sullo sfondo dell’atroce sorte della nave, la relazione tra Jack e Rose trova altri margini per rinvigorirsi ulteriormente e superare così prove dall’indubbia valenza sentimentale. Rose crede fermamente, e a ragion veduta, che Jack sia innocente dalle accuse mossegli contro dal crudele Cal che ordina l’arresto del giovane per aver rubato il cuore dell’oceano. Seguendo la ricerca di Rose, notiamo come l’acqua salga progressivamente dalle viscere della nave, laggiù dove Jack si trova ammanettato proprio nei sotto-uffici allagati. Si delinea una vera e propria corsa contro il tempo, rappresentato da Cameron come un astratto “giudice severo e inclemente”. Il ticchettio dell’orologio posto nella sala grande segna l’imminente scoccare dell’ora che segnerà l’affondamento del Titanic. Persino il costruttore capo, il signor Thomas Andrews osserva il suo orologio da taschino prima di fermare le lancette dell’oriolo posizionato sopra il camino al momento dell’inabissamento. Il tempo avanza impietoso per separare dalla vita terrena i due innamorati.

Rose riesce a salvare Jack, liberandolo. Durante il naufragio la storia tra i due si sviluppa come un costante ritrovarsi e proteggersi a vicenda. Jack e Rose sono due personaggi mossi da un amore incondizionato che non permette loro in alcun modo di separarsi; persino quando Jack accettò sommessamente il proprio destino, lasciando andar via Rose sulla scialuppa, la donna, vedendolo allontanarsi sempre più, balzò in avanti con uno scatto felino, per tornare a bordo della nave e ricongiungersi con l’amato. La celebre affermazione “salti tu, salto io!” trova una celebrazione totale in questa scena che certifica come “la nobile e il povero” siano impossibilitati a lasciarsi andare. Cameron fa muovere la propria cinepresa in una lunga carrellata in cui inquadra a distanza il Titanic, che comincia a sollevarsi volgendo la poppa verso la volta celeste. Molti passeggeri non vedendo alcuna via d’uscita, si gettano in mare, ormai in preda al panico. L’oceano non fa alcuna distinzione di classe sociale distruggendo con egual fermezza tutta la nave e “cullando” i cadaveri dei ricchi e dei poveri con la medesima neutralità. I musicisti del Titanic non hanno mai smesso di suonare, nonostante l’insolito scenario in cui si stava svolgendo la loro “conclusiva esibizione”, e le melodie finali sanno tanto di canti funebri riservati alle persone che non hanno avuto la possibilità di trovare riparo sulle scialuppe di salvataggio. Strazianti le scene accompagnate dalle nostalgiche note dei violini stridenti che seguono dapprima una madre che addormenta per l’ultima volta i suoi piccoli, e subito dopo, un’anziana coppia di sposi rimasta a letto nella propria cabina, stretti in un interminabile abbraccio, nell’attesa consapevole della propria fine. E’ probabilmente questo il più grande “tormento” che i fan di “Titanic” porteranno sempre con sé: la consapevolezza che Jack e Rose non potranno restare vicini e invecchiare insieme nel tepore della loro casa. Una volta finiti in acqua, Rose trova riparo su quel che rimane di una porta. Anche Jack cerca di salirci su ma l’ulteriore peso la fa affondare. E’ quello il momento in cui Jack capisce che morirà. Rose, anch’essa provata e prossima alla morte per ipotermia per via delle fredde atmosfere, confessa a Jack in maniera cristallina e per la prima volta a parole, che lo ama. Jack, in un primo momento, non le risponde, poiché interpreta quella confessione come l’ultima testimonianza dell’animo di Rose, prossima alla resa. L’uomo sprona la compagna a resistere, e fa promettere a Rose di dare valore ad ogni singolo giorno, restando per sempre ispirata da quel credo. La regia di Cameron discende dall’alto, dalle “stelle” in una inquadratura in cui riusciamo a vedere il corpo di Rose disteso sui resti galleggianti, e in corrispondenza al suo volto, il corpo esanime di Jack: ancor prima della protagonista, Cameron lascia intuire ai propri spettatori la morte del giovane. Rose intona le parole di una canzone che per la prima volta Jack e lei avevano cantato insieme a squarciagola, quando rientrarono dalla festa tenutasi in terza classe (scena eliminata dal montaggio finale). Quello stesso testo canoro Jack lo aveva sussurrato delicatamente all’orecchio della donna quando si trovavano stretti alla prua della nave. E’ ipotizzabile che Jack sia morto ascoltando la voce di Rose, che nel freddo dell’oceano, faceva riecheggiare un’ultima volta la loro canzone.

Rose si volta e si accorge della morte dell’uomo. Distrutta dal dolore bacia un’ultima volta quelle mani che tanto l’avevano accarezzata, lasciando scomparire per sempre nell’oscurità il corpo del suo amato Jack: siamo qui in presenza di un altro simbolismo all’interno del film. Jack non verrà mai recuperato a differenza di tante altre vittime del naufragio. L’unica scialuppa tornata nel vano tentativo di soccorrere qualche superstite, si fa strada tra un raccapricciante sbarramento fatto di corpi inermi, sospinti dalle correnti. Come scrivevo, nessuno vedrà mai Jack. Lo afferma persino uno dei cacciatori di tesori oramai in lacrime, “purificato” dalla seconda dimensione del viaggio: “non abbiamo trovato mai nulla su Jack”. Non potevano! Egli vive solo nei ricordi di Rose, come se il protagonista fosse stato concepito come una romantica figura eroica, imbarcatasi sul Titanic al solo scopo di salvare la donna amata e soltanto ad essa resterà legato. Nessuno avrebbe reclamato i suoi resti, né Rose sarebbe riuscita a piangerli poiché troppo provata dal dolore. Jack, pertanto, scomparve nel buio, lasciando poco o nulla del suo passaggio sulla terra, cominciando ad attendere il ritorno di Rose in quella che definisco “la terza dimensione del viaggio” del Titanic.

Se la perfezione è un “concetto” alquanto discutibile poiché apparentemente impossibile da raggiungere, “Titanic”, come lungometraggio epico e romantico, si avvicina quasi oggettivamente ad una definizione di questo tipo, specie per l’universalità a cui assurge il film, capace di farsi amare tanto da un pubblico maturo che da un pubblico giovanile. Nella caratterizzazione dei personaggi grossi encomi devono essere riservati naturalmente al lavoro di Leonardo DiCaprio e Kate Winslet. Il feeling ben visibile sul set e nelle riprese, e quello stretto legame istauratosi nella vita reale tra i due attori fu, a mio giudizio, il segreto dell’eccellente riuscita di questa splendida storia d’amore, semplice nella sua ideazione ma soave nella sua realizzazione. Rose è un personaggio che riempie lo schermo, è lei la vera essenza dell’opera di Cameron, colei che rinasce nella disavventura del transatlantico trovando se stessa e l’ispirazione celata tra i venti che per sempre soffieranno sulle vele spiegate del suo lungo viaggio vitale. Divisa tra l’incantevole e al contempo straordinaria interpretazione di Kate Winslet e la malinconica recitazione di Gloria Stuart, il personaggio di Rose è quello di una donna vera, capace di amare in eterno.  Essa non è stata scritta secondo i canoni della Giulietta di William Shakespeare, che sceglie di morire per poter “raggiungere” immediatamente l’animo dell’amato perduto. Rose è invece un personaggio quanto mai “vero”, che sceglie di andare avanti proprio per onorare la promessa fatta in punto di morte, sposandosi e vivendo una vita libera e avventurosa. Probabilmente i più romantici avrebbero preferito che Rose restasse perennemente fedele al ricordo di Jack, considerando il lungometraggio come un ineluttabile elogio all’amore “inaffondabile”, ma la scelta di Cameron, pur risultando meno lirica, è assolutamente realistica e contingente. E’ un effetto ancor più marcato dal regista, volto a intristire gli spettatori che avrebbero voluto che Rose sposasse Jack e vivesse la sua vita con lui. Il fato del Titanic però non lo ha permesso. Rose ha sicuramente amato tutti coloro che le sono stati vicino nel corso della sua vita, ma nonostante il tempo trascorso con loro, nessun’altra figura potrà mai paragonarsi a quella del giovane conosciuto durante il viaggio inaugurale del transatlantico. Cameron lo dimostra dedicando soltanto brevi accenni al nome del defunto marito di Rose e lasciando poche battute alla nipote che si prende cura della donna centenaria, ponendo invece una totale attenzione al passato sul Titanic, poiché esso è il punto centrale della vita della protagonista, e laggiù alberga l’ultimo dei suoi battiti. Rose ha vissuto la sua vita all’insegna della promessa fatta, in attesa di potersi ricongiungere col suo Jack una volta terminata la traversata di quell’immenso oceano che è stata la sua vita.

Rose chiude gli occhi per l’ultima volta, addormentandosi una notte al caldo sotto le coperte. Giungiamo dunque alla terza dimensione del viaggio, quella “trascendentale” in cui il relitto ritrova lentamente la propria magnificenza inaugurale, venendo percorso in soggettività dall’anima di Rose che ritrova Jack ad attenderla in cima alla grande scalinata dinanzi all’orologio. Il tempo sembra essersi fermato e il Titanic si trasforma in una paradisiaca nave traghettatrice di anime in cui gli spiriti dei passeggeri morti nella tragedia, si sono potuti ritrovare nell’aldilà. La nave dei sogni diviene un eden empireo che Rose può contemplare dopo aver compiuto il proprio intenso percorso sulla terra. Jack l’aspetta, osservando l’orologio della sala che rintocca silenziosamente ai suoi occhi nell’istante in cui Rose comincia a salire le scale per raggiungerlo. L’attesa è finalmente terminata e il tempo ineludibile reca finalmente con sé un valore positivo per i due innamorati.

La prima volta che Jack e Rose si intravidero su quelle stesse scalinate, il “povero” si trovava alla base, mirando la nobildonna dal basso mentre ella discendeva giù, ancora una volta in un posizionamento scenico volto ad accentuare lo splendore della fanciulla meritevole di poter essere ammirata nei secondi che precedevano il loro salutarsi. Jack, in seguito, si trattenne per pochi minuti in cima alle scale nella speranza che Rose lo raggiungesse per recarsi insieme a quella che lui stesso descrisse come “una vera festa”. In quei frangenti Rose, salendo i gradini, iniziò a intraprendere il proprio percorso in salita verso l’agognata libertà, personificata nell’azione di Jack; adesso invece, Rose risale nuovamente quegli scalini, non andando incontro alla libertà bensì alla vita eterna. Questa volta i corpi dei due amanti si ritrovano nelle collocazioni opposte rispetto al loro primo incontro sulle scale, e Jack decide di voltarsi soltanto quando la donna si trova a metà strada. Non le corre incontro, né l’abbraccia istintivamente: la prima cosa che fa è porgerle la mano, sorridendole. Per l’ultima volta le mani dei protagonisti vengono inquadrate centralmente da Cameron che nella conclusione della sua opera indugia ancora sul loro toccarsi: il vero simbolo dell’indissolubile legame dei protagonisti. Come scriveva Aristotele nella “Poetica”: “con la pietà e la paura, purifichiamo l’animo dalle nostre passioni”, così Cameron sembra voler generare con “Titanic” una sorta di catarsi nel cuore degli spettatori: prima sognatori e poi coscienze spaventate, prima innamorati di quell’aura fiabesca e poi prostrati e terrorizzati dall’amarezza dolorosa della morte. Sulle note dell’indimenticabile “My heart will go on” termina, in un intellegibile alone di magica speranza, il viaggio spirituale del dramma di James Cameron.

Il bacio di Jack e Rose viene accolto da uno scrosciante applauso dalle altre anime che sormontano la totalità della scenografia mentre la camera sale ancora un po’ su per poi spegnersi in dissolvenza sull’ampia vetrata del Titanic, il cielo paradisiaco che d’ora in poi veglierà sulle anime riabbracciatesi di Jack e Rose che nella trascendenza riescono nell’impossibile: mostrare l’immortalità del vero amore. 

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Il 31 marzo del 1909 nei cantieri industriali Harland and Wolff di Belfast venne avviata la costruzione di una nave della White Star Line. Il progetto della compagnia navale britannica prevedeva la realizzazione di un transatlantico di dimensioni mastodontiche, che riuscisse a combinare l’imponenza con la velocità. L’occhio attento della nota compagnia inglese era rivolto verso la rivale Cunard Line, che nel settembre del 1906 aveva varato la Mauretania, una nave dalla mole gigantesca che assicurava una traversata rapida e sicura dall’Inghilterra all’America. La Mauretania è la nave che nel film di James Cameron viene brevemente citata dalla giovane Rose, quand’ella scruta per la prima volta il Titanic, attraccato al porto di Southampton al molo 44. Rose non riesce a spiegarsi l’incanto provato dai passeggeri festanti, misto a quel senso di stupore alla vista del Titanic, che, a detta sua, non sembra poi molto più imponente della già citata Mauretania. In realtà, il Titanic era davvero più lungo della Mauretania, e di ben trenta metri, oltre a vantare interni di sicuro più lussuosi e accoglienti, come terrà a precisare Caledon Hockley, poco dopo aver udito quel paragone partorito con eccessiva leggerezza dalla dolce Rose.

Nel 1909 la White Star Line ordinò la costruzione del transatlantico proprio per opporsi al dominio incontrastato della Mauretania, che ai tempi rappresentava la massima aspirazione cui i costruttori e i progettisti navali potessero ambire. La nave, battezzata con il nome “Titanic”, verrà varata il 31 maggio del 1911 prima di entrare ufficialmente in servizio un anno dopo. Il Titanic verrà registrato nel porto di Liverpool col prefisso di “RMS” poiché avrebbe dovuto svolgere anche le mansioni di servizio postale, permettendo così un rapido trasporto mercantile dalla Gran Bretagna al continente americano. Il transatlantico aveva una lunghezza di poco inferiore ai 270 metri, era largo 28, con un’altezza approssimativa di 53 metri e un peso di 52.310 tonnellate. Il Titanic era un colosso d'acciaio, capace di fregiarsi sin da subito del titolo di nave più grande e lussuosa del mondo. Il costo per la costruzione di un piroscafo di tale portata fu di 7,5 milioni, ad oggi una cifra superiore ai 180 milioni di dollari, meno di quanto costerà l’adattamento cinematografico del 1997 (200 milioni di budget più altri 30 spesi per la promozione del film).

Il Titanic aveva due “sorelle gemelle”: il Britannic (che in principio avrebbe dovuto chiamarsi “Gigantic” e seguire, così, le orme della “sorella” recando con sé un nome che ricalcasse la magnificenza) e l’Olympic, la sorella maggiore. Il Britannic e l’Olympic avranno anch’esse destini infausti, alimentando la credenza popolare che aleggiasse una sorta di maledizione sui tre transatlantici della White Star Line; ma questi ultimi due non riusciranno mai a raggiungere la fama di cui il Titanic verrà, suo malgrado, rivestito.

Il Titanic lasciò Belfast, quella che fu la sua dimora sin dalla nascita, il 2 aprile del 1912 navigando fino al porto di Southampton dove si farà carico di 2.223 anime per il suo viaggio inaugurale. La prima immagine cinematografica del transatlantico nel suo massimo splendore ci viene fornita da Rose nel Kolossal cui faccio riferimento, ovvero “Titanic”, quando l’anziana donna ricorda la raffinatezza del servizio da cucina che veniva per la prima volta servito, così come la delicatezza delle lenzuola nelle cabine della prima classe della nave in cui nessuno aveva mai disteso il proprio corpo per dormire, dato che si trattava del primo viaggio della nave. Dalle “semplici” parole lentamente si passa alle immagini, che con i magici espedienti del cinema, restituiscono al relitto della nave la magnificenza originaria del Titanic. La fiancata del Titanic era dipinta di nero, la parte superiore, quella del pontile e delle pareti, era tinteggiata di bianco, mentre i quattro imponenti fumaioli color giallo ocra e nero troneggiavano su tutto. Di essi solo tre erano funzionanti mentre il quarto aveva la funzione di presa d’aria e fu ugualmente costruito per donare un ulteriore effetto imponente al transatlantico. La base e i lati inferiori dello scafo che “cedevano” sotto il livello del mare erano invece dipinti di rosso. Sia a destra che a sinistra della prua, poco al di sotto della ringhiera, risaltava la bianca scritta “Titanic”. Il nome della nave lo si poteva leggere anche sulla poppa, e in prossimità anche la dicitura “Liverpool”. La propulsione del Titanic era a vapore, essa non era una motonave ma il piroscafo più grande del pianeta.

Il Titanic era l’orgoglio della marina britannica e l’emblema dell’ingegneria navale del tempo. Essa coniugava meravigliosamente la grandiosità cui l’uomo aspira da sempre con l’eleganza delle decorazioni atte ad esaltare l’indole artistica dell’essere umano. Il Titanic era il perfetto connubio tra potenza meccanica ed estetica architettonica. L’aspetto regale della nave è, a mio giudizio, interpretabile filosoficamente con il desiderio recondito dell’uomo di assoggettare la natura al proprio volere. Il Titanic era stato soprannominato “l’inaffondabile”, poiché l’uomo del tempo credeva di aver raggiunto un livello di perfezione adamantina che gli avrebbe permesso, in un certo senso, di adagiarsi sugli allori, dando per scontato d’aver sottomesso la vastità dell’Atlantico all’intelligenza umana. Il Titanic veniva presentato come il dominatore incontrastato degli oceani, destinato ad una lunga “vita” colma di successi. 

I marinai, nelle antiche credenze e nelle fantasie marinaresche che affondano le loro radici nella mitologia più arcana, credevano che anche le navi avessero “un’anima”. I vascelli e le imbarcazioni in genere l’avranno pure avuta quell’anima di cui tanto parla la letteratura navale, ma di sicuro non avevano una coscienza, forse, e non è poco, “un’esperienza” del loro vissuto. Ecco perché le navi possiedono un nome, una sorta d’identificativo posto sulla prua o sulla poppa o su tutte e due col preciso intento d’individuarne e riconoscere il loro essere. Sembra crederlo anche James Cameron nella propria trasposizione dando al Titanic la caratura e il fascino di un vero e proprio personaggio che si muove sullo schermo. Un protagonista silenzioso, in principio foriero di speranza, in un secondo momento un triste dispensatore di morte. Cameron aveva da tempo patito il fascino spettrale dei relitti che giacciono in fondo al mare, e dedicò anni del suo lavoro allo studio della tragedia del Titanic. Per James Cameron, il Titanic non possiede solo un’anima, egli è proprio “vivo” in questo pluripremiato adattamento. Cameron ha amato come un figlio questa creatura da lui stesso riportata in vita attraverso una prima ricostruzione computerizzata, una seconda ricostruzione compiuta attraverso una serie di modellini in scala e per finire persino con una terza spettacolare ricostruzione complessa e meticolosa della nave a dimensioni reali.

Uno dei momenti maggiormente emozionanti della prima fase della pellicola è proprio quello dedicato alla propulsione del Titanic. Rose ricorda che durante il primo giorno dalla partenza, la nave viaggiava, oserei dire quasi “a vele spiegate”, quando davanti ai loro occhi non vi era altro che l’oceano sconfinato. In quei frangenti adrenalinici il capitano della nave ordina di spingere al massimo i motori in un intenso scambio comunicativo a distanza con l’ufficiale della sala macchine. Cameron vuol farci godere da subito dell’avanzata tecnologia del Titanic, volgendo la nostra attenzione alle viscere della nave, dove le caldaie vengono alimentate da decine e decine di fuochisti che gettano, senza freno, carbone al loro interno. Le ventinove caldaie, con un diametro di cinque metri ciascuna, erano capaci di bruciare quasi 800 tonnellate di carbone al giorno, garantendo alla nave un’elevata velocità, impensabile per quei tempi. Cameron immerge la sua cinepresa in mare, mostrandoci inoltre le tre gigantesche eliche che permettevano al piroscafo di muoversi. Cameron non lascia nulla al caso, presentandoci dettagliatamente il moto accelerato delle turbine, lanciate al massimo della potenza. Jack, proprio in quei momenti, si avvicina alla prua della nave e si lascia andare a un grido liberatorio, quasi assaporando già l’inizio di un radioso avvenire, mentre il capitano in plancia accenna un sorriso, nell’ammirare la vastità dell’oceano, quelle stesse acque che il Titanic sembra poter dominare senza alcun degno rivale.

Il regista ci trascina fino agli interni della nave, tra le evidenti contrapposizioni della prima e della terza classe. Nella mente di Cameron, il Titanic assurge anche al compito di vera e propria “citta galleggiante” in cui si intrecciano le relazioni interpersonali tra membri di distinte classi sociali d’appartenenza. Risulta, tutt'oggi, impressionante la cura scenografica del film, che ricrea perfettamente le ambientazioni originarie del transatlantico: tutti noi, attenti spettatori, godiamo della vista del Café parisien, dell’elegante sala di lettura e scrittura, della sfarzosa sala da pranzo in cui vengono serviti menù variegati su servizi d‘argento, di cristallo e porcellana finissima. Una delle scene, in seguito scartate dal montaggio finale del film, prevedeva una sorta di giro turistico della nave a cui presero parte parecchi passeggeri. Cameron voleva che il pubblico di fine Novecento riuscisse a vedere non soltanto le cabine finemente decorate con vari stili artistici, ma anche le altre particolarità della nave come la palestra o la sala del bagno turco. Stranamente, Cameron non riporta la peculiarità più unica, tra le tante, del Titanic: quella d'essere il primo transatlantico ad aver avuto a bordo una piscina.

Gli alloggi più sontuosi erano 34, e i passeggeri più facoltosi potevano muoversi liberamente su e giù per l’intero bastimento con l’ausilio di tre ascensori. Simbolo della bellezza della prima classe ma anche del percorso che i due giovani amanti, Jack e Rose, dovranno intraprendere più volte è la splendida scalinata in cui campeggia in alto al centro un orologio. La traversata dell’oceano segue al contempo l’attenta esplorazione di ogni angolo della nave attraverso il crescente amore tra Jack e Rose, che porterà i due innamorati ad attraversare in lungo e in largo il transatlantico. Godiamo dell’impianto scenografico del Titanic anche attraverso gli occhi dei due protagonisti.

Cameron distilla col contagocce qualche accenno sull’ingenuità dell'equipaggio che, senza volerlo, condurrà alla tragedia della notte tra il 14 ed il 15 aprile del 1912. L’imprenditore britannico Ismay (interpretato da Jonathan Hyde) stuzzica l’ambizione del capitano Edward Smith (Bernard Hill) suggerendogli di accendere anche le ultime caldaie rimaste inattive e portare così al massimo la velocità della nave. Il Titanic, a quella velocità, avrebbe potuto raggiungere il porto di New York con un giorno d’anticipo, conquistando l’ambito nastro azzurro della marina, detenuto fino ad allora, neanche a dirlo, dalla Mauretania. In un secondo momento, il Capitano Smith ammette dinanzi alla protagonista di aver acceso anche le ultime caldaie, nonostante gli avvisi degli altri marinai di stanza su altre navi, che riportano la presenza di ghiacciai sulla rotta di navigazione. La narrazione filmica per quel che concerne la strategia adottata dal capitano corrisponde perfettamente alla realtà. Smith si lasciò ingenuamente condizionare dall’imprenditore della White Star, credendo di poter chiudere quarant’anni di onorata carriera con questo invidiabile record. Durante il giro turistico guidato dal signor Thomas Andrews, costruttore capo della nave, Rose nota che le scialuppe della nave sono soltanto 20. Con un rapido calcolo matematico la donna riporta a Andrews l’allarmante notizia che se ci fosse un’emergenza le scialuppe basterebbero a mala pena per la metà dei passeggeri. La sceneggiatura, curata dallo stesso cineasta, affida a Rose il compito di “spiegare” agli spettatori perché la tragedia del Titanic desterà tanto clamore. Il Titanic poteva supportare più di trenta lance di salvataggio e addirittura ammainarne quasi il doppio. Andrews, da principio, suggerì di apporre sul ponte una seconda fila di scialuppe, ma la sua idea venne subito bocciata poiché si riteneva che il Titanic fosse praticamente inaffondabile, e pertanto le lance avrebbero soltanto arrecato disordine. 

Il 14 aprile del 1912, il Titanic procedeva a velocità massima, solitario nell’Atlantico del nord. Nelle ultime 24 ore, il piroscafo aveva percorso 546 miglia e, mantenendo una tale velocità, avrebbe raggiunto la meta prevista con un giorno d'anticipo. Quel dì, il tramonto scese all'orizzonte e l'imbrunire elargì un ultimo bacio al volto della nave.

Al crepuscolo, l’attenzione degli spettatori, nel film del 1997, è dedicata totalmente al sentimento appena sbocciato tra i protagonisti dell’opera: Jack e Rose si dichiarano amore incondizionato sulla prua proprio quando il sole sembra morire all’orizzonte. Quella fu l’ultima volta che il Titanic vide la luce di un raggio sfavillare su di sé. Nella notte, la temperatura scese in modo brusco, fino a toccare lo 0, proprio quando le tenebre cominciarono ad avvolgere la rotta del Titanic. Lo scorrere delle sequenze sposta la nostra attenzione fino al ventre della nave, dove Jack e Rose consumano il loro amore, mentre da lì a poco l’inesorabile destino del Titanic comincerà il suo triste corso.

Le condizioni metereologiche erano eccezionalmente serene quella notte. Il mare appariva piatto come un’immensa tavola scura, e il cielo stellato era poco luminoso ma rassicurante. Una serata apparentemente perfetta, capace di temprare lo spirito e donare al cuore un senso di pace e serenità. La strana bonaccia dell’oceano impediva di notare qualsiasi presenza in acqua, persino quella di eventuali iceberg. Spesso le vedette in perlustrazione per schivare i grandi blocchi di ghiaccio galleggiante si affidavano al fragore prodotto dalle onde contro le pareti dei grandi iceberg alla deriva. Questo permetteva di tenerli a debita distanza. Come riportato nel film, l’equipaggio del Titanic dimenticò clamorosamente i binocoli al porto di Southampton. Il tratto in cui il Titanic procedeva in quel momento è ancora oggi un tratto di oceano infestato dagli iceberg. In tarda serata, precisamente alle 23:40 le vedette scorsero un gigantesco iceberg dritto sulla rotta della nave.

Nel film di Cameron la vedetta, allarmata, suona immediatamente la campana per richiamare l’attenzione del timoniere. Poco dopo chiama gli ufficiali di rotta urlando che un iceberg si pone dinanzi a loro, a circa 500 metri. Murdoch, il Primo Ufficiale, ordina l’indietro tutta dei motori. Le sequenze del particolare momento nel film sono straordinarie: Cameron riesce a catturare la paura degli ufficiali riversandola su di noi, tentando inoltre di evidenziare le massacranti azioni degli addetti ai lavori per impedire la drammatica collisione. L’ufficiale capo del settore macchine, notando l’avviso degli ufficiali in plancia, dopo i primi istanti di smarrimento, ordina ai suoi uomini di fermare i motori e di portarli al massimo sforzo possibile per l’indietro tutta. Cameron mostra con veloci scatti di telecamera i movimenti alternati dal piano superiore della nave fino a quello inferiore. Murdoch in contemporanea comanda al timoniere di virare disperatamente, portando tutta la barra massimamente a sinistra. Le macchine dunque vengono arrestate per cambiare il moto direzionale alla nave. Dopo pochi istanti le enormi turbine volgono la loro potenza sul lato opposto e le eliche laterali cominciarono a roteare, mentre l’elica centrale viene arrestata. Due operazioni che si riveleranno errate: le eliche mandate all’indietro impediranno infatti di dare ulteriore spinta alla nave per tentare una miracolosa virata. Successivamente si appurò che se il Titanic non avesse virato ma si fosse scontrato frontalmente con l’iceberg avrebbe imbarcato acqua solo nei primi due scomparti, potendo incredibilmente continuare a navigare. Murdoch però fece ciò che istintivamente qualunque altro marinaio avrebbe fatto in quelle preoccupanti circostanze. Il Titanic procedeva, al momento dell’avvistamento, ad una velocità superiore ai venti nodi e ciò rese impossibile riuscire a indietreggiare o virare in tempo. Inoltre il timone della nave era troppo piccolo per effettuare virate improvvise. Nella trasposizione cinematografica, un ufficiale si avvicinò pericolosamente alla ringhiera della prua per vedere quanta larghezza, in profondità, occupasse l’iceberg. Una volta scorto l’enorme lato sottostante del blocco di ghiaccio, l’uomo urlò che la nave si sarebbe inevitabilmente schiantata. Infatti la fiancata del Titanic urtò la base dell’iceberg il quale crepò l’acciaio come fosse un semplice foglio di carta. Si crearono diverse falle lungo tutto lo scafo che arrivarono a compromettere cinque compartimenti stagni. Il Titanic imbarcò acqua immediatamente. 

Le prime fasi a seguito della collisione, nel film, sono assolutamente realistiche. I passeggeri non diedero eccessivo peso all’incidente, ci furono persino centinaia di persone che neppure avvertirono lo scontro. E così, anche nel lungometraggio, in principio, soltanto il personale di bordo sembra preoccuparsi dell’incidente. Cameron adempie a un lavoro maniacale, facendoci vivere l’affondamento del Titanic in tempo reale. Sarà oltre un’ora quella dedicata al naufragio e a ciò che accadrà in quei drammatici momenti. Il capitano Smith comanda al maestro d’ascia di scandagliare la nave prima che Thomas Andrews comprenda la gravità della situazione. Niente fermerà l’inevitabile: il Titanic affonderà in due ore. Il colosso che sembrava potesse domare la vastità smisurata dell’oceano viene adesso assoggettato al suo volere. Ma il Titanic non ha mai avuto “l’atteggiamento” del dominatore. Era prima di ogni cosa il frutto dell’ingegno umano. Una creatura che portava in sé più di duemila persone. Un’imponente costruzione, figlia dell’uomo di quel tempo, ma a cui l’uomo stesso non ha saputo badare, lasciandola maledettamente in balia di un tragico destino che poteva essere certamente evitato. Il Titanic era una specie di “torre di babele”; esso rappresentava la gloria massima a cui anela l’uomo, una sorta di “sfida” nei confronti della natura per cercare di genufletterla al suo piacimento. Cameron dà spessore alla realizzazione del Titanic, cercando di trasmetterci il dolore di un “personaggio” che gli spettatori se non possono considerare vivo quantomeno lo vedono come sofferente. Il Titanic subisce le flagellazioni dell’Atlantico, che lentamente ne minano la base, quella stessa base in cui Jack è stato fatto prigioniero e attende di essere salvato dalla sua Rose. Attraverso la drammatica fuga dei protagonisti viviamo le diverse fasi dell’inabissamento. L’acqua sale senza sosta allagando pian piano tutta la nave. La prua si inclina, fino a lambire la superficie delle acque. Quel luogo in cui Jack e Rose precedentemente fingevano di “volare” lasciandosi avvolgere dal sentimento del loro amore, è adesso un posto martoriato dalle freddissime onde dell’oceano. Le scialuppe vengono calate in acqua con eccessiva superficialità, una con sole 12 persone a bordo nonostante la capienza ne permettesse 65. Le operazioni di soccorso sottolinearono una scarsa preparazione dell’equipaggio a simili casi d’emergenza, ancor più gravose se consideriamo le condizioni tranquille del mare. Le donne e i bambini della prima classe trovarono ben presto salvezza ma le lance erano maledettamente ridotte. Più della metà dei passeggeri restarono sulla nave. Il capitano Smith si prese la colpa del disastro e decise di affondare con la propria nave. Anche il signor Andrews scelse di perire con la nave, salvando quante più persone poté, indirizzandole sul ponte dove venivano calate le scialuppe. Ismay, invece, salì di soppiatto su una scialuppa, passando così alla storia come un vigliacco. La bellezza della nave, esaltata costantemente nel film, perde progressivamente valore.

L’elegante sala da pranzo viene sommersa dalle acque, le decorazioni cedono il passo alle inondazioni e ai marosi e i fumaioli si staccano dai legamenti per cadere rovinosamente giù. Non verranno mai più trovati. Il Titanic, come mostrato dalla pellicola, viene dilaniato, come un’entità viva ma incapace di dichiarare il proprio dolore. La nave soffre, viene aggredita dal freddo, morendo lentamente come una persona reale.

In quella drammatica sera, i musicisti dell’orchestra suonarono senza sosta,  facendo, infine, risuonare tristemente le note dell’inno religioso “Nearer my God to thee” quando non vi fu più alcuna via di salvezza per i passeggeri. I macchinisti lavorarono per tutto il tempo a ritmi indiavolati per rallentare la salita dell’acqua nelle sale delle turbine elettriche così da non far compromettere l’impianto, necessario per le operazioni di salvataggio. Tutti loro moriranno nell’impresa. Dopo circa un’ora e mezza dall’impatto, la prua del Titanic era sommersa e l’acqua aveva invaso il ponte principale, ciò generò un crescente stato di caos totale.

Nel film, durante l’affondamento, si può udire per due volte un pezzo particolare della colonna sonora estratta dal tema “A Building Panic” che si può ascoltare nella traccia audio al minuto 4.13 del disco. Quando la prua della nave si è totalmente inabissata, la poppa del Titanic emerge dall’oceano formando un angolo di 30 gradi. In quel momento la camera del regista si muove con una lunga carrellata in cui inquadra la nave procedendo da destra verso sinistra. In quella scena si ode per la prima volta il tema di “A building panic”, dove un coro fa riecheggiare versi agghiaccianti e apocalittici, mentre le immagini, supportate da queste fosche melodie, mostrano il terrore dei passeggeri che si ammassano tra loro per raggiungere le ringhiere a cui aggrapparsi, salvo poi precipitare nel vano tentativo di afferrarle. Uno spettacolo terrificante che vissero realmente quella notte le oltre 1.500 persone rimaste a bordo. Lo stesso coro si ripresenta pochi minuti dopo quando il Titanic, sempre più inclinato verso l’alto, con la poppa oramai rivolta verso la volta celeste, fa toccare la cupola della sala grande con la superficie dell’oceano. L’ampia vetrata non può reggere a una tale pressione e di colpo, i vetri si spaccano e una quantità impressionante di acqua allaga la sala, risucchiando via decine e decine di persone terrorizzate. In quei secondi, il coro accompagna nuovamente le spaventose immagini. Dal “cielo” giunge la potenza dell’acqua, e proprio come un giudizio universale, la natura dimostra la propria supremazia sull’uomo, massacrando la nave. Ancora il coro segue la camera del regista che si muove all’indietro, inquadrando le pareti che via via cedono e le cabine sono tutte invase dall’acqua.

Le gigantesche eliche affiorano dal fondo, il Titanic, oramai, è prossimo alla fine. La nave sembra lanciare un grido di dolore, quando le paratie dello scafo scricchiolano producendo un suono terrificante, lugubre, udito persino dalle persone messesi in salvo sulle scialuppe e ferme a metri e metri di distanza, un suono perfettamente riprodotto nel film del 1997. In quegli attimi le macchine si staccarono cadendo a peso morto sul fondo, generando suoni spaventosi di rotture e fratture. Fu l’ultimo grido di dolore del Titanic che in quel preciso istante definitivamente moriva.

Il sistema elettrico saltò, pochi attimi e anche le luci del piroscafo si spensero e così, sotto una pressione di oltre tre tonnellate che gravava sull’asse portante, il Titanic si spezzò improvvisamente in due tronconi. La poppa precipitò nuovamente in acqua schiacciando molti degli uomini gettatisi in mare per scampare alla morte. La prua invece si staccò, perdendosi sul fondo dell’oceano. La poppa restò in superficie per ancora qualche minuto poi s’inabissò, scomparendo dallo specchio dell’acqua per sempre. Una delle costruzioni più belle che l’occhio dell’uomo ebbe la fortuna di vedere venne distrutta e mai più rivista come allora, ciò che era inaffondabile, affondò. Le persone finite tra le onde saranno, a causa delle gelide temperature dell’acqua, “come trafitte da mille lame”.

Il finale del film di Cameron prevede la morte del protagonista che viene strappato via all’amore di Rose. Un espediente narrativo scelto da Cameron per far comprendere agli spettatori quanti lutti la tragedia del Titanic arrecò. Rose viene salvata dalla Carpathia, la nave che giunse in soccorso quattro ore più tardi, per recuperare i superstiti. Nel naufragio persero la vita 1.500 persone, fu questa la tragedia marittima più grande della storia. Nelle sequenze finali, il volto della protagonista, straziata dal dolore, viene di colpo illuminato di un verde intenso, il colore della speranza; ma non è altro che il riflesso di un fumogeno acceso da un ufficiale all’indirizzo della nave di soccorso. Rose è sopravvissuta e potrà vivere la vita che vorrà abbracciando l’ispirazione dell’amato scomparso.

Negli ultimi mesi del 2017, ha preso piede l‘ipotesi lanciata da un giornalista che lo scafo della nave fu indebolito, ancor prima di salpare, da un incendio che si sviluppò quando la nave riposava a Belfast. Ancora, a distanza di oltre un secolo, i dubbi su ciò che accadde quella notte perdurano. Il relitto del Titanic, spesso inquadrato dallo stesso Cameron ancor prima di trasformarlo in una paradisiaca nave traghettatrice di anime, giace tutt’oggi adagiato sul fondo dell’Atlantico, a oltre tremila metri di profondità. La poppa è stata sventrata ed è ora un’inerme massa informe di ferraglia. Le riprese effettuate con sonde robot video-guidate hanno più volte catturato gli interni rimasti della prua. Piatti e stoviglie sono ancora ordinati su uno scaffale, le colonne interne invece sono totalmente coperte dalla flora marina. Immagini sinistre, inquietanti ma ricolme di un’attrattiva che sembra trasmettere di più di un semplice dramma storico. Il Titanic reca in sé il fascino di un “veliero fantasma” e l’anima della nave “pulsa” ancora nel buio. Il “cadavere” del transatlantico viene lentamente corroso dai batteri marini e si crede che tra poco meno di trent’anni possa scomparire del tutto sepolto dal fondale sabbioso: del Titanic non resterà che un triste ricordo.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Jake e rose dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Era il 1997, quasi due decenni fa, quando James Cameron vestiva i panni di un moderno Prometeo donando al mondo un’opera cinematografica entrata a pieno titolo tra i grandi simboli del cinema moderno. Se nel mito greco il Titano all’uomo, il suo essere prediletto, donava il fuoco per potersi scaldare dal tempo inclemente, Cameron offriva, invece, al modico prezzo di un biglietto d’ingresso: “Titanic”. Perché “Titanic” è idealmente paragonabile al “fuoco”, in quanto come esso è un elemento primario dalla forza dirompente, implacabile, generata dal semplice sfregamento di due pietre focaie. E’ solo una piccola scintilla da cui può divampare una fiamma imperitura. Per capire ciò che davvero abbiamo dinanzi, possiamo, in tutta tranquillità, allungare la mano e lasciare che venga lambita da queste “fiamme”, un po’come Mosè ne “Il principe d’Egitto” quando, impaurito, tentava di comprendere come fosse possibile che la vampa non consumasse le foglie e i rami del folto roveto, volgendo il braccio verso il rogo: ci lasceremmo accarezzare da quel tepore amico durante l’ennesima visione di una pellicola divenuta ormai un film di culto. La sua carica ardente ci circonda, ci avviluppa, diventa parte di noi, senza però riuscire a bruciarci; perché “Titanic” possiede in sé l’arte, l’essenza di non far dimenticare l’innesco che ha permesso a quella fiamma, prima così flebile, di diventare col trascorrere del tempo inestinguibile, tanto da continuare ad ardere ancora oggi in maniera viva e palpitante nel cuore di intere generazioni.

“Titanic” è un “elemento” della natura, perché è probabilmente il film più famoso di tutti i tempi. Si possono davvero contare sulla punta delle dita le persone che ammettono con disarmante naturalezza di non aver mai visto né sentito parlare del lungometraggio che vede protagonisti Kate Winslet e Leonardo DiCaprio. Come riusciamo a rammentare la sola, semplice idea di un qualcosa di così naturale e scontato per noi tutti come il fuoco, così possiamo richiamare, con la medesima facilità, l’immagine di alcune delle scene più evocative dell’opera. “Titanic” è un film entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo, persino nel parlare comune. Su esso si è disquisito ampiamente sin dalla sua uscita nelle sale, per non smettere poi di riportarlo in auge negli anni successivi, tra repliche mai passate inosservate in televisione e copie in VHS prima e DVD e Blu-Ray dopo, che hanno accompagnato molte delle serate in cui alla domanda “cosa guardiamo?” in tanti, specie i più romantici, inevitabilmente finivano per rispondere: “Titanic!”. Questo Kolossal è un film lineare, mai prolisso quanto perfettamente modulato nelle tempistiche, dal comparto tecnico, sonoro e visivo all’avanguardia per il periodo, così magistralmente amalgamato alla lavorazione, da risultare tutt’oggi straordinariamente contemporaneo. “Titanic”, però, dopo aver fatto battere forte il cuore a molti degli spettatori che ebbero la fortuna di vederlo al cinema, è diventato col tempo un film vittima del proprio successo, assistendo lentamente al disfacimento del proprio fascino innato che lo rendeva un prodotto cinematografico d’autore e d’intrattenimento al tempo stesso. La sua voglia di puntare sia alla mente che al cuore dello spettatore si è rivelata un’arma dal funzionamento impeccabile, ma purtroppo dall’effetto a doppio taglio. Perché “Titanic” nel suo successo planetario si dovette scontrare inevitabilmente con pareri diversi di valutazione, come, per esempio, l’essere stato considerato per molto tempo come un film alla portata di tutti. “Titanic” divenne infatti la più grande e pluripremiata opera commerciale che si era mai vista.

Il lungometraggio fu prodotto dalla 20th Century Fox, dalla Paramount Pictures e dalla Lightstorm Entertainment, casa di produzione di James Cameron che stanziarono un budget di 200 milioni per l’intera realizzazione della pellicola. Si trattava della lavorazione più costosa della storia del cinema. Al termine della sua lunga corsa ai botteghini mondiali, il film segnò un incasso stimato di poco inferiore ai due miliardi, che, senza tenere conto dell’inflazione, rese “Titanic” come il film di maggior successo della storia della settima arte. L’opera rappresentò un vero e proprio fenomeno di cultura di massa, con migliaia di persone che ritornavano nelle sale per provare nuovamente quelle intense emozioni col film che tanto li aveva coinvolti. “Titanic” aumentò la sua aura di successo irripetibile bissando il traguardo storico di vittorie agli Oscar, ben undici statuette, eguagliando così il record del capolavoro “Ben-Hur”, rimasto imbattuto nonché ineguagliato da 38 anni. Come il monumentale lungometraggio di Wyler, anche quello di Cameron si distinse per la corposa durata, che permise un dipanarsi completo e dettagliato della storia ambientata durante il tragico viaggio inaugurale della colossale nave, orgoglio dell’allora marina britannica.

Jack e Rose sono i due amanti a cui tanto il film deve il suo impressionante successo. Essi, così distanti, appartenenti a due classi sociali diametralmente opposte, incrociano i rispettivi destini a bordo del lussuoso transatlantico. Per Jack è il viaggio più importante della sua vita, conquistato grazie alla vincita di una partita a carte che metteva in palio i biglietti per un posto in terza classe verso la tanta agognata America. Il confine statunitense rappresentava il miraggio dell’indipendenza incarnato dalla Statua della Libertà che domina il porto di New York. Ci scherza su Jack, come se già a miglia di distanza riuscisse a vederla, minuscola all’orizzonte dalla prua della nave. Quel viaggio per Jack prende lentamente la forma della speranza, di quella speranza tanto attesa, l’unica possibilità per poter trovare un lavoro e costruirsi un futuro, fino a quel momento solo una chimera, poiché, per sua stessa amissione, egli vive giorno per giorno con entusiasmo senza però riuscire a intravedere un obiettivo concreto. Per Rose invece, salire su quella nave è una condanna perenne. La sua vita si defilerà così come la madre ha già stabilito: una volta approdata sul suolo americano dovrà sposare l’avido fidanzato verso cui non sembra provare alcun sentimento amorevole e dovrà vivere nell’agiatezza pagata con il sacrificio della libera scelta. Jack vede Rose per la prima volta sul ponte, mentre lei si sporge delicatamente da una delle ringhiere che delimitano i confini della nave. Jack la mira dal basso verso l’alto, in una costruzione artistica che circoscrive simbolicamente e nell’immediatezza, la demarcazione che intercorre tra i due. Lei appare così incantevole, portatrice di una grazia tanto meravigliosa quanto difficilmente raggiungibile poiché sita su di un rango sociale che la pone inevitabilmente al di sopra di un giovane modesto come lui. Egli sembra perdersi nella bellezza della donna, fantasticando sull’esigua possibilità di poterla avvicinare anche solo per un rapido scambio di parole, per poter ascoltare soltanto il suono della sua voce. I due si incontrano una notte, proprio quando la ragazza sta per compiere un insano gesto. Jack salva Rose dal disperato tentativo di togliersi la vita, gettandosi tra le gelide acque dell’Oceano Atlantico. E’ l’incontro tra due mondi posti agli antipodi, due realtà così diverse che cercano di avvicinarsi, ma per il momento si sfiorano appena. Jack diventa per Rose l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi nella straziante agonia di una vita monotona che le si prospetta davanti, resa ancor più triste dalla mancanza di affetti, e amplificata a dismisura dalla grandezza sconfinata dell’oceano, metafora dell’abbandono in cui Rose sarebbe sprofondata se non si fosse imbattuta nel suo salvatore e nuovo amico. Rose, già dalle prime scene, mostra una profonda ammirazione per l’arte quando depone delicatamente alcuni quadri, ad oggi d’inestimabile valore, sui divani dell’elegante cabina della prima classe del Titanic. Rose, nutrita e sorretta dal suo grande amore per l’arte, scopre il talento di Jack nel ritrarre le varie realtà delle persone emarginate, riuscendo a cogliere non soltanto le peculiari caratteristiche fisiche ma rappresentando in esse anche i tratti di un riflesso del turbamento emotivo e passionale che traspare da quei soggetti. Lei non si innamora del suo essere così diverso né della sua abilità artistica, quanto del sentimento che il “povero” riesce a scrutare negli occhi di chi sta osservando con tanta attenzione. Rose si innamora della mente dell’uomo ancor prima che del suo agire.

Jack la porta a ballare; ma si tratta di una festa improvvisata, ricavata tra i miseri locali della terza classe. E’ così che la ragazza comincia a conoscere tutto un mondo di cui lei, forse, ne aveva sentito solo parlare, quello delle persone meno abbienti, di chi riesce a godere anche del poco che ha, e di chi riesce a cercare e trovare la vena più gioviale anche nelle piccole cose. Jack strappa così Rose dalla sofferenza che nel silenzio lacerava il suo animo nella quotidianità della sua esistenza. Jack si innamora subito di quella dolce visione di donna e vorrebbe immortalarne lo splendore della sua giovinezza su un foglio di carta. Rose per sua espressa volontà vuole farlo senza veste né veli, con addosso solamente la collana del cuore dell’oceano in una delle scene più delicatamente sensuali mai mostrate sul grande schermo. Sciolta la vestaglia di color nero con alcuni ricami dalle tonalità dorate che scorrono sul leggiadro tessuto in seta, Rose si mostra nuda nella sua formosa bellezza dinanzi al volto imporporato di Jack. La donna si distende sul divano, dove poggia il capo su di un morbido cuscino volgendo il braccio sinistro quasi all’altezza dei suoi rossi capelli, e la mano destra poco distante dal viso, all’altezza delle candide gote. Lo sguardo di Rose resta fisso sull’uomo che comincia a ritrarla in un disegno che manterrà la propria magnificenza per quasi un secolo, dimenticato all’interno di una cassaforte adagiata sul fondo dell’oceano fino al suo ritrovamento. Il ritratto di Rose diviene così il simbolo artistico dell’amore tra i due naufraghi, una raffigurazione tangibile della loro passione riuscita a sopravvivere alla straziante tragedia cui la nave andrà incontro. La letizia del loro intenso amore trova la sublimazione nella notte trascorsa insieme all’interno di un’auto nella Sala Postale, proprio nel ventre della nave, lontani da quelle cabine così formali, così aristocratiche, tanto da rimarcare l’evidente divisione tra le varie classi sociali d’appartenenza. Laggiù, nelle viscere della nave, essi sono finalmente soli e magicamente insieme, proprio come due innamorati uniti nella medesima “realtà”: sarà il loro ultimo momento di sincero appagamento, di pura esaltazione amorosa.

Da lì a breve li attenderà la disperata fuga per trovare scampo alle acque gelide dell’oceano, che faranno di tutto per annientare la gloria dell’ingegno umano e la sapiente opera di tutte le maestranze che nulla possono contro la negligenza e la testardaggine di pochi, specie se un destino avverso vi aleggia intorno. L’acciaio si squarcia al forte impatto con l’enorme massa di ghiaccio e ben presto la nave viene letteralmente invasa dalle acque, prima di spezzarsi in due grossi “tronconi” e quindi inabissarsi, dove ancora oggi giace tra le profondità dell’oceano. L’apporto sonoro roboante e gli impressionanti effetti speciali rendono drammatica la disfatta del Titanic, che perde lentamente la propria possanza, venendo assoggettato alla potenza della natura.

Jack e Rose aggrappatisi disperatamente alla ringhiera della poppa della nave, dove si erano scambiati le loro prime parole, finiscono in mare. Rose trova riparo sui resti di una porta che galleggia, mentre Jack la esorta a vivere una vita piena, libera e soddisfacente, proprio come quella libertà che i due avevano avuto modo di provare solo fugacemente in quei giorni oramai giunti tragicamente a conclusione. Jack muore nell’assordante silenzio di oltre 1500 anime, anch’esse spentesi tra le gelide onde. Rose bacia le mani dell’amato, quelle che l’avevano dolcemente riportata a bordo, quando istintivamente voleva lasciarsi cadere in mare. Le bacia più volte, forse per dimostrare a Jack, anche se ormai esanime, l’amore che per sempre proverà per lui e per seguitare a ringraziarlo di averla salvata dal suo destino. Lo bacia un’ultima volta prima di lasciarlo scomparire nell’oscurità dell’oceano.

Arrivata sana e salva in America, Rose non potendo più vivere la vita che avrebbe sognato insieme a Jack, decide comunque di onorarlo, legando il suo “io” identificativo alla figura dell’amato perduto, assumendo il cognome Dawson che l’accompagnerà per il resto della vita. Una Rose centenaria, nel presente della narrazione, si arrampica sulla ringhiera dell’imbarcazione per tentare di rivivere un’ultima volta cosa provò quando finse di “volare” restando stretta all’abbraccio dell’amato sulla prua del Titanic. Rose, che ha vissuto una vita priva di rimpianti come aveva richiesto il suo grande amore, è riuscita nel suo ultimo desiderio: far sì che qualcun altro, oltre lei, possa ricordarsi di Jack e del loro emozionante vissuto. Ha restituito alla memoria di noi tutti, ascoltatori e spettatori oramai dagli occhi inumiditi, le gesta del proprio amato e pertanto, può finalmente accomiatare i ricordi lasciando cadere “il cuore dell’oceano” in mare, proprio laggiù, dove la carica di ogni suo battito si è mantenuta tra le onde di quell’infinità in cui riposa la reminiscenza del suo eterno amore. Addormentatasi profondamente forse per l’ultima volta, Rose si ricongiunge con Jack nella toccante scena finale del film, in un’immagine onirica che si perde nel bacio passionale dei due innamorati.

Cameron si erge a poeta dell’immagine, permettendoci di scrutare la raffinatezza del relitto tornato al suo originario splendore che fa da scorcio ad una grande storia d’amore. “Titanic” con le sue molteplici sfaccettature interpretative coniuga la veridicità storica con l’emozionante finzione narrativa. Il viaggio viene conseguentemente usato come strumento allegorico della “scoperta” e dell’incontro. La tragica disavventura della nave permette alla protagonista di strapparsi di dosso le vesti borghesi che da troppo tempo le comprimevano, in una “morsa straziante”, l’animo ferito. La traversata diviene così similitudine di una progressiva crescita nel cuore e nella mente della donna che scopre il primo amore e l’ispirazione che per sempre guiderà la sua vita. Jack, concepito come l’archetipo dell’eroe romantico, conquista Rose con la devozione di chi sa ascoltare il suo lamento, e con l’estro coinvolgente di chi anela a mutare la smorfia sofferente della donna in un sorriso emozionante a colpi di ballo. Egli fa volteggiare l’amata, danzando con lei in una serie di giravolte dove Rose si perde in un sincero sorriso di gioia: il compiuto innamoramento tra i due è da ricercarsi in questi intensi frangenti. La struggente morte dell’uomo coincide con la fine del viaggio dei due innamorati e la distruzione stessa della nave, di quella “creatura” concreta nella sua creazione ma al contempo astratta poiché figurata nel cuore dei due giovani, che non rappresentava altro che il luogo dove si consumò il loro amore. Jack muore perché ha compiuto il suo breve percorso, trovando la propria limpida felicità nell’amore di Rose, e dando la sua vita per lei. L’anima dell’uomo sembra attendere la donna con intramontabile devozione quando sul finire delle vicende, la scorge salire la grande scalinata che sormonta l’accesso alla prima classe del Titanic, segno che la loro storia nata in quell’indimenticato viaggio non potrà che ritornare a vivere eternamente in quell’apparente realtà. L’interpretazione e la palpitante alchimia dei protagonisti unita ad una regia d’alta scuola che esalta la cura del dettaglio scenico, sono tutti elementi che hanno reso questo film un capolavoro indiscusso che, tuttavia, ebbe un solo grande difetto, se così si può definire: l’essere stato un prodotto dal clamoroso richiamo mediatico. Una sorta di cassa di risonanza. “Titanic” divenne infatti un’opera ad ampio retaggio, essendo stata amata probabilmente in egual misura dai più esperti cinefili che dai meno avvezzi all’apprezzamento di questa nobile arte. In definitiva, detto così con poche parole, “Titanic” piace proprio a tutti. Con gli anni il film ha attirato attorno a sé un circolo di “detrattori” che polemizzano sulla smodata assegnazione di premi e sul suo successo così universale. Si è sviluppata la calunniante idea che se piace davvero a tutti allora non può essere una vera “opera d’arte” in quanto essa può anche suscitare diverse emozioni in ognuno ma resta comunque un qualcosa che solo i più “sensibili” o i più inclini al lato artistico possono davvero comprendere. A mio modesto parere, quando di una data cosa si parla continuamente o se ne riporta spropositatamente all’attenzione un qualsiasi particolare del suo “essere”, perde il proprio valore, la sua aura di unicità e di grazia cristallina, scadendo nell’essenza della realizzazione commerciale che antepone il guadagno economico al credo artistico. “Titanic” è caduto vittima dell’adorazione eccessiva del pubblico comune che tende appunto a idolatrarlo ossessivamente, venendo involontariamente meno ai credi dell’arte: essere a servizio di tutti ma meritevole dell’attenzione eloquente di pochi.

“Titanic” però, secondo me, insegna che l’arte può davvero essere un dono offerto a noi tutti, essendo essa capace di combinare la grandiosità del Kolossal con la sentita semplicità dell’intrattenimento romantico. Come il “fuoco” stesso anche “Titanic” finisce per divenire un qualcosa di “comune” che mantiene tuttavia lo stupore e l’importanza della sua prima volta, restando eternamente “giovane”, come in un sogno dove nulla è cambiato, esattamente come la visione finale in cui Jack e Rose, ancora giovani, ancora con indosso gli abiti che più li rappresentano, si ritrovano e, stringendosi in un forte abbraccio, si baciano una volta ancora.

Voto: 10/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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