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L’accusa, imperterrita, esortava il giudice Harper a sancire la condanna. “E’ la vigilia di Natale, tutti noi vogliamo fare ritorno alle nostre case…” affermava con impazienza l’avvocato. Nessuna prova a sostegno della difesa era pervenuta tra le mani dei legali di Kris Kringle, l’imputato chiamato a processo. Tuttavia, Kringle appariva pur sempre sereno. I suoi occhi fissavano la corte con immutata fiducia.  Quel simpatico vecchietto con quella folta barba bianca che gli copriva parte del viso, non smetteva mai di sorridere a chiunque incrociasse il suo sguardo.  Forse perché egli sapeva che un’espressione solare e bonaria fosse in grado di rassicurare il cuore di un interlocutore ancor prima di una parola pronunciata. Poco prima che il giudice ponesse fine alle “ostilità” in tribunale e pronunciasse la propria condanna, accompagnata dal canonico colpo di martelletto, l’avvocato difensore dell’anziano Kringle rientrò in aula con in mano le tante agognate “prove”. “Vostro onore, posso ora dimostrarle che Kiss Kringle è…il vero Babbo Natale”. Avete letto con attenzione? L’udienza che si stava perpetrando era volta ad emettere una sentenza piuttosto particolare: se il signor Kris Kringle fosse realmente Babbo Natale? Ma come può un uomo essere Babbo Natale? Tutti noi siamo consapevoli della sua inesistenza. Il signor Kringle doveva essere un “pazzo” se affermava con tale convincimento d’essere il papà del Natale. Ma prima di scoprire il fato cui andrà incontro il signor Kringle, facciamo un passo indietro, per riscoprire una storia incastonata tra l’immaginazione e la realtà, tra il vero e la finzione, tra il genio e la follia

  • La verità così è…

Kris Kringle, quell’arzillo vecchietto che si aggira per le strade di New York, è Babbo Natale. E’ la verità, perlomeno quella che l’opera vuol suggerirci. Del resto dovremmo tutti noi essere coscienti che non esiste l’assoluta verità, e che l’idea d’essere depositari di una sola verità non è che un’illusione costruita dall’uomo. Come nella vita così in un copione teatrale o cinematografico, la verità esiste secondo certi punti di vista che sfuggono dalla coercizione di una visione univoca.  Dunque, perché il personaggio di Kringle dovrebbe mentire se crede d’essere Babbo Natale? State vedendo un film natalizio, e colui che ricorda nell’aspetto, nei modi di porsi e nell’atteggiamento Babbo Natale, deve essere Babbo Natale. Riponiamo questa fiducia nel personaggio quasi come fosse una sottintesa ovvietà. Così è…se vi pare. La verità, alle volte, non è poi così chiara né dev’essere necessariamente a senso unico. Perché Kringle dovrebbe essere Babbo Natale? Non è arrivato dal cielo in sella alla sua slitta trainata da Impeto, Furia, Saltarello, Brontolo, Cometa, Cupido, Freccia, Fulmine, le sue amate renne. Non indossa il suo classico costume rosso scarlatto, anzi i suoi indumenti sono quelli di un distinto signore che passeggia in un giorno di fine dicembre “calzando” un elegante cappotto. Egli pare, a tutti gli effetti, un uomo qualunque. Nessun alone di impalpabile magia aleggia attorno alla sua figura né incantesimo alcuno viene pronunciato dalla sua bocca e filtrato dalle sue mani. E’ Babbo Natale solo perché dice di esserlo; ma perché dovremmo credergli? Proprio su questo interrogativo vorrei porre l’attenzione. Se un uomo qualunque venisse da noi e ci confessasse d’essere il signore della Notte di Natale non gli crederemmo di certo. Le nostre convinzioni sarebbero irremovibili: Babbo Natale non esiste. Dunque, perché sin dai primi minuti tutti noi spettatori siamo così pienamente convinti che Kriss Kringle dica il vero? Perché è un film! E la sospensione dell’incredulità ci invoglia a porre in lui la nostra fede. E’ proprio sul concetto di fede che il lungometraggio del 1947 “Il miracolo sulla 34ª strada” espleta la propria indagine.

Avere fede significa voler credere strenuamente in ciò che non si può né vedere né toccare, poiché la tangibilità può sostituire la fede con la certezza, e diventare pertanto evidenza. Persino in una narrazione filmica il pubblico può essere stimolato nello sperimentare una prova di fede. Il personaggio di Kris Kringle sembra sbucato fuori dal nulla, fuoriuscito dall’ignoto, emerso da una breccia in grado di demarcare il confine terreno tra l’incontenibile fantasticheria e la ragionevolezza più calcolatrice. Egli afferma d’essere nato e vissuto al Polo Nord, eppure gli unici suoi trascorsi registrati e documentati riportano che ha vissuto negli ultimi mesi presso una clinica per anziani rimasti soli e affetti da turbe mentali.

  • Fantastica follia

Che Kringle sia, in verità, un folle? Ma a tal proposito cos’è propriamente la “follia”? Si può compendiare l’affabulante personalità di un uomo, il suo estro sognante e la sua fantasia contagiosa e debellarla come mera deturpazione mentale? Kris Kringle interpreta il mondo con gli occhi di chi crede che dietro ogni cosa si celi un pizzico di magia. E così facendo, la realtà che si materializza sotto i nostri occhi viene vista e riletta secondo una prospettiva irreale, e per questo tendente alla fantasia più sferzante. Kringle è un folle o l’esatto contrario, vale a dire un “genio”?  Guardare il mondo esterno con gli occhi di chi sogna significa trasformare tutto ciò che ci circonda nella nostra personale tela pittorica sulla quale poter imprimere pennellate di colori. Volgendo gli occhi al cielo, vediamo la volta celeste solitamente tinta di un azzurro chiaro, con qualche nuvola di bianca consistenza simile alla candida seta. Non sarebbe del medesimo avviso Vincent Van Gogh, che osservava il cielo buio della notte e ne scrutava i dettagli che fuggivano dalla vista superficiale dei più. Nessuno indugiava ad ammirare i gorghi vorticosi che si stagliavano nel cielo, nessuno contemplava le luminescenze di quella notte stellata che lui, nei giorni seguenti, dipinse con trasporto. Perché il cielo di Van Gogh è soltanto un’interpretazione soggettiva? Perché non può essere una visione condivisa da chi sente che quella tela rispecchi anche il proprio sguardo sul mondo e su quel tetto azzurro che permane immobile sopra il nostro capo? E’ dunque una realtà distorta quella rivista dai pittori, dai poeti, e dai sognatori? E’ semplicemente un modo di abbracciare la vita, che antepone alla più fredda ragionevolezza un animo fantastico. Kringle, con la sua geniale follia, incarna dunque il credo nell’inaspettato.

E’ forse un folle Kris Kringle nel voler ammirare il mondo con una tale vivezza e con una gioia cromatica in grado d’esaltare i colori della positività dell’animo umano. Del resto, in un tempo in cui nel periodo di Natale il messaggio della festività è stato totalmente stravolto per venire piegato al bieco guadagno economico, è “folle” il comportamento di questo Babbo Natale, uomo nella norma che crede d’essere speciale. La storia gioca così con la fiducia del pubblico, il quale viene messo alla prova. Gli spettatori avranno fede? Crederanno nell’esistenza di Babbo Natale? Kringle resta costantemente un uomo comune, all’apparenza. Nessun evento straordinario sembra essere generato dal suo volere. Ma non è mediante la manifestazione della magia, nell’esternazione compiuta e vedibile che va ricercata la fede, del resto, in tal caso, non si tratterebbe più di fede. Sebbene Kringle non compia prodigi con le proprie arti magiche, egli comincia a mutare il mondo che lo circonda e lo fa mantenendo prettamente un atteggiamento normale. Quando viene assunto per indossare i panni di un “finto” Babbo Natale ai grandi magazzini Macy's di New York, Kris suggerisce ai genitori che incontra di comperare i regali nei negozi che offrono l’offerta migliore. Un agire il suo che lascia sgomenti tutti i suoi superiori e che stupisce gli acquirenti, colpiti dall’onestà di quello che credono un semplice dipendente. Supponendo che sia una mossa pubblicitaria, tutte le altre catene di negozi si regolano di conseguenza, suggerendo ai loro acquirenti di acquistare i doni dove potranno risparmiare. La corsa al guadagno viene disfatta dalla “magia” di questo Babbo Natale, il quale, agendo nella sfera del normale, compie un qualcosa di eccezionale.

E proprio ai grandi negozi Macy’s, Kris conosce Doris Walker, interpretata dalla meravigliosa Maureen O’Hara, una madre che ha cresciuto la figlia Susan non facendola mai credere nel fantastico, non raccontandole mai alcuna fiaba né favola di qualsiasi genere. Doris non vuole che la piccola si illuda, che la sua mente si perda tra lande infinite di immaginazione, poiché lei stessa rimase ferita da un sogno, quando un uomo si finse solamente un principe azzurro prima di abbandonarla per sempre.

  • Amara verità, dolce bugia

Cos’è vero, cosa non lo è, e come capirlo? Ed è dunque ad un processo che si può stabilire cosa sia vero e cosa no. Una corte, un giudice, una giuria, un accusatore e un difensore sono lì ad assistere e a dibattere sulla veridicità di un tema inusuale e assurdo: se Kris Kringle sia realmente Babbo Natale. L’amara verità indurrebbe tutti i presenti a pronunciare un verdetto contrario, che svilisca ogni forma di speranza nell’esistenza di una creatura magica; la dolce bugia, invece, spingerebbe i diretti interessati a proclamare un responso che scagionerebbe Kris. Ma come si può ammettere che egli sia davvero Babbo Natale? Ecco che l’avvocato difensore, Fred Gailey, uomo innamorato di Doris e da sempre amante della fantasia tersa e intellegibile, irrompe nuovamente sulla scena con in mano le prove. Sono solo tre lettere scritte da tre bambini e indirizzate a Kris, a Babbo Natale. A seguito di queste tre lettere, migliaia e migliaia giungono in tribunale, portate da postini provenienti da tutto il mondo. Ecco che la verità non è più ciò che così è se pare ai più, ma diventa un qualcosa che così è…se viene creduta dai più. I bambini, i veri depositari della verità incontaminata, credono in quell’uomo, credono che lui sia il vero Babbo Natale e lo fanno senza il bisogno d’avere alcuna prova. Se Kris rassicurava gli spiriti dei suoi cari semplicemente con lo sguardo, questa volta, veniva salvato dal potere della parola scritta, quella impressa su carta dai piccini che credono in lui. La fede dei bambini intenerisce la giuria e il giudice scagiona Kris. L’amara verità si mescola alla dolce bugia creando un sapore agrodolce, dove la bubbola e l’autenticità si amalgamano senza più differenze. Doris torna a credere nella magia, e con lei la piccola Susan, la quale ottiene sul finale il regalo che tanto aveva desiderato: una casa nuova dove poter vivere con la mamma e il suo nuovo papà, Fred. Era il dono che Susan aveva confessato a Kris di volere, il quale, senza magia alcuna, era riuscito a donarle.

Quello di poter vivere la vita attraverso l’immaginazione più dominante è il proposito che quanti più di noi dovrebbero prefissarsi allo scoccare di un nuovo anno. L’immaginazione non consiste soltanto nel vedere cose che nella realtà non esistono. La fantasia è un paese dalla natura del tutto particolare. Un mondo avulso dalla realtà circostante, nel quale possiamo lanciare palle di neve in spiaggia nel mese di agosto, in cui siamo padroni di una nave e facciamo rotta ogni giorno per i mari della Cina, dove possiamo diventare la Statua della Liberta all’indomani di un nuovo giorno, pronti ad ammirare il sorgere del sole da un’altezza titanica, e nello stesso pomeriggio poter volare verso il sud con uno stormo di anatre. E’ quanto mai possibile varcare quel mondo ed è così meravigliosamente semplice poterlo fare.

Ci vuole solo un po’ di pratica.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Sean Thornton (John Wayne), un uomo che ha abbracciato uno stile di vita tranquillo e permissivo, torna in Irlanda, la terra della sua famiglia, intenzionato a metter su casa, dopo aver accumulato una discreta fortuna combattendo come pugile a Pittsburg. Dal passato tormentato, Sean aspira a costruirsi una nuova vita un po’ alla volta, mattone su mattone, similmente a come sono state edificate quelle graziose abitazioni che sorgono su quella valle incantata, avvolta da verdi praterie, che egli mira non appena calca il suolo della sua Irlanda. Sean si innamora della bellissima Mary Kate (Maureen O'Hara), una donna dai folti capelli rossi. Comincia così a corteggiarla nella speranza di poter chiedere la mano della fanciulla al fratello e portarla presto all’altare. Durante i festeggiamenti per il matrimonio, però, il buzzurro Denhaer si rifiuta di dare alla sorella la legittima dote. Questo rappresenta un gesto irriverente nei riguardi della sposa, la quale confessa al marito che non potrà comportarsi da moglie né si considererà una donna sposata se prima non avrà raggiunto un compromesso con il villico e rozzo fratello. Sean, pur non comprendendo l’assurda perseveranza della consorte, che addirittura si rifiuta di consumare le nozze, accetta di buon grado di sottostare alle strane consuetudini del luogo, non prima d’essersi infuriato e poi meditando la propria rivalsa sul cognato.

Un uomo tranquillo” è un’ode glorificante, un carme elogiativo che John Ford scrisse su di un foglio di carta con uno stiletto a piuma intinto, di tanto in tanto, nell’inchiostro di un calamaio. Una stesura “retrò” per un inno dal retrogusto nostalgico e amorevole che egli compose per amore del proprio paese d’origine.  Le ampie panoramiche con cui riprende le bellezze di un paradiso terrestre, baciato dalle morbide e calde labbra di un sole radioso, sono solo una parte dei versi tributari che il regista scelse per descrivere, in una sequela d’inquadrature mozzafiato, la terra su cui i suoi avi mossero i  primi passi. “Un uomo tranquillo” è una poesia strutturata in rime baciate, dove l’immagine di un luogo puro e incontaminato si conclude con le medesime sillabe e fa subito rima con un’altra sequenza in cui vengono mostrati corsi d’acqua limpida e cristallina, che bagnano le verdi sponde di una valle lussureggiante. Il primo incontro tra John e Mary Kate consta di questa rima semplice ma elegante, specie quando il testo viene intonato vocalmente: John scorge la figura di quella splendida donna nel mentre ella passeggia su dei prati di un verde intenso e delicato che solo da quelle parti la natura sa offrire. L’incanto provato per le bellezze naturali si accomuna, in un etereo equilibrio di pregevole raffinatezza, con la leggiadria di quella figura femminile di cotanta celestiale beltà. Ma d’un tratto lo schema del componimento muta, e alle rime baciate si alternano rime alternate, che tendono, a volte, a incatenarsi tra loro. Le bellezze di quei luoghi s’incatenano coi violenti temporali che si abbattono sui due poveri amanti nella fase più romantica del loro innamoramento, e le meraviglie paesaggistiche impresse nell’ineluttabilità del tempo si intersecano con le usanze antiquate e la testardaggine degli abitanti di quell’Irlanda tanto bella e tanto rara.

John Ford, tra bucolici orizzonti, case di mattoni e tetti in paglia, fiumi trasparenti che scorrono in piena sotto pontili di legno, e paesaggi rassicuranti, scelse di girare la scena del secondo bacio tra John e Mary Kate sotto una pioggia incessante. Persino il primo bacio dei protagonisti venne filmato durante quella che sembrava essere a tutti gli effetti una vera tempesta. Le due più significative scene d’amore vennero immortalate nel momento esatto in cui gli amanti “cadono” preda del tempo più ostico e inadatto, contrapponendosi, quindi, a quel clima pacato che accompagna la visione degli spettatori nel lungo piano sequenza dedicato ai meravigliosi scenari irlandesi. Nel linguaggio cinematografico dell’opera, il tempo è atmosfera suggestiva dell’animo degli amanti, specchio e riflesso dell’iniziale relazione tra Sean e Mary Kate, fatta di tumulti e incomprensioni, di “bufere” e notti “tempestose”. La pioggia fa così da scorcio ad una delle scene più romantiche della storia del cinema, bagnando i corpi degli interpreti che, persi nella loro stretta, quasi non si curano della violenza degli elementi, che sembra essersi scatenata proprio per guastare il loro primo, vero incontro. Sfuggiti all’attenzione degli indiscreti e al riparo dagli sguardi dei meno ignari, Sean e Mary Kate dominano la scena, risultando per lo spettatore come i soli personaggi “vivi” nell’interezza del momento, quasi fossero rimasti completamente soli, lontani dalla realtà altrui e dalla fotografia mozzafiato delle precedenti inquadrature. La pioggia pertanto si presenta come testimonianza dell’unicità del momento, della bellezza prospettica, per rendere speciale il loro amore nell'immagine visiva della cinepresa. Se i due si fossero innamorati sotto un sole cocente, davanti a un fiammeggiante sfondo agreste, in uno scenario idilliaco, l’istante stesso si sarebbe omologato a qualunque altra immagine presente nella pellicola: l’amore della coppia si sarebbe accomunato all’amore del regista per la propria terra. Non doveva andare così, e di conseguenza la pioggia segnò la linea di demarcazione tra questo duplice amore. La pioggia non è altro che il caldo abbraccio di un freddo inverno, che sfiora i volti dei due innamorati per far prevalere il loro stesso amore, per renderlo ancor più sfavillante rispetto a una valle soleggiata.

Sean è l’estraneo, l’uomo tranquillo che si trova costretto a tollerare gli usi e i costumi di un luogo che fatica a comprendere come reale. Egli giunse in quella terra per dimenticare un passato violento, quando sotto i suoi colpi, in un incontro di Boxe, perse la vita un uomo, il suo avversario. Lo zotico cognato, col suo provocatorio atteggiamento votato alla zuffa, non gli permette tuttavia di mantenersi calmo e pacifico. Attraverso il suo protagonista, Ford estende i propri versi, volgendo un’analisi critica agli abitanti della sua terra d'origine, cocciuti, orgogliosi, a volte maschilisti e rozzi. La circostante campagna irlandese suscita sentimenti di quiete e riposo, scorci consoni ai desideri del protagonista che desidererebbe soltanto riposare e vivere beatamente con la propria sposa. La filosofia dell’opera però lascia emergere un nuovo suggerimento didascalico: lottare per la realizzazione della propria vita matrimoniale e non. Questo porterà Sean a spogliarsi del suo savoir-fare da uomo mite e rassegnato per inscenare una lite domestica sbruffona e scapestrata, consumatasi per 5 miglia, in cui Sean trascina Mary Kate fino a dove si trova il fratello della donna, data la sua reticenza ad abbandonare le proprie pretese. Da qui si scatena una delirante e squisitamente deliziosa rissa tra John e il cognato, che terminerà con l’ammissione di colpa dell’uomo e la giusta restituzione della dote alla sorella. E qui arriva il colpo di genio: Mary Kate brucia immediatamente il denaro e torna a casa entusiasta. Era soltanto una questione di principio, un atto di comprensibile presunzione, una minuzia d’orgoglio su cui la donna non poteva assolutamente soprassedere. John ne resta basito, ma comprende la forza che animava le ferree decisioni dell’amata. Con lei si commiata dagli spettatori, incamminandosi verso la propria dimora, stretto alla sposa in un abbraccio ben più profondo dell’esternazione di un legame: è la stretta del raggiungimento dei rispettivi sogni.

Il componimento termina con le ultime strofe, in cui torna ad espletarsi uno schema di rime baciate. In una dimora raggiunta dal sole, in un tempo idilliaco, l’amore tra Sean e Mary Kate può così sbocciare e accrescersi senza più alcuna remora. E’ ciò che, in fin dei conti, è tutta l’opera: un madrigale d’imperituro amore.

Voto: 10/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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