Vai al contenuto

"Batman, Catwoman e il Pinguino" - China di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Nascita

Tutti i rampolli dell’alta società di Gotham vestivano con frac neri, papillon e camicie bianche, camminavano in gruppi numerosi con andature preimpostate, talvolta goffe, somigliando a pinguini imperatori su scivolosi ghiacciai. Il ricco Tucker Cobblepot non era diverso da questi! Una sera, se ne stava immobile davanti alla grande finestra del salone. Il suo sguardo verso l’esterno sembrava volesse ricercare, tra i candidi fiocchi di neve, una tanto agognata serenità. Sebbene apparisse distinto, la sua faccia non riusciva a nascondere l’inquietudine che lo attanagliava. Se il portamento del nobiluomo non suggeriva più del dovuto, i suoi occhi smarriti continuavano a tradirlo. Per stemperare l’intollerabile tensione, il magnate fumava una sigaretta infilata nel suo bocchino, mentre con l’arcata superiore dell’occhio sinistro stringeva il solito monocolo. D’un tratto, egli avvertì l’urlo straziante della moglie. Ester si trovava nella stanza adiacente il soggiorno, e stava dando alla luce il loro erede, Oswald. La prima a sgattaiolare via da quella camera fu una sconvolta infermiera. La seguì il medico, coprendosi il volto con un fazzoletto di stoffa. Tucker corse dalla moglie, e quando la raggiunse si lasciò andare ad un grido di disgusto. Ester stava bene, ma il nascituro era spaventosamente deforme. Nel periodo natalizio, il bambino giaceva rinchiuso all’interno di una gabbia nera, per via dei suoi atteggiamenti aggressivi. Orripilati dal concepimento del loro primogenito, e addirittura spaventati dalla sua violenza, i genitori meditarono un piano per sbarazzarsi della creatura. Si incamminarono in una fredda serata invernale alla volta di un parco in cui, un tempo, sorgeva uno zoo. Tutt’e due mandavano avanti la carrozzina dentro la quale riposava, come in una oscura prigione, l’ignaro neonato. Quando furono in prossimità di un ponte, gli sposi incrociarono un’altra coppia, intenta anch’essa a passeggiare per strada sospingendo una carrozzina bianca.

Il regista inserisce questa famigliola per un breve passaggio e, altrettanto fugacemente, la fa sparire. Ma chi erano costoro? E se fossero i Wayne con il loro neonato Bruce? Non c’è dato sapere con certezza, e se, per questioni d’età, Oswald e Bruce si sarebbero potuti incontrare appena nati. Resta ancora oggi suggestivo il mistero circa questo strano incontro. Bruce e Oswald, i futuri Batman e Pinguino, nella visione del cineasta hanno in comune più di quanto credano. Se la storia non fosse andata così come stabilito dall’opera filmica, Bruce e Oswald, rampolli della nobiltà Gothamita, avrebbero frequentato i medesimi ambienti e, pertanto, si sarebbero conosciuti in tutt’altre vesti. Un fato imprevedibile, sin dalle origini, ha voluto, tuttavia, snocciolare un futuro diverso per i due, destinati a scontrarsi come acerrimi nemici. Oswald era una prole ripudiata, dominata da un destino terribile che lo ha voluto orripilante nell’aspetto e nel carattere, Bruce, invece, era un figlio adorato, la cui sorte avversa lo ha scelto come testimone inerme di un omicidio in una drammatica notte, quella in cui persero la vita i suoi cari.

Tucker e Ester sganciano il vano culla dalla carrozzina e, senza apparenti remore, gettano l’infante nel fiume così che possa morire per il gelo. Sconvolti, i due si soffermano ad osservare il particolare involucro che, trascinato dai fluttui, scompare nei bui cunicoli delle fogne. Come accadde a Quasimodo, il protagonista del capolavoro letterario di Victor Hugo, “Notre-Dame de Paris”, Oswald venne abbandonato per la sua bruttezza e per la sua inaccettabile diversità. La ricca e blasonata famiglia dell’antagonista del lungometraggio, così come è stata ideata da Tim Burton, si contrappone all’umile famiglia di gitani a cui apparteneva Quasimodo, l’uomo formato a metà, così come crudelmente era stato soprannominato da Claude Frollo, arcidiacono della Cattedrale parigina.

Il destino di Oswald è dunque offerto al volere delle acque, un accadimento che rievoca il racconto biblico di Mosè, anch’egli affidato alle correnti del Nilo dalla madre Jocabel. Parallelismi simili che però dipanano un’intenzionalità contraria: se Mosè era stato lasciato per essere salvato, Oswald viene abbandonato per essere obliato.

Invero, la culla del piccino viene dondolata dalle putride acque fognarie fino ad una grande caverna sotterranea del “Mondo Artico”, luogo in cui ha trovato asilo una colonia di pinguini, ultimi superstiti della sezione antartica del dismesso zoo cittadino. I pinguini rinvengono la “cesta” con il nascituro, adottandolo come fosse un cucciolo della loro specie.

"Batman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Solitudine

33 anni dopo gli eventi fin qui narrati, Gotham City è sotto la protezione di Batman (Michael Keaton), vigilante mascherato e paladino della metropoli. A turbare la ritrovata quiete della città sono le voci riguardanti gli avvistamenti del “Pinguino”, un misterioso essere mezzo uomo e mezzo uccello che si cela nelle fogne.

Molteplici sono i riferimenti religiosi che possono essere colti nel film di Burton. Oswald nasce nella stagione natalizia, un periodo in cui la religione cristiana celebra la venuta al mondo di Gesù.  Oswald (Danny DeVito), conosciuto con lo pseudonimo di “Pinguino”, torna nella sua città natale quando ha compiuto il trentatreesimo anno di vita. Un’età straordinariamente simbolica per la fede cattolica, poiché richiama l’ultimo anno d’esistenza terrena del Messia. Questi interessanti elementi fanno sì che la figura del Pinguino si presti, con le dovute proporzioni, ad una rilettura “mistica”, tanto da poter essere considerato il “profeta” di una nuova razza, in cui l’umanità e la bestialità animale si mescolano in un agglomerato raccapricciante.

In un imprecisato momento della sua vita, Oswald venne assoldato come fenomeno da baraccone. Raggiunta l’età adulta, il “freak” aveva il seguente aspetto: era un uomo tarchiato e informe, per di più calvo, anche se dalla sua nuca scendevano lunghe ciocche di capelli neri, unti e sudici. Un vistoso naso aquilino, appuntito e spiovente come il rostro di un grosso rapace, era la prima cosa del suo volto a balzare all’attenzione. I denti erano neri come la pece, e le sue mani avevano soltanto due dita, poiché le restanti tre si erano fuse insieme, formando una sorta di pinna.  Il suo incedere era dinoccolato e dava la sensazione d’essere affaticato: in tutto e per tutto egli assomigliava ad un Pinguino. L’aspetto designato per l’antagonista del film fu accuratamente ideato e realizzato sui connotati fisici dell’attore Danny DeVito attraverso un impegnativo lavoro di trucco. Burton voleva creare un cattivo grottesco e agghiacciante, sociopatico e terrificante, un personaggio che venisse odiato ma che, inaspettatamente, potesse anche essere compatito. La deformità del Pinguino non riguarda solo l’aspetto fisico ma anche la mente e parte del suo cuore. Oswald è tanto mostro esteriormente quanto interiormente, peculiarità che più lo differenzia dal Quasimodo di Hugo. Nel corso della sua esistenza, il Pinguino sviluppò una bizzarra ossessione per i “para-pioggia”. La sua nutrita collezione di ombrelli può essere considerata alla stregua di un arsenale, poiché il Pinguino nel tempo li ha modificati, trasformandoli in micidiali armi.

La prima apparizione di Bruce Wayne nella pellicola lo mostra trattenersi, insonne, nel suo studio. Il volto è sperduto, l’espressione corrucciata e la mano è posizionata all’altezza del mento, come se volesse rimarcare la riflessività del momento. Bruce è un pensatore e, in quegli attimi, egli sta scorrendo il suo passato. In fuggevoli attimi di ripresa, Keaton ha la capacità di esternare il tormento interiore del suo Batman, conturbato nel rimuginare. Il Bruce Wayne di Michael Keaton dorme di rado: di questo ne avevamo avuto un assaggio già nel precedente capitolo “Batman” del 1989. Dopo la notte trascorsa con la fotoreporter Vickie Vale, il protagonista faticava a prender sonno, e preferiva scacciare gli incubi vissuti ad occhi aperti temprando il proprio fisico con gli allenamenti. Anche in “Batman Returns”, cogliamo questa tensione silente, un’angoscia che tiene l’eroe in uno stato di allerta e di isolamento.

Selina Kyle (Michelle Pfeiffer) è un’impacciata e sciatta segretaria alle dipendenze di Shreck. Vive sola nel suo appartamento e possiede un gatto come animale da compagnia. Selina è gentile e premurosa in una realtà urbana infingarda e cattiva. La tragica morte per omicidio a cui andrà incontro, e il soprannaturale evento di resurrezione che la riporterà in vita, muteranno il carattere della donna la quale, una volta rientrata in casa, perderà il controllo di se stessa e distruggerà ogni elemento della propria casa che le ricordi la parte più pura, infantile e sognante della sua vita.  Selina strapazza e annienta i suoi peluches, imbratta col colore le magliette più “giovanili” del suo guardaroba, distrugge la casetta delle bambole che aveva sin da bambina per poi cucirsi un aderente vestito nero. Nasce da un parto violento e liberatorio Catwoman, l’essenza più incontrollata, tumultuosa, vendicativa e sensuale di Selina Kyle.

Batman, il Pinguino e Catwoman, sono, a loro modo, soli, incompresi, tormentati e nevrotici. Se Bruce ed Oswald personificano il bene e il male, Catwoman oscilla pericolosamente in ambedue i lati, incarnando un equilibrio instabile di luce e oscurità.  E’ interessante notare come i tre protagonisti corrispondano, nei loro alter-ego, ad animali: il pipistrello, il gatto e, per l’appunto, il pinguino.

  • Sospetto

Oswald, dopo aver scoperto la propria identità, ha l’intenzione di scalare le vette del potere municipale sino a ridurre la città di Gotham in cenere. Shreck prepara un accurato piano per riabilitare agli occhi dei cittadini-votanti la figura del Pinguino, aspirante sindaco di Gotham. “Batman Returns” mostra con quanta facilità possa essere manipolata l’opinione pubblica mediante un’orchestrata comunicazione politica basata sulla propaganda con l’ausilio dei media televisivi, i quali possono modellare ad arte, come argilla fresca, un’immagine distorta della realtà. Il Pinguino si presenta come il candidato perfetto, e attorno alla sua persona fa sì che si palesi l’alone astratto ma percettibile di un uomo umile, privato dei diritti che gli spettavano dalla nascita, orrido ma dal cuore d’oro. Sfoggiando un look in stile vittoriano, con frac, cappello a cilindro e monocolo, il mostruoso “uomo-anfibio” si trasforma in un “gentiluomo” raffinato, una mutazione che i giornali paragonano all’evoluzione del brutto anatroccolo in cigno.

Batman segue preoccupato l’ascesa al potere del Pinguino e nutre dei grossi sospetti. Già prima di quei giorni, una notte, l’eroe si era recato ad osservare l’agire del losco figuro, occupato a raccogliere informazioni sui primogeniti di Gotham con il “pretesto” di ricercare le proprie origini. La scena che vede Batman procedere con la batmobile durante una copiosa nevicata non è soltanto fascinosa ma didascalica circa le abilità intuitive del supereroe. In questa sequenza emerge infatti l’acume fine e il prodigioso intelletto di Bruce, il quale sospetta correttamente di un reo. La sfida a distanza tra il cavaliere oscuro e il Pinguino è appena cominciata.

"Batman e Catwoman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Passione

Tra il crociato incappucciato e la donna dai poteri felini si consuma, nelle lunghe notti di Gotham, una tormentata relazione passionale che vede l’amore e l’odio fondersi in un connubio torbido e divorante. Parallelamente alla relazione intrecciata nelle loro vesti mascherate, i due, senza conoscere le rispettive identità segrete, iniziano a frequentarsi anche come Bruce e Selina in pieno giorno. Passando dalla mattina alla sera, oscillando dalla luce all’oscurità, dal viso scoperto a quello nascosto da una maschera, in “Batman Returns” verità e inganni, segreti e bugie perpetrati dai due amanti s’intrecciano in una mescolanza separatoria eppure indistinguibile. Sia nelle loro vesti comuni di uomo e donna, sia nei loro panni di vigilatori in costume, la fatale attrazione che lega i due innamorati non fa che attanagliarli in un gioco distruttivo, dominato da un impeto carnale che sfocia in un erotismo selvaggio. Basti notare il costume della stessa eroina che evoca l’immagine di uno stringente e provocante abito sadomasochistico. Persino la frusta, l’arma utilizzata dalla donna per colpire e ferire Batman in uno dei loro interminabili duelli, richiama un tipo di arnese prestato a fini sessuali.

Il cavaliere oscuro e la “gatta ladra” si odiano e si amano, si perdono e si cercano, combattono senza esitazione nelle sommità dei grattacieli e poi cedono tanto da scambiarsi un intenso bacio sotto il vischio, dando consistenza e vigoria ad un rapporto in cui la violenza non è altro che un riflesso del desiderio, ed un colpo sferrato in combattimento risulta essere la richiesta disperata di una tenera carezza.  Contrariamente a ciò, tra Bruce e Selina, (attenzione non tra Batman e Catwoman), il rapporto appare più cristallino, poiché si instaura un amore che rappresenta quanto di più umano e speranzoso essi possano esprimere, quando non sono più schiacciati dagli obblighi imposti dai mantelli e dalle maschere. Durante un ballo in maschera, i tormentati amanti si incontrano per concedersi un lento. Proprio in tale contesto, essi rivelano la loro reciproca identità. Nella circostanza in cui tutti indossano un costume mascherato, Bruce e Selina colgono l’occasione per sdrucirselo di dosso vicendevolmente.

Se Batman e Catwoman sono obbligati a scontrarsi pur bramandosi, Bruce e Selina potrebbero riuscire a conquistare un futuro insieme. A tal proposito, togliendosi la maschera, sarà proprio Bruce ad implorare Selina, anch’ella strappatasi di dosso il suo “cappuccio”, di seguirlo nella sua casa, dimenticando il peso dato dalle rispettive controparti. Nei loro aspetti “umani”, entrambi ricercano un futuro insieme salvo poi dover rinunciare ad esso con totale frustrazione.

  • Abbandono

Varie e ambiziose erano le aspirazioni del Pinguino, ma, come un uccello che non può volare, egli non poté levarsi da Terra e raggiungere ciò che più agognava. Oswald dovette desistere dai suoi propositi quando Batman riuscì a smascherare le sue malefatte pubblicamente. Respinto dai cittadini di Gotham, isolato da Shreck, Cobblepot tornò al suo covo, meditando vendetta. Il suo efferato piano è pronto ad essere attuato: la cattura e l’assassinio di tutti i primogeniti della città, così da far pagare loro la “fortuna” d’essere figli di una famiglia che non li aveva dimenticati. Sarà nuovamente Batman a sventare i suoi intenti e a fermarlo poco prima che lo stesso Pinguino trovi la propria fine.

La scelta dell’antagonista di voler uccidere i primogeniti costituisce un ennesimo metro di paragone con il racconto biblico dell’esodo. La decima piaga d’Egitto scatenata da Mosè prevedeva, infatti, la discesa sulla Terra dell’Angelo della Morte, che avrebbe sottratto la vita dal corpo dei primogeniti dell’Egitto.

Il Pinguino era un essere cattivo, brutale e insensibile, ma allora perché negli istanti in cui procede lento, e seguita a trascinarsi nel suo stesso sangue, la musica malinconica e lo scorrere delle immagini riescono a far commuovere con una simile efficacia? Forse perché il Pinguino era un mostro di origine controllata, solo e malato, che fu abbandonato in egual maniera quando nacque così come quando morì. Lo avevano lasciato i genitori, lo aveva lasciato il morente Shreck, anche i membri del triangolo rosso scelsero, alla fine, di voltargli le spalle e scappare dalla sua crudeltà. Soltanto i pinguini rimasero con lui fino a che non esalò l’ultimo respiro. Gli stessi, procedendo insieme, spinsero il corpo di Oswald verso l’acqua, laggiù dove sarebbe dovuto morire quando non era che un bimbo in fasce. Come un corteo funebre, sotto gli occhi di Batman, i pinguini, anch’essi dimenticati dagli uomini quando lo zoo venne abbandonato, danno al loro simile l’addio in quel sepolcro acquatico. Forse Oswald aveva ragione quando disse che non era un uomo, ma un animale a sangue freddo visto che solo il regno animale lo aveva accettato.

La morte del Pinguino è una scena triste, che suscita nel cuore degli spettatori una silenziosa, commuovente e mostruosa compassione.

  • Fine

“Batman Returns” è il film più cupo, triste e drammatico mai girato sul cavaliere oscuro. La regia ispiratissima di Burton e la maestria interpretativa degli attori, tutti in stato di grazia, hanno permesso alla pellicola di fregiarsi dello status di cult.

Il secondo ed ultimo Batman Burtoniano mostra, negli ultimi scampoli del proprio corso, Bruce, separatosi da Selina, nel mentre ammira dal finestrino della sua auto il freddo ma sereno paesaggio di una Gotham innevata. E’ Natale, e ancora una volta l’unico “mostro” che ha scelto di non farsi corrompere e avvelenare dalla mostruosità della crudeltà umana continua a vegliare sulla città. Si tratta proprio di Batman, l’unico e solo eroe in grado di ergersi con razionalità sull’aberrazione. Tutto d’un tratto il batsegnale brilla nel cielo, richiamando l’arrivo del Supereroe, sotto lo sguardo vigile di Catwoman.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere il nostro articolo "Batman - Il cavaliere oscuro e quel suo lungo inverno" cliccando qui.

Potete leggere il nostro articolo "L'arte come ritratto della follia - Il Joker di Jack Nicholson" cliccando qui.

Vi potrebbero interessare:

"Navarre e Isabeau" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ogni fiaba che si rispetti comincia sempre con “C’era una volta…” E se decidessimo, solo per un istante, di sorvolare tutte le altre pagine della storia e andassimo a scorrere le ultime righe della nostra fiaba non ci aspetteremmo altro da leggere che: “…e vissero tutti felici e contenti”. E’ una formula ben collaudata e fin troppo nota, che non riserva alcuna sorpresa, pur restando sempre efficace come una gradevole consuetudine. In fondo è quello che noi lettori desideriamo: una prassi narrativa consolidata nel tempo ma con quel pizzico di novità nel suo sviluppo centrale. Una fiaba deve lasciarci viaggiare con la fantasia, seguendo quei dettami imprescindibili. Deve, per esempio, riportarci in un passato che altrimenti non potremmo vivere, facendoci appassionare a una storia d’amore tra un principe e una principessa, o ponendoci nelle condizioni di affrontare fattucchiere maligne, sapienti stregoni e addirittura draghi sputafuoco, da cui potremmo difenderci soltanto con l’ausilio dello scudo costruito da un abile artigiano del villaggio. La fiaba che sto per narrare potrebbe cominciare anch’essa con un bel “C’era una volta…” ma questo non sarebbe sufficiente   nella logica di una sceneggiatura cinematografica. Dovremo allora essere più specifici, scendere più nel particolare: il passato che andremo a vivere risale al lontano Tredicesimo secolo.

  • Sempre insieme, eternamente divisi

Un giovane ladro chiamato Philippe Gaston si appresta a compiere un’impresa mai riuscita a nessun altro prigioniero confinato tra le segrete del castello di Aguillon: fuggire. Strisciando per i sudici cunicoli delle caverne sottostanti, Philippe ritrova la libertà, scampando così da una condanna per impiccagione che si sarebbe consumata alle prime luci dell’alba. Le campane di Aguillon suonano senza sosta per segnalare proprio la prima, inaspettata fuga dalla fortezza. Certo di essersi lasciato alle spalle le guardie del vescovo, Philippe, nonostante gli assordanti rintocchi, decide di concedersi qualche attimo di riposo, sostando nei pressi di una taverna. Quello che il giovane non può immaginare è che molti dei commensali che siedono con lui al tavolo altri non sono che i cavalieri di Aguillon, prossimi a giustiziarlo. Philippe viene salvato dal provvidenziale intervento di un misterioso cavaliere. Il valoroso combattente afferma di chiamarsi Etienne Navarre, vecchio capitano della guardia di Aguillon. Navarre cavalca un maestoso destriero nero e porta sempre con sé un bellissimo falco a cui è molto affezionato. Philippe scende a compromesso con il misterioso cavaliere a cui deve riconoscenza: per ricambiare il favore di avergli salvato la vita egli dovrà aiutare Navarre ad irrompere nella roccaforte del vescovo, ritenuta fino a quel giorno praticamente inespugnabile. I due, divenuti amici per circostanza, si addentrano nel bosco prima del calar del sole. Il cavaliere, dopo aver legato il ladruncolo per impedirgli di scappare, si allontana proprio quando il sole sembra scomparire all’orizzonte, e mentre sta per genuflettersi davanti all’astro morente sussurra tra sé con voce compassata: “un altro giorno”.

Solo a notte fonda Philippe riesce a liberarsi, e così si dà alla fuga, ma dopo aver percorso soltanto pochi metri s’imbatte in un feroce lupo dal manto cupo e dallo sguardo di ghiaccio. Terrorizzato alla vista dell’animale, Gaston tenta di nascondersi in un capanno, quand’ecco che scorge una donna dal candido viso e dai grandi occhi color del cielo. La giovane avanza senza timore alcuno verso il lupo che, d’un tratto, si mostra domo e mansueto. La notte cede il passo agli albori di un nuovo giorno in cui Navarre riemerge dal bosco, e ritrova il suo adorato falco che volteggia alto nel cielo per poi finire la sua corsa sul braccio dell’amico cavaliere. La notte successiva, Philippe, per evitare che fugga via, viene ancora legato da Navarre, prima che questi si inoltri di nuovo tra la fitta vegetazione del bosco. Durante la notte si odono continui ululati che agitano non poco il povero Gaston, il quale viene liberato dalla stessa donna che aveva incontrato la notte precedente. La giovane afferma di chiamarsi Isabeau D'Anjou, e che purtroppo lei non è altro che una portatrice di dolore e sventura.  L’eterea bellezza di questa dama dei boschi è paragonabile a quella di un fiore appena sbocciato, ma al contempo prossimo ad appassire, perdendo via via quei petali tanto profumati che cadono al suolo come avvizziti dal freddo dell’inverno. Isabeau volge i suoi occhi affranti verso il bosco, per cercare di scorgere il lupo, i cui ululati echeggiano tra la fitta vegetazione, proprio come se lei riuscisse a leggere dentro quei versi emessi dall’animale.

Philippe, piuttosto turbato dalle figure del cavaliere e della donna, avvolte da un palpabile alone di misticismo, decide di scappare via, venendo tuttavia raggiunto l’indomani da Navarre e dal suo falco. Anche le guardie del vescovo rintracciano il ladro, e quando Navarre si frappone tra loro e Gaston, ne segue un conflitto che vedrà trionfare il cavaliere nero. Durante l’aspra battaglia il falco rimane ferito da una freccia scoccata da una balestra e precipita giù in picchiata, per poi poggiarsi ormai sfinito a terra. Navarre, sconvolto, si affretta a raccogliere la bestiola ferita e ormai prossima alla morte. Il sole sta tramontando quando Navarre ordina a Gaston in maniera perentoria di portare il volatile alla diroccata cattedrale del monaco Imperius. Quest’ultimo si prende immediatamente cura del falco ferito il quale, a mano a mano che i raggi del sole illuminano sempre meno le alte mura del castello, perde il suo aspetto di pennuto e ritorna a essere una bellissima fanciulla, la stessa che Philippe incontrava tutte le notti da quando scortava Navarre. Isabeau ha una freccia conficcata nella spalla, rivelando oramai per certo ciò che sembrerebbe apparentemente impossibile: il falco e la ragazza sono la medesima esistenza. Imperius riesce ad estrarre la freccia dal corpo di Isabeau che si lascia andare a un urlo di dolore quando, contemporaneamente, il lupo, fermo su di un’altura, ulula al plenilunio, cercando d’esternare le proprie sofferenze. Imperius svela a Philippe e a noi spettatori ignari di questa fiaba, che rimane ancora avvolta nel mistero, ciò che in effetti accadde nel passato. Giunta già da qualche anno ad Aguillon, la splendida Isabeau incantò molti degli uomini che ebbero la fortuna di ammirarla, ma tra tutti loro ella ricambiò soltanto l’amore di Etienne Navarre. Il capitano della guardia, venuto a conoscenza della folle attrazione che il vescovo nutriva per la bella Isabeau, decise di tenere nascosta la relazione tra i due, memore della sinistra fama che aleggiava attorno al prelato, confidando la verità soltanto ad un monaco che avrebbe dovuto, di lì a breve, celebrare le loro nozze in segreto. Il monaco, che si rivelerà essere lo stesso Imperius, tuttavia, tradì la fiducia dei due innamorati, quando ubriaco, confessò al vescovo la relazione tra Navarre e Isabeau. Consumato dalla gelosia, il vescovo maledisse i due giovani riversando su di essi i malefici del demonio che condannarono Navarre e Isabeau a una vita condivisa ma eternamente distante: di giorno Isabeau sarebbe stata tramutata in un falco, mentre di notte avrebbe ripreso le sue sembianze umane; Navarre invece sarebbe rimasto uomo di giorno e lupo al calar delle tenebre.

  • Alla scoperta di “Ladyhawke”: la notte e il giorno

Una Michelle Pfeiffer poco più che venticinquenne donò la sua celestiale bellezza alla giovane Isabeau, conferendo al personaggio un’aura particolare, contraddistinta da una sofferenza protratta nel tempo. Isabeau nell’interpretazione della Pfeiffer è una donna forte, che combatte senza alcun timore pur di proteggere Navarre quando egli, trasformato in lupo, rischia di cadere vittima di un sanguinario cacciatore. L’attrice possiede l’abilità di concedere al personaggio tratti tanto dolci e aggraziati quanto fermi e decisi, essendo essa disposta a tollerare il dolore di una vita oppressa da una strana forma di prigionia pur di non arrendersi, continuando a credere fermamente che ci sia ancora spazio alla speranza d’annullare il tristo maleficio. Navarre, interpretato da Rutger Hauer (già famoso per aver pronunciato il celebre dialogo finale in “Blade Runner”), è invece un personaggio molto più rassegnato al proprio destino rispetto a Isabeau. Sarà per via della sua maturazione, ben più evidente rispetto a quella della ragazza, che lo porta ad affidarsi poco a un’aspettativa che potrebbe rivelarsi un’utopistica illusione. Navarre è un cavaliere dall’indomito coraggio, che rispecchia totalmente i caratteri tipici dell’eroe solitario e incorruttibile che si batte più per amore di Isabeau che non per se stesso.

In fondo domani è un altro giorno…” è una delle frasi più famose pronunciate da Vivien Leight in “Via col vento”. Un messaggio di speranza che la protagonista del capolavoro del 1939 diceva a se stessa, per continuare a credere in un domani migliore e in un futuro benevolo. In “Ladyhawke” il domani è soltanto la triste, seppur diversificata, ripetizione di un giorno già trascorso. L’indomani non reca alcuna speranza per il cavaliere nero, poiché il sole seguiterà sempre a sorgere e le tenebre scenderanno comunque ogni notte sulle vite dei due innamorati. Ne deriva un’evidente demarcazione rappresentata dai protagonisti: il buio e la luce, la notte e il giorno. Navarre con indosso un’armatura coperta da un mantello nero reca sempre con sé il simbolismo della notte, dell’oscurità che tortura il suo spirito. Isabeau, invece, è una fanciulla dai lineamenti angelici che cammina solitaria tra i boschi con la grazia indiscussa di un elfo nato dalla penna di J. R. R. Tolkien. Come i protagonisti, che risultano intrappolati in una specie di vita a metà, così “Ladyhawke” è una sorta di storia prigioniera in un genere ambivalente: quello della fiaba e della favola. Navarre e Isabeau nelle loro fattezze umane assurgono ai canoni della fiaba, ma nella loro trasformazione in creature della foresta e del cielo tendono ad avvicinarsi ai velati aspetti della favola, con gli animali intesi come incarnazioni di ideologie e credenze del tempo. Una seconda diversità personificata dalle due creature è da ritrovarsi nei due “spazi vitali” in cui si muovono la donna e l’uomo. Isabeau, tramutata in falco, diviene la signora del cielo, volando con le proprie ali fino alle vette più estreme. Navarre invece, trasformato in un lupo, è il signore della notte, rimasto con le zampe ben ferme a terra, potendo solo alzare i suoi occhi al cielo, in quella “realtà” così distante che non potrà mai raggiungere. Il lupo nero ulula alla luna come se volesse lasciarsi andare ad un malinconico canto che soltanto il cielo può accogliere nella tranquilla “riservatezza” della notte. Come il lupo resta attratto dalla luna, non riuscendo a scorgerla pienamente perché fin troppo distante, così Navarre, subita la trasformazione, cede a un continuo lamento verso quella volta celeste in cui, di giorno, il suo falco vola maestoso. L’ululato del lupo nel film altro non rappresenta se non il grido disperato di Navarre rivolto al cielo, quella realtà che egli non può raggiungere esattamente come non può rivedere Isabeau. La dannazione circa il fato dei due sfortunati innamorati è ulteriormente rimarcata nel tema dell’incomunicabilità. A differenza delle favole di Esopo, gli animali non possono esprimersi in quanto tali, e la vicinanza tra Navarre e il suo falco non può che limitarsi a lievi carezze che l’uomo riserva all’adorato pennuto. Isabeau, al contempo, può soltanto placare l’animo irrequieto del lupo accarezzandone il manto per regalargli qualche attimo di conforto e serenità. Navarre e Isabeau, divisi da una metamorfosi corporea, non possono quindi comunicare neppure con brevi sguardi corrisposti. La figura di Philippe si pone nel mezzo, essendo essa utile a garantire un punto di raccordo tra i due innamorati privati della possibilità di potersi rivedere. Di giorno Philippe riporta al suo salvatore le parole pronunciate dalla bella Isabeau, e di notte ciò che Navarre vuole che Isabeau sappia. Philippe rappresenta quindi una sorta di “trasposizione” eseguita dal regista Richard Donner nei confronti dello spettatore, nel caso in cui uno di noi fosse “catapultato” in questa fiaba e si trovasse interposto tra queste due anime separate da forze rie e ostili.

L’ambientazione del film è spiccatamente italiana, con il castello di Rocca Calascio e il Borgo di Castel del Monte come luoghi prescelti per impreziosire ancora di più una ricostruzione scenografica di un mondo medievale. In “Ladyhawke” traspira un amore per il cinema girato dal “vero”, tipico degli anni ’80, in cui si prediligeva scegliere da principio aspetti sognanti e fantasiosi, infondendo in essi i caratteri più profondi di un’indagine sull’animo umano e verso l’amore ben più articolata di quanto sembrerebbe a priori. “Ladyhawke” è una fiaba onirica, costantemente in bilico tra il sogno e la veglia, tra la realtà crudele e il mondo idilliaco del miraggio fantastico.

La scena più intensa del film è senza dubbio quella in cui Isabeau attende il sorgere del sole, riparata in un piccolo spazio, distesa assieme al lupo. Il sole comincia a sorgere dietro le colline e i raggi luminosi irradiano l’epidermide dell’animale. L’incantesimo si disfa progressivamente e Navarre si materializza, riprendendo la sua forma umana. Il sole non è ancora sorto completamente e Isabeau ha mantenuto ancora il suo aspetto naturale, quando Navarre si volta riuscendo a vederla. I due innamorati tornano a rimirarsi dopo interminabili mesi, ma non appena allungano le mani per potersi a stento sfiorare, l’inclemente maleficio si manifesta di nuovo e Isabeau, trasformatasi in falco, vola via: delle brevi sequenze dall’innegabile valenza commovente. Guardare la persona a noi più cara, poterla fissare ogni qualvolta lo desideriamo, avere la possibilità di stringerla a noi, farle una carezza per mostrarle tutto il nostro affetto, è ciò che spesso diamo per scontato. Dinanzi a due innamorati che dispongono appena di qualche istante per potersi soltanto intravedere non possiamo fare a meno di chiederci quanto sia ineluttabile il destino di una vita e quanto valore abbia il tempo che passiamo assieme alle persone amate.

  • Un giorno senza la notte e una notte senza il giorno

Navarre, non vedendo alcuna via d’uscita da questa tragica sorte, decide di vendicarsi irrompendo con Philippe nella fortezza di Aguillon per uccidere il vescovo. Il cavaliere prima di intraprendere quest’ultima missione ha ordinato a Imperius di uccidere il falco se avesse udito le campane della chiesa suonare, poiché ciò avrebbe significato la morte dell’uomo. La chiesa guidata col pugno di ferro dal crudele porporato assume i caratteri contrapposti a quelli della casa di Dio, cui dovrebbe essere, divenendo invece un luogo tetro e malvagio, dimora del diavolo. Il vescovo di Aguillon, nella sua ideazione, sembra essere ispirato a Claude Frollo, il prete custode della cattedrale di Notre-Dame nel capolavoro letterario di Victor Hugo “Notre Dame de Paris”. Come Frollo anche il vescovo s’innamora di una giovane donna dalla bellezza indescrivibile, ammirata per la prima volta sul sacrato della chiesa in cui Isabeau (Esmeralda nel libro di Hugo) trascorreva alcuni momenti della sua giornata. Il vescovo è paragonabile alla figura del truce religioso parigino soprattutto per la sua folle concezione dell’amore: un sentimento violento e possessivo, che lo porterà a sviluppare l’idea che se non potrà avere lui quella donna allora non l’avrà nessun altro. L’elemento soprannaturale però è unicamente riscontrabile nell’agire del vescovo, che maledisse i due giovani per impedire loro di vivere appieno l’amore che provano l’uno per l’altra. “Ladyhawke” tenta inoltre di mostrare come in epoca medievale la chiesa fosse una potenza politica e militare che poteva contare su imponenti eserciti e dominare con velleità dittatoriali. Navarre prima di poter affrontare il vescovo dovrà duellare con il capitano della guardia. Navarre, come ha sempre fatto, indossa un’armatura scura mentre sta in sella al suo cavallo nero; il suo avversario, invece, cavalca un cavallo bianco, difendendo una chiesa corrotta, un “bene” in questa storia non cristallino, anzi alquanto “opacizzato”. Appare evidente una sorta di dicotomia contrapposta tra i colori di scena rispetto alle scelte classiche, in cui il nero rappresenta il bene e il bianco il male. Al termine della contesa, Navarre sconfigge il cruento rivale, prima di accingersi a uccidere il vescovo. In quel momento avviene un’eclissi solare, e la luce del mattino tende a perdersi in una flebile oscurità: è un giorno senza la notte e una notte senza il giorno. Isabeau improvvisamente varca la soglia della chiesa: la maledizione si è spezzata. Navarre, una volta intravista l’amata, ignora improvvisamente il suo acerrimo nemico per avvicinarsi a lei. I passi dei due giovani si fanno sempre più incalzanti e in prossimità dell’altare, Navarre, prostrandosi in ginocchio, riabbraccia Isabeau. La splendida ragazza si avvicina in seguito al vescovo, che abbassa lo sguardo sopraffatto dalla vergogna. Isabeau mostra le sue mani oramai “spoglie” delle dannate catene in cui l’aveva confinata. Il porporato accecato dall’odio non accetta la sconfitta, e tenta di sorprendere alle spalle la giovane donna, ma Navarre, avvertito il pericolo, si volta di scatto e trafigge il prelato con la sua spada, uccidendolo. Navarre quindi si ricongiunge a Isabeau e l’abbraccia calorosamente, sollevandola con forza verso l’alto, mentre la ragazza, voltando lo sguardo all’indietro, si lascia andare ad un sorriso liberatorio. L’eclissi svanisce e il sole torna a risplendere, illuminando così i corpi dei due innamorati attraverso la vetrata della chiesa.

Terminare questa meravigliosa storia d’amore con la formula di rito “…e vissero tutti felici e contenti.” potrebbe apparire come un qualcosa di riduttivo alla celebrazione di un tale momento di gioia. Tuttavia non possiamo essere certi che i due innamorati abbiano vissuto per sempre nella felicità più autentica e cristallina. Ciò che è certo però è che da quel momento in poi ebbero di nuovo la possibilità di poter vivere comunque la loro vita assieme.

Preferisco terminare queste mie osservazioni sul film dicendo solamente che Isabeau e Navarre vissero per sempre uniti e mai nessuno più li divise, finché il sole continuò a sorgere e a tramontare, finché ci fu il giorno e ci fu la notte.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbe interessare:

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: