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"Amore e Psiche" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

(Rilettura personale del mito greco)

Una fiaba scritta dai fratelli Grimm raccontava di una regina bellissima ma diabolica, che possedeva uno specchio magico a cui era solita domandargli quale fosse la donna più bella di tutto il reame. Alcune volte lo specchio delle brame, per deliziare la vanità della sua padrona, le dava risposta riconoscendo in lei la più bella, altre, però, lo stesso si limitava a lasciare che la regina rimirasse semplicemente il proprio adulato riflesso. Un giorno, però, lo specchio, a quella retorica e vanesia domanda proferita dalla monarca, rispose in modo insolito e quanto mai inaspettato. Una bambina dalla pelle candida come la neve e dalle labbra rosse come il sangue sarebbe divenuta, una volta raggiunta l’età adulta, la più bella di tutto il reame. La regina, oltraggiata, incaricò un cacciatore di scovare l’infante e di ucciderla. Il cacciatore, tuttavia, non avrà la forza di macchiarsi di un gesto tanto crudele ed efferato e salverà la piccola, nascondendola. Come finirà questo racconto popolare è storia nota…

Non possedeva uno specchio magico ma anch’ella, similmente a come faceva la regina della  fiaba appena citata, si specchiava con una certa frequenza. Con frivolezza, ella si compiaceva della propria bellezza, orgogliosa d’essere la creatura femminile più bella di tutto il creato. Era nata dalla spuma del mare, e aveva raggiunto la terraferma su di una conchiglia sospinta dal vento. La dea dell’amore, Afrodite, viveva su nell’Olimpo, dispensando amore agli uomini e alle donne. Un giorno, giunse all’orecchio di Afrodite una diceria intollerabile, secondo la quale, sulla Terra, viveva una giovane fanciulla chiamata Psiche (“Anima” in greco). Nessuno specchio delle brame le aveva fatto notare nulla al riguardo, ma gli dei erano certi di quel che le riferivano: - Psiche ha i lineamenti del viso talmente delicati da poter essere ritenuta ancor più bella della dea Afrodite -. Come avvenne nel cuore di quella regina cattiva cui facevo menzione, anche ad Afrodite la rabbia e la gelosia le indurirono lo spirito. Afrodite, furibonda, convocò il figlio Eros ordinandogli di far innamorare Psiche di un orribile mostro. Con le sue grandi ali bianche, simili a quelle di un angelo, Eros discese dal monte Olimpo, portando con sé il suo arco e la sua faretra ricolma di frecce.

Sebbene fosse tanto splendida, Psiche non riusciva a trovare marito e, un mattino, affranta per la sua solitudine, cominciò a piangere a dirotto mentre si trovava nei pressi di un colle. Eros raggiunse la valle e da laggiù intravide per la prima volta Psiche. Incantato dalla bellezza della giovane donna, Eros ebbe pietà di lei. Come il cacciatore di “Biancaneve”, desistette dal commettere un atto tanto iniquo e ripose la sua arma. Eros non riusciva a distogliere lo sguardo da Psiche, le lacrime versate dalla fanciulla lo impietosirono a tal punto da suscitare in lui forti sentimenti. Tirò così fuori dalla faretra una delle sue frecce e si trafisse egli stesso un piede. D’improvviso, Psiche si sentì sollevare dolcemente dai venti zefiri e, volteggiando sul mare, raggiunse una regione sperduta, per essere poi adagiata dinanzi ad una reggia tutta splendente. Eros si era innamorato perdutamente della fanciulla e l’aveva portata con sé nella sua dimora segreta, dove neppure la madre Afrodite sarebbe riuscita a trovarli. Psiche varcò la soglia della reggia e cominciò a visitarla, presa dalla curiosità. Le porte che conducevano alle ampie camere erano d’argento, le mura che delimitavano la sala grande sita all’ingresso erano fatte d’oro, i soffitti d’avorio. I pavimenti erano azzurri con sparse increspature di bianco e davano alla giovane la sensazione di camminare come sulle nuvole. Non ci fu nessuno ad accogliere Psiche, il palazzo regale pareva essere disabitato, eccetto che da servitori invisibili, che, palesandosi a sera inoltrata, le servirono la cena.

Quando scese la notte, Psiche cominciò ad avere paura, non trovando nessuna lanterna per poter schiarire le fitte tenebre della propria camera da letto. Eros, infatti, non voleva farsi guardare agli occhi della mortale e nel talamo si presentò a Psiche permanendo nell’oscurità. Avvertendo la presenza del dio, solamente avendolo accanto, Psiche ricambiò l’amore di Eros e tra i due cominciò una meravigliosa e dolce unione che perdurerà per tutte le notti a seguire. Psiche vive  sostanzialmente “intrappolata” nel castello di Eros, ma non avverte affatto d’essere prigioniera. E’ un po’ come Belle, che non sentì mai d’essere in effetti rinchiusa nel castello magico della Bestia, innamoratasi perdutamente di lei. 

Psiche vorrebbe, però, rivedere le sue sorelle, e raccontare loro un tale amore provato e vissuto. Eros la mette in guardia dal rendere noto il loro amore, ma Psiche insiste nel volerle incontrare. Acconsentendo alla richiesta della fanciulla, Eros conduce le sorelle di Psiche alla reggia ma le ragazze, aggressive e perfide come le sorelle della fiaba di “Cenerentola”, insinuano il dubbio nella mente di Psiche circa le reali fattezze del suo amante.

Psiche, senza neppure guardarlo, si era invaghita di lui, perché aveva avvertito empaticamente la purezza della sua anima: era quella la forma di amore spirituale.  Ma la curiosità della donna nel voler vedere anche l’aspetto del compagno, e beneficiare conseguentemente della chiarezza estetica di un amore carnale, divenne incalzante. Fu così che prese una lampada ad olio per illuminare il volto del suo amante e raggiunse di corsa la camera da letto. Eros si era appena addormentato. Psiche si intrattenne a lungo ad osservarlo, scorse i capelli dai riccioli d’oro del dio e le rosee guance, ma di più la colpirono le candide ali con riflessi argentei. Nel volerlo osservare ancor meglio, Psiche avvicinò la lampada al corpo dormiente del dio. La sua brama di conoscenza fu fatale, una goccia dell’olio della lampada cadde su Amore che rimase ustionato e, sentendosi tradito, risalì al cielo, abbandonando la sua amante. Fallito il tentativo di aggrapparsi alla sua gamba, Psiche, straziata dal dolore, tenterà più volte di porre fine alla sua esistenza, ma gli dei la salveranno ogni qual volta tenterà di attuare i suoi estremi propositi. Inizia così a vagare per diverse città alla ricerca del suo sposo.

Quando era prossima a perdere la speranza, Psiche fu raggiunta da Afrodite, la quale le disse che per sperare di rivedere Amore avrebbe dovuto sostenere quattro prove: la prova dei semi, della lana d’oro, dell’acqua sacra e la prova del vaso della bellezza. Nella prima, Psiche dovette dividere un enorme mucchio di semi diversi tra loro in tanti mucchietti uguali. L’impresa è ovviamente ardua per una sola ragazza, ma un aiuto inaspettato arrivò da una famigliola di formiche. La seconda prova consistette nel raccogliere la lana d'oro di un gregge di pecore. In realtà, le pecore erano degli arieti aggressivi e perennemente inquieti e, una volta avvertita, Psiche riuscì a raccogliere le lane rimaste tra i cespugli, aspettando la sera. La terza prova consistette nel raccogliere acqua da una sorgente che si trovava in cima ad un’altura a strapiombo nel vuoto. Anche in questo caso la fanciulla avrà un aiuto esterno, riuscendo a compiere l’impresa con l’aquila di Zeus.

Nell’ultima prova Psiche rischiò di morire: dopo aver aperto il vaso offertole negli inferi da Persefone, svenne e caddé in un sonno profondo. La fanciulla venne salvata poco prima di soccombere da Amore che, fuggito dalla prigione in cui la madre lo aveva confinato, strapperà Psiche dalla gelida presa della morte, risvegliandola con un bacio, esattamente come farà il principe di una fiaba con la sua promessa sposa, Aurora.

"Amore e Psiche" - Gruppo scultoreo di Antonio Canova

 

Eros portò la bella nel suo castello. Zeus, vedendo la fanciulla prostrata alla fatica, mosso a compassione decise di far riunire definitivamente i due amanti. Psiche ascese al cielo, divenne una dea e sposò Amore, dalla cui unione nascerà Voluttà. E così vissero tutti felici e contenti

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Orfeo ed Euridice

(Personale rivisitazione del mito greco)

Giù, alle fronde di una quercia se ne stava, taciturno e con gli occhi chiusi, un giovane. Si era disteso sul soffice sottobosco, e lì era rimasto per alcune ore, perso tra i suoni della natura. Non stava dormendo, anche se così pareva. Era assorto ad ascoltare l’armonia del bosco. Il cinguettio degli uccelli che volteggiavano di albero in albero, il rumore del ruscello che scorreva verso la vallata, la roca “voce” del vento che sussurrava tra le fessure degli alberi erano i canti di una fauna ma anche di una flora che lo avevano avvolto in un microcosmo di pura gaiezza.

Orfeo, quello era il nome del giovane, di rado emetteva un fonema, piuttosto saltuariamente esternava un flebile sibilo, eccezionalmente pronunciava alcunché che non fosse una canzone. Non soleva parlare, forse perché le parole, unione di vocali e consonanti, erano per lui banali, se non addirittura superflue. Esse non riuscivano ad esprimere completamente ciò che lui avrebbe voluto manifestare. Orfeo portava con sé uno strumento, una lira, che utilizzava per comunicare, preferendola alla parola. Talvolta, per quanto meravigliosa, non adatta del tutto ad esprimere un sentimento per chi fa delle note il solo mezzo per veicolare il proprio pensiero. Orfeo era un musicista dalla sensibilità di un poeta. Non poteva essere altrimenti, sua madre era Calliope, la musa della poesia epica. Orfeo, pur ammirando la potenza emotiva che poteva essere mossa in lui da un canto poetico, preferiva la leggiadria della musica. Egli non ricercava una tavoletta su cui incidere i versi che il cuore gli dettava, era, invero, la musica, il solo mezzo d’espressione con il quale si sentiva a suo agio.

Quando produciamo arte, che sia scrittura, musica, canto, poniamo a nudo la parte più intima di noi stessi: l’anima. E’ come se le vesti ci venissero strappate di dosso e una luce intensa e accecante irradiasse il nostro corpo, cosicché una persona, una soltanto, colei che più lo desidera, riesca a mantenere fisso lo sguardo senza essere abbagliata. Immaginate che la luce si affievolisca sino a scomparire del tutto, e un’essenza impalpabile ma visibile, spoglia e sincera, permanga. Si tratta della nudità che generà l’amore, e tale amore vero, disinteressato, partorisce a sua volta un ricordo eterno, incarnatosi in una relazione, che ostacola l’implacabilità della morte.

Orfeo in ogni suo brano musicale è solito rilasciare un frammento astratto della propria anima. Tutti restavano incantati dalle note che egli emetteva con la sua lira, uomini e donne, fiere e piante.  Un giorno, in quel bosco in cui egli amava sostare, un suono dolce e soave lo “svegliò” di soprassalto, facendolo drizzare in piedi. Udì distintamente il risolino di una ninfa. Camminava a piedi scalzi tra la fitta boscaglia, con i lunghi capelli che le coprivano, solo in parte, il corpo nudo. Euridice era il suo nome, ed era una driade.

Le driadi, avvenenti, eteree, sagge e rigogliose come un fiore appena sbocciato che si regge su di un saldo stelo, vivevano nella foresta, incarnando la forza e lo spirito di essa. La celestiale bellezza della ninfa rapì il cuore di Orfeo con la medesima rapidità di un dardo scoccato dall’arco di Cupido. Il figlio di Calliope attirò l’attenzione della ninfa pizzicando la sua lira. Euridice accostò l’orecchio e poi si lasciò guardare da Orfeo, emerso, nel frattempo, dalla folta vegetazione. Le note prodotte dallo strumento furono una sorta di dichiarazione d’amore che il giovane volle intonare per Euridice. Tale confessione romantica non fu pronunciata, non era fatta di parole scritte, venne fuori da un’armonia musicale, e si levò dalla fredda terra per raggiungere la sfera celeste sino a perdersi tra le costellazioni ordinate da Zeus. La dichiarazione d’amore, sotto forma di melodia, divenne una stella luminosa, incastonatasi nel firmamento sconfinato, così come era l’amore di Orfeo. Il giovane mise a nudo la sua anima, e si lasciò ammirare dalla ninfa, anch’ella senza vesti né veli, anch’ella innamorata. Orfeo, ai suoi componimenti melodici, non accompagnava mai alcun canto vocale. Fu per la prima volta Euridice a cadenzare la musicalità con la sua voce gradevole e ben intonata. Nei giorni a seguire, Euridice cantò per Orfeo, ed Orfeo suonò per Euridice, in un connubio passionale di musica e parole. Ma il suono che più compiaceva Orfeo era sempre quello che Euridice lasciava trapelare ogni qual volta sorrideva.

Euridice giurò il suo eterno amore ai piedi di un altare di petali e foglie e, sotto un arco nuziale di rami intrecciati con fiori colorati e dai mille profumi, Orfeo la prese in moglie.

L’idillio d’amore tra Orfeo ed Euridice venne tragicamente spezzato da Aristeo, uno dei figli di Apollo. Questi, uomo rozzo e brutale, si era invaghito di Euridice, e non riuscendo a placare il proprio impeto, tentò di aggredire la ninfa che, per sfuggirgli, scappò via. In quel triste giorno, Orfeo si era temporaneamente allontanato dalla consorte che non avrebbe rivisto più calcare le lande dei mortali. Durante la fuga, Euridice inciampò e cadde vicino ad un serpente che le morse un piede. Il letale veleno del rettile fece subito effetto e così la ninfa si spense in solitudine nel bosco.

Quando seppe della tragedia, Orfeo si strusse di disperazione. Raccolse tra le braccia il corpo senza vita della moglie e la strinse a sé, emettendo un urlo terribile che sconvolse la funerea quiete del bosco. Distrutto dal dolore, Orfeo scese negli inferi, deciso a riprendere l’anima della sua amata. Raggiunta la sponda dell’Acheronte, si imbatté in Caronte che, furente, cominciò a scacciare l’invasore, riconoscendo in lui la viva anima. Orfeo non si scompose, cominciò a suonare la sua lira e, di colpo, il Traghettatore di anime si placò. I modi aggressivi e violenti del cupo nocchiero cessarono, venendo sostituiti da comportamenti gentili e inaspettatamente aggraziati. Caronte, pertanto, accompagnò Orfeo dall’altra parte del fiume. Nemmeno la furia di Cerbero turbò il cantore. Orfeo, infatti, riprese a suonare e il cane a tre teste, guardiano dell’Ade, smise di mostrarsi cruento, divenendo mansueto. Al termine del suo cammino, Orfeo giunse davanti ad Ade e Persefone, supplicando il re e la regina degli inferi di restituirgli la sua amata. La disperata richiesta di Orfeo fu accompagnata dal continuo suono della sua lira, e i due regnanti dell’Oltretomba, mossi a compassione, decisero di restituire la vita ad Euridice. Il monito finale per Orfeo fu il seguente: “Portala con te, ma finché non uscirete dagli inferi non potrai guardarla per nessuna ragione. Se trasgredirai quest’ordine, perderai per sempre la tua sposa.”

Orfeo tremò, prima di accettare l’accordo. Prese la mano di Euridice e, senza guardarla in viso, si apprestò a risalire gli inferi, guidando l’anima dell’amata lungo le tetre scalinate che li avrebbero condotti all’uscita. Insieme a loro si incamminò anche Ermes, in veste di controllore. La presa della sposa era gelida di morte, tant’è che, impressionato, Orfeo dovette cederla, poiché gli sembrava di non toccare l’epidermide delicata di Euridice, come se lei non fosse altro che un’essenza evanescente; e tale consapevolezza, che si palesava come una sinistra rimembranza, lo tormentava.

Durante il lugubre sentiero, il musico avanzava da solo con alle spalle Euridice. I primi dubbi di Orfeo furono legati alla presenza effettiva di Euridice; non potendo più toccarla né potendola guardare, in lui si stava insinuando il dubbio e la paura se fosse davvero lì con lui. Quando smetteva di suonare, non sentiva nemmeno il rumore dei passi della moglie. Si rincuorò - le anime non lasciano segni né tantomeno generano rumori - pensò tra sé, riprendendo il cammino. D’improvviso, sentì una Euridice chiamarlo. Lo invitava a girarsi, a guardarla, a darle un bacio. Ma Orfeo non si voltava. I tentativi continuarono e si fecero sempre più intensi e drammatici. Orfeo, tremante, proseguì senza sosta, cosciente che quelle voci erano le tentazioni degli inferi, per nulla accomodanti nel lasciar andar via un’anima dall’oltretomba. Arrivato finalmente alle porte dell’Ade, non resistendo più, Orfeo si voltò di scatto per ricambiare lo sguardo della ninfa. Euridice, però, non aveva ancora completamente raggiunto l’uscita, era rimasta indietro, rallentata nei suoi passi dalla ferita che aveva alla caviglia, il morso del serpente. Euridice cominciò a svanire e, davanti allo sguardo attonito di Orfeo, morì una seconda volta.

Il suonatore cadde a terra, distrutto dal dolore, lasciandosi andare alla più straziante disperazione. Gli occhi intrisi di lacrime si levarono verso il cielo, ed egli implorò l’intervento misericordioso di Zeus.  Nessuno venne in soccorso di Orfeo, che rimase solo ad osservare, tra i singhiozzi, quella stella accesa che era nata dalla musica decantata per la sua Euridice, quando ad ella si dichiarò. Orfeo notò come la luce di quella stella priva di costellazione si stava affievolendo. Il suo amore era imperituro ma l’addio di Euridice aveva spento la luce della sua esistenza e la stella sembrava esserne conscia, diminuendo la propria radiosa intensità.

Orfeo pianse ininterrottamente per oltre sette mesi. Da quel momento la sua melanconica melodia non farà altro che incantare gli alberi che un tempo vegliavano sulla sua amata e che l’accompagnarono, silenti, nella sua crescita da ragazza a donna. Dopo la perdita della sua sposa, Orfeo non proverà più alcuna forma di amore per nessun’altra, restando perennemente fedele al ricordo del suo eterno amore. La sua arte, però, attirerà l’attenzione delle Menadi, che arderanno di passione per lui. Orfeo le rifiuterà più volte, finché furiose, le stesse lo uccideranno, inveendo e martoriando terribilmente il suo corpo. La testa di Orfeo finirà sulla lira la quale, lasciata navigare senza meta sul fiume, raggiungerà il mare senza mai smettere di cantare, spingendosi fino all’isola di Lesbo. Orfeo cantava, e cantava senza sosta le stesse strofe che un tempo intonava la sua sposa.

In quell’attimo, Zeus, commosso dall’amore di Orfeo, raccolse la lira e la pose tra le stelle. Il Padre degli dei plasmò con le sue mani una costellazione, proprio attorno a quella stella morente, concepita dall’amore. La stella riprese improvvisamente “vita”, e si accorse d’essere avvolta dalla costellazione della Lira. L’anima di Orfeo venne eternata nel cielo e il suo cuore avvolto a quella sua stella.

Nei Campi Elisi, Euridice vagava come un’anima beata, ma non ricordava nulla della sua vita trascorsa. Eppure, avvertiva un’insoddisfazione recondita ed elusiva. Era l’assenza del suo ricordo più caro divenuto, con l’arte e l’amore, immortale. Si avvicinò, quando il sole scomparve all’orizzonte, ad una caverna sita ai confini del paradiso greco. Tale spelonca custodiva una spaccatura, un’apertura tra le sue rocce che si affacciava sul cielo degli uomini.

Fu in quel momento che vide la stella della costellazione della Lira brillare di luce propria, ed ella rammentò. Orfeo le stava dando un bacio. 

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Le stagioni di Gianni Rodari

Primavera è una giovinetta
con in bocca la prima violetta.
Poi vien l'estate, nel giro eterno
ma per i poveri è sempre inverno.
Vien l'autunno dalla montagna
ed ha l'odore di castagna.
Vien l'inverno dai ghiacciai
e nel suo sacco non ha che guai
.”

Dopo la titanomachia e la vittoria delle divinità greche, i discendenti aventi diritto alla spartizione della sovranità universale erano sostanzialmente tre: Zeus, Ade e Poseidone. I tre fratelli decisero di dividersi equamente il potere e a ognuno di loro toccò il dominio di un reame. Fu la sorte a muovere la mano di un destino neutrale nelle volontà esecutive: Zeus estrasse la Folgore e divenne dio dell’Olimpo, Poseidone sorteggiò il Tridente e ottenne il regno del Mare, Ade s’impadronì della Falce e conquistò il trono dell’Oltretomba. Raramente si nominava quest’ultima divinità, tanto la si temeva. E a ragion veduta! Tra i primogeniti di Crono, il divoratore, e Rea, la regina madre, Ade era annoverato tra le divinità più potenti di cui la mitologia avesse mai raccontato il vissuto. Dal sangue freddo e dal coraggio smisurato, Ade, durante la guerra contro i giganti, abbatté con furia molti Titani, mutilando braccia e squarciando ventri, rimanendo sempre nell’invisibilità. Egli portava sul capo un elmo nero, e proteggeva il suo corpo immortale con un’armatura buia come la notte più profonda. Pareva che la sorte avesse agito con saggezza e non con imparziale autorità quando fece in modo che il regno oscuro e imperscrutato dell’ultraterreno spettasse proprio a lui, schivo e riservato, tenebroso e austero. L’aldilà dava l’idea d’essere il riflesso dello spirito gelido del proprio padrone. Sembrava mitigare nell’animo di Ade un freddo quanto perpetuo inverno, tanto il suo carattere emanava un alone di inscalfibile e impersonale compostezza. Non era buon costume menzionare con leggerezza tale divinità. Si aveva il timore che la si importunasse, o che addirittura la flebile pronunzia dell’appellativo che lo contraddistingueva lo facesse adirare. Io stesso provo solamente ad immaginare cosa mormorassero i greci sommessamente in quel tempo tanto lontano: “Meglio guardarsi dall’incappare in un’involontaria provocazione. Sarebbe certamente opportuno evitare anche la più innocente delle stuzzicherie, così che il carattere, probabilmente iracondo, di un tale Re non venga intaccato. Sapete, laggiù ci vuole ben poco per “reindirizzare” il volere delle Moire…”

Nessuno pronunziava invano il nome di Ade per la timorosa suggestione che egli potesse punire il reo addirittura con la morte. Ma non era che una mera paura infondata. Negli scritti della mitologia, Ade era sovente descritto come un dio taciturno, dallo sguardo severo e giudizioso, ma mai egli si rivelò perfido ed improbo. Si ha ancora oggi la predisposizione, peraltro sbagliata, di pensare al dio greco dei morti e reinterpretarlo come una figura oscura, minacciosa, maligna, forse infingarda, nonché desiderosa di spodestare il fratello minore, Zeus. Nulla di più sbagliato! Ade era un dio leale, pacato, introverso e persino sentimentale. Il solo associare Ade alla figura della morte crea tutt’oggi un ingannevole pretesto aduso a farlo passare come un personaggio malvagio. E’ un po’ l’errore che facevano gli antichi greci quando credevano che Ade fosse da temere per il solo essere dio dell’oltretomba. L’abito non fa il monaco, diremmo oggi traendo spunto dal famoso detto popolare, e in egual maniera, il regno in cui egli troneggiava non doveva dare l’impressione sbagliata di una personalità ben più complessa di quella di un cattivo dei racconti.

Andando più nel dettaglio, Ade aveva il volto maestoso ma al tempo stesso tetro, i capelli arruffati e la barba incolta. Il dominio di Ade portava il suo stesso nome, ed era situato al centro della Terra, nell’Erebo misterioso, e comunicava direttamente col mondo esteriore attraverso caverne dalle profondità smisurate. Tristi fiumi vi scorrevano e bagnavano sponde di consistenza rocciosa: lo Stige, fiume sudicio e ombroso, il Cocito, il fiume dei lamenti, il Piriflegetonte, il fiume del fuoco, il Lete, il fiume dell’oblio e l’Acheronte, il fiume del dolore. L’Acheronte circondava il paese e per attraversarlo bisognava servirsi della barca guidata dal vecchio e burbero Caronte, il quale, se non gli si pagava prima l’obolo e se il corpo a cui l’anima era appartenuta in vita non aveva ricevuto la debita sepoltura, scacciava l’anima stessa costringendola a errare in eterno lungo la desolata riva. Varcato il fiume si giungeva all’ingresso dell’Ade, custodito da Cerbero, il cane dalle tre teste e dalla voce di bronzo, mansueto nei rispetti di chi entrava, feroce nei riguardi di chi tentava di uscire. Oltre la soglia infernale tre giudici, Eaco, Minosse e Radamanto, esaminavano le anime e le assegnavano al nero Tartaro, ai Campi Elisi o alle Isole dei Beati. I cattivi e specialmente coloro che avevano peccato contro gli Dei erano destinati al Tartaro: ivi erano i Titani, e il gigante Tizio, cui due avvoltoi rodevano il fegato, e Tantalo, condannato a fame e sete eterne. I buoni erano guidati ai Campi Elisi, dove regnava una eterna primavera, splendeva la luce radiosa del sole e crescevano pioppi argentei. Cupe divinità si aggiravano nel regno di Ade: Thanatos e Hypnos, la personificazione della Morte e del Sonno, fratelli e figli della Notte, e tutta la schiera dei Sogni, quelli veritieri e quelli ingannatori, le Keres, seguaci di Marte, e le Erinni.

Le Erinni erano le dee della vendetta, persecutrici soprattutto di coloro che si rendevano colpevoli di inumanità verso i supplici e i forestieri o, peggio ancora, di empietà o di assassinio contro i parenti. Ade regnava assieme alla propria sposa Persefone, la regina degli Inferi. Persefone, conosciuta altresì come Proserpina dai romani, arrivò nell’oltretomba a seguito di un rapimento perpetuato dallo stesso Ade. La dea vi giunse quando il sole fulgido della primavera irradiava i boschi verdi della Terra. Nelle profondità dell’Ade vi trovò un clima differente, un mesto inverno.

 

  • Inverno

Paesaggio invernaledi R. M. Rilke

“Respiran lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo via via.

Le candide strade si fanno più zitte:                                                                                        le stanze raccolte più intente.

Rintoccano l'ore. Ne vibra
percosso ogni bimbo tremando.
Di sovra gli alari, lo schianto d'un ciocco
che in lampi e faville rovina.

In niveo brillar di lustrini,

il candido giorno là fuori s'accresce,
divien sempiterno Infinito.”

Ade era costantemente arrabbiato. Tollerava come un supplizio permanente le urla rauche dei dannati che echeggiavano come lamenti martellanti nelle lande desolate del suo regno. Ovunque posasse lo sguardo non vedeva che dolore e tristezza, se non nelle regioni dell’Eden, in cui comunque non poteva che recarsi solamente per delle brevissime soste. Il dio greco era solo e nella sua solitudine si consumava il dramma di un’esistenza vacua e isolata. C’era persino chi giurò di averlo visto versare rassegnate lacrime di insoddisfazione senza mai cedere ad alcun singhiozzio. In mezzo a cotanta desolazione, Ade sentiva di trascinarsi in un inverno figurato, invalicabile, astratto e duraturo, senza che però potesse beneficiare della gioia, di certo temporanea, effimera, ma ugualmente dolce alla vista della caduta della neve. Nessuna coltre bianca avrebbe addolcito quel buio. Ade sognava di avere un raggio di sole che rischiarasse le tenebre del suo mondo. Fu forse in quell’istante, quando realizzò cos’era che mancava nella sua vita, che egli si sentì raggiunto al cuore dalla freccia più tenue ma, al contempo, più difficile da estrarre: quella di Eros. Ade concepì l’amore come un bisogno inestinguibile, avvampante, che movesse la sua mano disperata. Prima di partire, però, guardò fugacemente il suo elmo che lo rendeva invisibile. Quale ironia, pensò tra sé, quell’arnese a cui era tanto legato lo rendeva realmente impossibile da vedere, eppure egli si sentiva invisibile anche senza che lo indossasse, poiché nessuna donna aveva mai posato lo sguardo su di lui, relegato nelle profondità della Terra da tempo immemore. Quando emerse dal sottosuolo, fu investito dai caldi raggi di un sole primaverile.

"Il ratto di Proserpina" - Gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini

 

  • Primavera

Fiorita di marzo di Ada Negri

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.

Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo; e al tuo passar l’erba germoglia,
o Primavera, o gioia de’ miei occhi.

Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell’orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,

essi, ne’ loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l’aria densa di languori;

e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di marzo, o Giovinezza!…”

In quei secoli sulla Terra, faceva sempre bel tempo. Demetra, la dea delle messi, della fertilità e dell’agricoltura, donava agli uomini un’alternanza di mesi caldi e temperati, e procurava agli stessi proficui raccolti. Rigogliosi fiori germogliavano colorati in ogni dove, le foreste “pullulavano” di alberi secolari e verdeggianti dalle radici robuste, e dalle sorgenti sgorgavano con forza trasbordante e viva fiumi d’acqua cristallina. Ade si trovò dinanzi ad un paesaggio bucolico ed idilliaco che a stento ricordava d’aver contemplato prima della reclusione nel sottoterra. L’estate era alle porte, ma Ade non sapeva neppure cosa fosse una simile stagione. Fu proprio quando calcò il soffice manto verde di una radura che scorse un gruppo di ragazze intente a raccogliere fiori nei pressi di un lago. Una fra tutte rapì il suo sguardo: ella avvicinava alla bocca il petalo di una piantina di violette. I suoi capelli sprigionavano, ogni qual volta venivano mossi dal vento, un effluvio dolce che rievocava il profumo delle primule sbocciate, e le sue iridi al sole cangiavano colore, da un nocciola chiaro ad uno scintillante verde smeraldo. Ade venne rapito istantaneamente dalla bellezza di colei che aveva raccolto più fiori di tutti: Persefone. Sbucò a quel punto dalla vegetazione, e spaventò inavvertitamente le giovani, che scapparono via. Tutte tranne Persefone, rimasta impietrita e forse sorpresa dall’imponenza del dio. Ade si macchiò di un gesto deplorevole, seppur non propriamente violento: prese Persefone con sé.

Ella si dimenò con tutte le sue forze per sfuggire alla presa, ma Ade per adempiere del tutto a quel suo gesto, la strinse con decisione, fino ad affondare le mani nella candida pelle della giovane. Quello bastò per farla desistere dal dimenarsi oltre. L’urlo spaventato della fanciulla venne avvertito dalla madre, proprio la dea Demetra.

Persefone si figurò agli occhi di Ade come una sposa siffatta di una luce rinfrancante, un’aurora.

  • Estate

Trebbiaturadi E. Panzacchi

Meriggio. La macchina trebbia

ansando con rombo profondo.

Il grano, rigagnolo biondo,

giù  scorre. Nell'aria è una nebbia

sottile. Sogguarda per l'aia

il nonno, con faccia rubizza.

Nell'aria una rondine guizza

radendo la bassa grondaia.

E intanto, che ressa sul ponte

tra i mucchi di spighe e di paglia,

col sole che gli occhi abbarbaglia,

col sole che affuoca ogni fronte!

Le donne di rosse pezzuole

avvolgon le trecce sudanti.

Non s'odon né risa né canti.

Ma il nonno: - Su, allegre, figliole!”

L’estate prossima a giungere sulla Terra si interruppe ancor prima d’arrivare, ma si propagò paradossalmente nell’oltretomba. La portò con sé Persefone, che riscaldò il cuore freddo di Ade.

Quando si accorse dell’assenza della figlia, e scoprì il rapimento, furibonda, Demetra si recò da Zeus per reclamare giustizia. Nel frattempo, Persefone, smarrita e spaventata, si struggeva di tristezza fin quando si accorse dei modi gentili che il dio dei morti riservava verso di lei. La durezza con cui in principio la prese per condurla negli inferi pareva essere stata del tutto accantonata a favore di qualche lieve carezza. Ade offrì alla donna la corona da regina e attese con un sentimento che mai aveva provato prima nel suo cuore, l’amore, d’intravedere sul viso della sua prossima consorte un sorriso incantevole. Ade per la prima volta cedette alla più umana delle speranze, alla più fragile delle volontà auspicate: l’aspettativa che il suo amore potesse essere ricambiato. Ma Persefone era ancora una prigioniera, confinata in una fortezza tenebrosa senza che lo avesse mai chiesto. Non poteva innamorarsi di colui che le aveva imposto una costrizione, aveva bisogno di scorgere in lui un’umanità benevola.

Zeus, il dio dell’Olimpo, era conscio di non avere potere su Ade né alcuna giurisdizione sugli inferi. In aggiunta a ciò, non voleva far indispettire né l’illustre fratello né Demetra, e cosi declamò una proposta: se Persefone non avesse mangiato nessun frutto del regno del sottosuolo, sarebbe potuta tornare dalla madre. Spaventata all’idea che la figlia avesse già toccato cibo, Demetra cominciò a piangere. Dalle sue gote scesero lacrime grosse come gocce di rugiada. Di riflesso, gli alberi del mondo iniziarono a piangere anch’essi, ma invece che lacrime, lasciarono cadere giù foglie ingiallite e avvizzite. Gli occhi di Demetra, inumiditi dal suo pianto incessante, le appannarono la vista e nel mondo la nebbia sulla Terra e la foschia sul mare calarono giù dal cielo come testimonianza di una fredda sofferenza intima.

  • Autunno

San Martino di G. Carducci

“La nebbia agli irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.”

Quando Demetra scese nell’Ade per reclamare la figlia era già troppo tardi. Persefone aveva mangiato sei semi del frutto del melograno, ed era pertanto condannata a giacere nell’oltretomba per sempre. In preda alla disperazione, Demetra implorò Ade di lasciare andare la giovane, ed egli mostrò pietà. Persefone sarebbe rimasta per sei mesi con lui, e negli altri sei sarebbe tornata sulla Terra dalla madre. Era il barlume di umanità che Persefone attendeva di trovare nel proprio futuro marito. La ragazza accettò, finalmente sorrise e sposò Ade.

Quando Persefone si trovava con il marito, la madre si angustiava per lei, e dai suoi lamenti e dalle sue geremiade gli uomini ricevevano l’autunno e il freddo inverno, ma quando Ade lasciava andare Persefone per i successivi sei mesi, Demetra tornava felice, il suo cuore palpitante di gioia rinvigoriva la natura e il clima terrestre, regalando agli uomini la primavera e la calda estate. Tutto il contrario accadeva nell’oltretomba in una perenne contrapposizione che non avrebbe mai avuto fine: quando Ade trascorreva le sue settimane con la moglie, gioiva e avvertiva sulla sua pelle la lieve carezza di un vento primaverile e il dolce bacio del sole di fine giugno. Quando doveva salutare la sposa, tornava a sopportare la malinconia di un autunno stanco e l’asprezza di un inverno di gelo colmo di solitudine. Quanta importanza recava nel cuore di un marito il matrimonio, e nel cuore di una madre la vicinanza famigliare…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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