"Stanlio e Ollio ne La scala musicale" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Svegliarsi di buon ora, dopo
aver trascorso una serata deludente,
non è mai facile. Quando le prime luci del mattino irrompono dalla finestra e i
nostri occhi si schiudono, si torna a pensare.
Le delusioni si manifestano in noi sotto forma di idee astratte, di pensieri poco confortevoli. “Che rammarico!” si è soliti sussurrare tra sé e sé. “Sarebbe potuta andare diversamente, se
solo…” si borbotta, a volte.
Se la serata è andata
storta, il mattino seguente non si ha proprio voglia di cominciare una nuova giornata. Di solito si preferisce starsene a letto, con il capo sotto le
coperte. Sebbene conferisca una sensazione confortevole al nostro carattere
offeso, rimanere distesi a poltrire
non è la scelta giusta. Meglio alzarsi di scatto, fiduciosi che il vento cambi,
che la ruota giri, che ogni cosa, insomma, possa
migliorare. In un certo senso è ciò che facevano anche Stanlio e Ollio, e più spesso di quel che si pensi.
Durante una famosa tournée teatrale, Stanlio e Ollio dovettero spesso alzarsi all’alba e a seguito di serate non particolarmente piacevoli. In quelle settimane, i loro spettacoli non raccoglievano il successo sperato. Platee semivuote, palchetti lasciati liberi accoglievano le loro entrate in scena, e un’esigua frotta di curiosi assisteva, per nulla coinvolta, ai loro siparietti. Cosa stava accadendo? Invero, gli anni d’oro erano giunti al termine ma Stan e Ollie non volevano saperne di arrendersi. D’altronde, tenacia e fanciullesca speranza avevano sempre fatto parte di loro. Stan Laurel e Oliver Hardy vagavano, sballottati, di teatro in teatro per tutta l’Europa, ancora speranzosi che i loro nomi, un tempo così luminosi, potessero tornare a brillare sulle insegne dei cinematografi di tutto il mondo.
Un mattino, dopo aver
avuto una pessima serata, Stanlio e
Ollio si recarono alla stazione. No, nient’affatto, non restarono a dormire
nei loro letti, anche se, in cuor loro, lo avrebbero voluto. Erano entrambi
visibilmente molto delusi. A teatro, il giorno prima, si era radunata una folla
decisamente “striminzita”. Ollio, ironicamente, disse che se avessero voluto,
avrebbero potuto ospitare tutto il pubblico lì presente nel loro albergo e
sarebbero avanzate anche delle camere.
In quel dì, il treno sarebbe
arrivato alle otto, e i due, mattinieri
non per scelta, stavano per raggiungere la pensilina, impegnati a trasportare, su per una scalinata, un ingombrante baule. Oliver lo spingeva da sotto mentre Stan cercava
di tirarlo dall’alto.
Una volta guadagnato il
piano superiore, Stan mollò la presa e
il baule precipitò giù. Ambedue, stanchi e affaticati, lo guardarono,
sconsolati, giacere lontano e, quasi
quasi, si misero a valutare l’eventualità
di lasciarlo là dove era andato a finire.
“Ci serve davvero quel baule?” – chiese, desolato, Oliver. Stan, che
aveva colto l’ironia della situazione, sorrise amaramente.
"Stan e Ollie" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più sul film del 2018 cliccando qui.
Questa particolare
disavventura fin qui descritta viene mostrata nel film biografico “Stanlio e Ollio”. Tale sequenza non è
altro che una sottile e furbesca citazione
ad una delle pellicole cinematografiche più celebri del duo comico. Il sudore
che gronda dalla fronte di Laurel e Hardy, la fatica nel percorrere quella
lunga “gradinata” trainando, come
ciuchini sfruttati e malridotti, quello scomodo baule sono arguti tributi, rimandi che ossequiano
un momento preciso della carriera artistica di Stanlio e Ollio. Il momento in cui i due dovettero
“scortare” un grosso pianoforte a mani nude su per una ripida e “tortuosa” scalinata.
La scena trattata sino ad
ora è un omaggio al cortometraggio “La
scala musicale”, una delle opere più belle e esilaranti della coppia comica
per eccellenza.
Gli anziani Stanlio e
Ollio che spingono quella valigia voluminosa
come una bislacca cassapanca, richiamano il loro rispettivo alter-ego
immaginario. Nel film biografico, realtà e finzione, cinema e vita quotidiana
si amalgamano tra loro, creando un affresco malinconico in cui Stanlio e Ollio,
prossimi al loro canto del cigno,
ripercorrono i momenti più importanti della loro vita trascorsa fianco a fianco
davanti ad una cinepresa che li ha immortalati in centinaia di traversie,
consegnandoli alla storia.
Stanlio e Ollio girarono
“The music box” nel 1932, per
l’attenta regia di James Parrott. Molto apprezzata dal pubblico e dalla critica,
l’opera in bianco e nero vinse il premio Oscar come miglior cortometraggio.
“La scala musicale” è una di quelle pellicole che non si dimenticano
tanto facilmente, che restano indelebili nella memoria per la spiccata capacità
di far ridere genuinamente. Un’attitudine che il cortometraggio mantiene immutata,
a quasi novanta anni di distanza. “La
scala musicale”, come già accennato,
narra del maldestro trasporto di un
pianoforte in un appartamento posto in cima a una lunga scalinata. La
vicenda, già portatrice in sé di una certa ilarità, presta il fianco ad ogni
sorta di gag comica al limite dell’assurdo.
Tutto ha inizio una
mattina qualunque. Stanlio e Ollio si sono da poco improvvisati trasportatori
di fortuna. In “sella” ad un ronzino, giungono ai piedi di una stretta “scalea”.
Subito si mettono all’opera, afferrando con sostenuto impegno la pianola meccanica custodita in una
struttura di legno. Questo pesante e imponente strumento è stato commissionato dalla
signora von Schwarzenhoffen, la quale desidera farne dono al marito, il
professor Theodore von Schwarzenhoffen. Or dunque, Stanlio e Ollio si
rimboccano le maniche ed iniziano l’ardua ascesa.
Tanti sono i gradini che
li separano dalla meta, ma i due non demordono. Durante la disagevole scalata, Laurel
e Hardy s’imbattono in svariati personaggi che non faranno altro che rendere
ancor più difficile il loro compito. Spesso, i due saranno costretti a ricominciare da capo, a salire e a
scendere svariate volte. Non appena si
distrarranno un attimino, la pianola scivolerà via dalle loro mani,
obbligandoli a inseguirla avanti e indietro per il “tracciato”.
Di tanto in tanto, Stanlio e Ollio si soffermano a ridosso di un “pianerottolo” che lo separa, con una manciata di gradini, dall’altro, cercando di riprendere fiato. In queste brevissime pause, il pianoforte resta lì, apparentemente immobile, frapponendosi tra i due. Lo strumento musicale non è che un mero oggetto e, per tale ragione, risulta essere del tutto privo di vita. Eppure, le ruote che ha alla base gli permettono di muoversi, di sgusciare dalla presa e “fuggire” via. Il pianoforte, così, sembra essere dotato di un movimento proprio.
In un particolare
momento, Ollio darà le spalle alla grande pianola poiché sarà costretto a
scendere giù per interloquire con un poliziotto. Lo strumento musicale, rimasto saldo e fermo al suolo, d’un
tratto, scenderà giù in picchiata, come se volesse, di sua iniziativa, colpire l’ingenuo malcapitato.
Il pianoforte del
cortometraggio sembra essere dotato di una bizzarra forma di “ragione”. Esso,
quasi volutamente, sgattaiola via e non soltanto perché la gravità lo richiama
a sé, facendolo cascare giù, sino alla strada. Lo strumento pare fare tutto di
propria volontà, soltanto per farsi beffe dell’impegno, della dedizione, della
fatica di Stanlio e Ollio. Il pianoforte
rappresenta l’imprevedibilità della sfortuna, l’illogicità di un fato contrario
che si accanisce sui due poveri sventurati. Quel pianoforte è uno strumento
“diabolico”, sadico, che deride laconicamente
i due protagonisti, obbligandoli a fare gli straordinari.
Nel film “Avventura a Vallechiara”, Stanlio e Ollio si troveranno nuovamente obbligati a trasportare un pianoforte alla volta di una baita isolata. I due dovranno attraversare un ponte pericolante, sospeso su di un crepaccio di montagna.
La scalinata così alta, “scoscesa”, è una metafora dell’esistenza umana, fatta di tratturi impervi, di arrampicate ardue, di lavori usuranti, al compimento dei quali non sempre viene riconosciuto e apprezzato agli interessati quanto è stato fatto. E’ ciò che, per certi versi, accadrà a Stanlio e Ollio. Tra tragici imprevisti, i due riusciranno a portare il pianoforte nella casa del professore Schwarzenhoffen. Tuttavia, lo strumento verrà distrutto in un impeto di rabbia dall’uomo. Tale gesto non è che il simbolo di come l’impegno profuso da Stanlio e Ollio non porti mai ad alcun traguardo né ad alcun trionfo. E’ questo il costante destino che affligge Laurel e Hardy in ogni loro film: finire sempre per essere inseguiti, banditi, scacciati, offesi, denigrati e mai rispettati dai facoltosi, dai benestanti. Stanlio e Ollio sono condannati, dall’ingiustizia, ad appartenere al ceto inferiore, quello eternamente dimenticato: la classe degli squattrinati felici, di coloro che seguitano a sorridere sebbene la vita li obblighi a restare perennemente in bolletta.
"Stan Laurel e Oliver Hardy in Fra' Diavolo" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più su questo lungometraggio cliccando qui.
“La
scala musicale” col suo ritmo, con la sua freschezza, col suo dinamismo,
mette in mostra peculiarità originali, all’epoca assolutamente innovative e
temerarie, che rendono quest’opera filmica un’autentica pietra miliare del
cinema comico.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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"Stan e Ollie" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Ridere è un’aberrazione! Ci fu chi lo credette davvero. Costui sosteneva che il riso fosse un soffio demoniaco, alitato dal diavolo a discapito del comune zolfo. Il riso, seguitava ad affermare tal figuro, è un vento diabolico che deforma il viso degli uomini, rendendoli simili alle scimmie. Eppure, chi contraddì queste bislacche affermazioni rispose che le scimmie non ridono e che il riso è proprio dell’uomo. La burla, lo scherzo, la giocondità, l’ironia sono sinonimi dell’intelligenza, sintomi dell’acume umano. Perché, dunque, denigrare il ghigno, la beffa, la risata? Perché esso, il riso, annienta la paura!
E questo non sarebbe un
pregio? Beh, per colui che proferì quelle credenze iniziali tutt’altro. Tutto
si consumò centinaia e centinaia di anni or sono, in un’antica abbazia
benedettina. Ne “Il nome della rosa”
di Umberto Eco, Jorge da Burgos era un bibliotecario cieco. I suoi occhi dalla
sclera slavata erano vuoti, spenti, e somigliavano a frammenti vitrei su cui nessun riflesso poteva esser scorto. Il
volto di quel monaco era seminascosto da un cappuccio scuro, i suoi denti erano
gialli e per la maggior parte mancanti. Egli era austero, freddissimo,
malvagio. Ripugnava la giocosità,
l’allegria come fossero un male da estirpare. Nessuno, secondo il suo
volere, avrebbe dovuto scoprire cosa fosse il riso indotto, l’arte di far
ridere spontaneamente con sagacia e abilità. Nessuno avrebbe dovuto rinvenire e
sfogliare il Secondo Libro della Poetica
di Aristotele. Questo volume giaceva, celato, proprio nell’immensa
biblioteca di quel monastero. Fra quelle pagine, avvelenate dallo stesso
religioso, il filosofo greco esaminava la
Commedia, considerandola come uno strumento di verità, di riflessione.
Invero, non sono
pervenute a noi tracce di questo secondo manoscritto di Aristotele. La Poetica
del filosofo è, infatti, giunta incompleta, ed essa tratta la Tragedia e
l’Epica. Supponendo la tangibile esistenza di questo secondo manoscritto, Eco
stese la propria storia. In un passo del romanzo, frate Guglielmo varca la
soglia della biblioteca, un dedalo di
scale e cunicoli, e trova il libro in questione. Comincia, allora, a
leggerlo con molta cautela. In quella breve e rapida lettura, Guglielmo scopre
il presunto parere di Aristotele in merito alla Commedia. Essa, al pari della
Satira e del Mimo, suscitando il piacere del ridicolo, perviene alla purificazione di tale passione. Come la Tragedia
anche la Commedia adempie, dunque, alla catarsi.
Fantasticando sulla
possibilità che il Secondo Libro della Poetica riportasse quando è stato
ripetuto ad alta voce da Guglielmo, potremmo certamente affermare che, stando al
pensiero di Aristotele, mediante l’ilarità,
la letizia, l’uomo può giungere a comprendere, a capire il vero, il bello, la vita stessa, magari. Non è, quindi,
soltanto con la seriosità, col dramma, con le peripezie proprie della Tragedia
che è possibile guadagnare la catarsi. Anche la Commedia, la Grande Commedia aristofanea, permette di ottenere una
epurazione. Una purificazione differente, unica, generata dall’idillio gioioso
che genuflette l’uggia di una mente crucciata.
Nel secolo in cui Umberto Eco volle ambientare il proprio romanzo, ridere era un’attività proibita, poiché essa abbatteva il timore, e senza il timore non vi era fede. Il tomo occultato con rabbia, con livore, con follia dal bibliotecario, si tramuterà in uno strumento di morte, un artificio contaminato dal monaco. Chi avesse letto le parole di Aristotele sarebbe morto, come se fosse stato redarguito e punito da una fantomatica giustizia divina contraria alla perpetuazione del riso. Jorge da Burgos considerava il potere intriso nell’inchiostro di quel libro estremamente pericoloso poiché, un giorno, quelle parole sarebbero echeggiate, l’ironia sarebbe divenuta una fonte d’espressione consueta che avrebbe portato a ridere di tutto, anche di Dio. Il libro, quel Libro, secondo quanto temuto dall’anziano frate, avrebbe ucciso il credo antico. Una frase, quest’ultima, che risuona simile anche nei versi intonati da un’altra figura religiosa, in un’opera del tutto diversa. Claude Frollo, l’arcidiacono della cattedrale parigina di Notre-Dame, nel musical popolare ispirato al capolavoro letterario di Victor Hugo, esterna la propria paura sull’inevitabile forza del libro, declamando: “La stampa imprimerà la morte sulla pietra, la Bibbia sulla chiesa e l’Uomo sopra Dio”. La scrittura, al di là della Commedia stessa, dà la possibilità all’uomo di ragionare, di riflettere, di studiare, di elevare la propria cultura e non renderla più soggetta al timore reverenziale, alla paura che, nell’antichità, rendeva vana la stessa religione, abbracciata per pavidità e non per vera fede.
Il riso, come già
accennato, spezza le catene, rompe il giogo della schiavitù. Quando si
ride, quando si è felici, anche per flebili istanti, per pochi attimi d’oblio, di dimenticanza, non si è più
prigionieri della mestizia, dell’angoscia, dell’afflizione che è, anch’essa,
propria dell’essere umano. Saper ridere è un’abilità che custodisce in sé una
virtù, quella di rendere la vita lieta e piacevole. Far ridere, invece, ancor
di più, è un talento prezioso che permette di donare felicità e spensieratezza
agli altri. Cosa c’è di più generoso che
voler far sorridere qualcun altro?
Chi scrive una commedia, chi riesce ad interpretarla, è un dispensatore di gaiezza, di voglia di vivere, in altre parole: un servo di Aristofane. Con la Commedia, noi tutti riusciamo ad allontanare temporaneamente gli affanni, sorvoliamo, per pochi ma rinvigorenti attimi, i problemi che ci assillano, che rimbombano fra le pieghe della nostra coscienza. Senza commedia saremmo perduti, senza il riso saremmo gelidi automi. Aristotele lo sapeva, lo aveva dedotto, pur classificando la Commedia fra i generi inferiori. La Commedia attua una mìmesis, un’imitazione. E chi emula, quali personalità mima la Commedia stando ad Aristotele? Le persone che valgono meno. Oggi, diremmo i reietti, i non realizzati, gli esclusi, i dimenticati, i disgraziati, i poveri della società. In definitiva: le caricature interpretate da Stanlio e Ollio.
Derelitti, rifiutati, discriminati, in quanti altri modi potevano essere descritti i personaggi di Stan Laurel e Oliver Hardy? Erano i negletti, i respinti da ogni comunità, gli pseudo altruisti, gli ingenui, i sentimentali, i buoni costretti a fronteggiare gli arroganti e i maligni. Stanlio e Ollio erano soli, sempre soli, ma avevano, perlomeno, una grande fortuna: la loro amicizia.
In “Stan e Ollie”, film biografico del 2018 dedicato alla più celebre coppia comica della storia della settima arte, vi è un suggestivo momento, quello in cui Stan Laurel siede al bar di un hotel. Egli se ne resta silente, immerso tra i suoi pensieri. Viene poi raggiunto da sua moglie che lo mira, assorto nei ricordi. Stan tiene in mano un bicchiere di vetro, lo scruta con malinconia. Assorbe l’odore dell’intruglio alcolico, ne coglie il profumo che effluisce ma non lo beve. Stan rammenta il passato e confessa alla moglie l’essenza basica di ogni disavventura di Stanlio Ollio. “Guardi i nostri film e vedi soltanto noi due…” – Mormora il signor Laurel. “Nessuno ci conosce in quelle storie, siamo soltanto noi. L’uno ha solamente l’altro.” Quanto era vero!
Gironzolavano per le
strade, in città, si spostavano di appartamento in appartamento, vagavano tra i
viottoli delle montagne. Si recavano in campagna, poi al Congresso dei Figli del Deserto, tra le periferie del vecchio West
come fanciullini innocenti, finivano nei boschi, nei cui meandri rimbombava la
voce baritonale di un bandito chiamato Diavolo.
Erravano continuamente ed erano sempre insieme. Il più delle volte non avevano
spiccioli nelle loro tasche scucite, ma potevano contare l’uno sull’altro. Erano miseri nelle vesti ma nobili negli animi.
Erano indigenti, ciononostante potevano vantare la ricchezza più grande: una vera amicizia!
In ogni loro traversia,
Stanlio e Ollio viaggiavano molto, si spostavano da un luogo ad un altro,
cercavano i lavori più disparati per tentare di sbarcare il lunario. Bramavano l’aiuto dei più ricchi, loro che
erano tanto poveri. Il copione dell’ultimo film che avrebbero dovuto girare
li vedeva collaborare con Robin Hood, nella vecchia foresta di Sherwood. Questa
pellicola ideata dal duo ma mai portata a termine viene spesso citata nel
lungometraggio del 2018. Per Stan e Oliver il film su Robin Hood rappresentava
l’ultima spiaggia, la restante
possibilità di poter tornare sulla breccia attraverso il cinema. Robin Hood
rubava ai ricchi per dare ai poveri. Per tale ragione, il famoso fuorilegge
avrebbe aiutato ben volentieri i nostri amici, perennemente squattrinati. Nelle
loro opere filmiche, erano pochi i comprimari disposti ad aiutare Stanlio e
Ollio, i quali precipitavano sempre e comunque in qualche sorta di guaio.
Stanlio e Ollio venivano, così, derisi dai prepotenti, offesi dagli arroganti,
maltrattati dalle mogli, denigrati dagli adulti, loro che restavano eterni
bambini. Continuavano a non avere nessuno, eppure andavano avanti. Insieme
riuscivano a darsi forza. Stan lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Del resto, fu lui a plasmare la coppia
nelle sue più impercettibili sfaccettature.
Seduto fra quei tavoli,
Stan ricorda la verità: Stanlio non può
esistere senza Ollio. In quei giorni, la salute di Oliver era peggiorata e
la coppia comica si trovava ad un passo dal congedo. Non avrebbero più riso
insieme, non avrebbero più fatto ridere.
Con le loro vicissitudini, Stan e Oliver riuscivano sempre a strappare spontanei
e coinvolgenti sorrisi. Dopotutto, Stanlio e Ollio incarnavano le “persone che valevano di meno”, ma anche
le persone che, nel cuore, nel profondo, valevano
di più.
E dunque Stan se ne stava
solo al bar, prima d’essere raggiunto dalla propria consorte. Il signor Laurel
rimembrava quello che fu, ciò che ancora sarebbe potuto essere. Il canto del cigno era ormai imminente.
Dinanzi alla fine, non restava che celebrare il principio, la gloria di una vita trascorsa. Stan non avrebbe mai
potuto continuare a lavorare senza Oliver, pertanto anch’egli era prossimo al
ritiro. Tuttavia, Oliver lo sorprenderà di nuovo, l’indomani, come solo i veri
comici sanno fare, ed invoglierà l’amico a continuare. Lo spettacolo dovrà
proseguire.
Il film “Stanlio e Ollio” racconta l’ultimo step di questi ineguagliabili maestri della commedia americana. L’opera tenta di mostrare quello che il pubblico disconosce, inscenando l’ultimo atto della rappresentazione teatrale di questa lunga vita vissuta in coppia. La pellicola trasporta sul palcoscenico ciò che è avvenuto dietro le quinte, oltre la scenografia, al di là dell’occhio della camera. “Stanlio e Ollio” indaga il rapporto intimo tra i due attori, volge l’attenzione verso gli ultimi scampoli del lavoro di Laurel e Hardy e lo fa non mostrando nessuna scena dei loro film più famosi, eccetto una: il ballo registrato per “I fanciulli del West”. Questo per un motivo facilmente intuibile. Tutti noi abbiamo imparato perfettamente a conoscere Stan e Ollie sul grande schermo. Sui loro film non è necessario aggiungere altro che non sia stato già detto. Dunque, tale biopic, volendo perseguire intenti innovativi, sceglie sin da subito di concentrarsi su altro, evidenziando nuovi aspetti, quelli riguardanti ciò che Stanlio e Ollio hanno fatto oltre il regno della cinematografia.
Il teatro, i camerini, le
stanze d’albergo divengono i luoghi prescelti in cui si sviluppa quest’ultima
storia, quest’ultimo lungometraggio. La quotidianità di Stanlio e Ollio si
intreccia alla recita, l’esistenza alla finzione. Sul palcoscenico, i due
appaiono giovani, lievi e bravi come un tempo ma non appena il drappo rosso del sipario cala, riemergono le
difficoltà, le problematiche di una vita colma di delusioni. La pellicola
crea uno splendido equilibrio tra “il vero”, rappresentato dai momenti vissuti
lontano dalla scena, e “l’immaginario”, il modo in cui il pubblico vede Stanlio
e Ollio sul palco o sullo schermo di un cinematografo. Questi due mondi,
sovente, si uniscono.
Di stazione in stazione,
Stanlio e Ollio si spostano da una metropoli all’altra, tra momenti di quiete a
attimi esilaranti in cui la loro routine
fa il verso a quella dei loro personaggi impressi sui nastri di celluloide.
A tal proposito, la scena in cui Stan si fa sfuggire dalle mani un ingombrante
baule che precipita giù da una lunga scalinata, richiama, magicamente, le
sequenze di uno dei loro massimi capolavori: “La scala musicale”. Con Stanlio e Ollio si comprende questa verità: la vita è un teatro ed il giorno non è che
un singolo atto.
“Stanlio e Ollio” racconta la fine ma parte dall’inizio, o per
meglio dire dal “mezzo”. Il sipario si alza all’interno di un camerino. Siamo
negli anni d’oro, nel mezzo della loro
prolifica carriera. Entrambi discutono del più e del meno, dinanzi a due
specchi. I loro copricapi, le loro bombette, sono appoggiate su di un appendi
cappelli. I due dialogano, Ollio confida all’amico di aver perduto molti soldi
col suo ultimo divorzio, Stanlio, dal canto suo, confessa d’essere intenzionato
a mandare al diavolo il produttore Hal Roach per una sola ed emblematica
ragione: i film di Stanlio e Ollio incassano milioni su milioni, eppure né Laurel
né Hardy beccano un singolo quattrino. In
quel tempo, le stelle di Stanlio e Ollio sono tra le più sfavillanti del
firmamento hollywoodiano.
Di lì a poco, i due raggiungono
il set e iniziano a danzare. Passano
sedici anni da quel giorno. Entrambi sono visivamente invecchiati. Ollio è più
largo e ben più corposo di prima, Stanlio più spossato. Il cinema, lentamente, si è dimenticando di loro. Per racimolare
qualche soldo, ambedue sono costretti ad intraprendere una lunga e stressante tournée.
Le platee a teatro, però, sono semivuote. Dopo qualche settimana buia, tutto comincia
a cambiare ancora. Il loro talento resta trasbordante, immune al sopravanzare dell’età.
Di teatro in teatro,
Stanlio e Ollio tornano a far ridere, ed il passaparola diviene inevitabile. Le
persone sparse per l’Europa li accolgono festanti, le sale si riempiono. La gestualità, la pantomima, le cadute rovinose
a terra, i canti, i balli costituiscono ancora il cuore del loro repertorio; un repertorio immortale, mai volgare,
mai banale, insuperabile. Stanlio e Ollio avevano creato una comicità destinata
a non conoscere la resa, e se il cinema li aveva ripudiati, il teatro era il luogo in cui potevano ancora
donarsi agli altri.
L’esibizione per un
artista è tutto. Lo era per Stanlio, lo era per Ollio. Il biopic, diretto da Jon
S. Baird e con protagonisti gli straordinari Steve Coogan e John C. Reilly,
analizza questo senso dell’esibizione.
Stanlio e Ollio agognavano esibirsi ancora ed ancora, non potevano cedere,
arrendersi al tramonto di un’era.
Desideravano ardentemente andare avanti, far ridere la gente, interpretare un
nuovo film. Eppure, come accaduto ai loro personaggi, accadde a loro stessi nella
vita vera: i più forti, i più ricchi, li
avevano ignorati e lasciati soli.
Ridere è una cosa seria,
tutt’altro che un’aberrazione! Stanlio e Ollio lo sapevano, Stan, in modo
particolare. Era sempre serio dietro la
sua macchina da scrivere, quando concepiva e imprimeva su carta gli sketch.
Ridere e far ridere è una cosa
maledettamente seria e difficile. E a Stanlio e ad Ollio non fu mai
impedito di regalare la loro ironia, davvero. Nulla poté impedirglielo né l’età
né gli studi cinematografici. Il film lo sussurra continuamente, volgendo
l’attenzione al teatro, il luogo in cui tanti fortunati riuscirono ad ammirare
le performance di Laurel e Hardy. In
quelle sale, era possibile ammirare i due comici senza il velo della telecamera,
senza il filtro di un occhio meccanico, in modo unico. Ed è proprio un punto
di vista nuovo, originale, esclusivo quello che la pellicola ci propone. Essa indugia lì dove nessuno si era
soffermato, portando in scena anche il loro complesso rapporto d’amicizia.
Stanlio e Ollio, molto
legati e affezionati l’uno all’altro, avevano caratteri e interessi differenti.
Fuori dal set, entrambi si frequentavano di rado. Stan era dedito al lavoro,
alla cura maniacale del dettaglio. Oliver, al contrario, era amante del
divertimento, dello spasso. Le malelingue ipotizzarono addirittura che i due
riuscivano ad essere veri amici solamente dinanzi
ad una cinepresa.
La vita di Stanlio e
Ollio, come ogni vita che merita d’essere vissuta, è stata un continuo oscillare dal dramma alla commedia, dal vero al
fantastico. L’ultimo periodo, in particolare, vide incrinarsi il loro rapporto.
Il biopic analizza anche quest’ultima questione. Ciò che Ollio fece sedici anni
prima, quando era al verde, vale a dire girare un film in coppia con un altro attore
mentre Stanlio cercava di strappare un contatto ben più cospicuo con un'altra
casa di produzione, gravava come una
lesione, una lacerazione che avrebbe potuto strappare e separare
definitivamente il duo.
Per settimane, Stanlio e Ollio si esibirono a ritmi frenetici, inseguendo la chimerica illusione di poter ricominciare, di non arrendersi al progredire del fato. Essi volevano guardare al futuro, ma il dolore del passato non si era ancora attenuato, la ferita non si era ricucita. Una sera, si riaprì del tutto. Stanlio e Ollio litigarono pesantemente, rievocando quel triste momento. Nella scena più cruda dell’opera, i due si offendono pesantemente, arrivando ad affermare ciò che alcuni giornali erano soliti dire di loro: che non erano degli autentici amici. In quel triste momento, quando Stanlio e Ollio discutono animosamente, a pochi passi, qualcuno scoppia anche a ridere. Costoro avevano scambiato il tutto per una gag, uno dei tanti siparietti. Il destino di molti comici: essere sempre ritenuti giullari di corte, non avere la possibilità di poter soffrire, non essere considerati come uomini comuni, che sanno quando ridere e quando, invece, poter piangere perché ben conoscono il dolore. Ma Laurel e Hardy non rimarranno lontani a lungo, torneranno insieme, per gli ultimi spettacoli. Le cattiverie che erano state sibilate dalle loro bocche avvelenate, dai loro animi frustrati e inappagati, non corrispondevano alla verità. Né l'uno né l'altro potevano credere in quelle affermazioni espresse oralmente e, pertanto, portate via dal vento con rapidità. Stan e Oliver erano davvero degli amici inseparabili e lo sarebbero stati sino all'epilogo, dalla finzione alla tangibilità.
Tra un cambio di scena e
l’altro, Ollio si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto, respira
affannosamente, cerca disperatamente di recuperare le energie. Stanlio lo
sostiene, aiutandolo a rimettersi in piedi. Gli affanni, le stanchezze, le tristi avvisaglie della vecchiaia che
deturpano i loro visi spariscono non appena tornano dinanzi al pubblico. La
realtà, quella del dietro le quinte, che abbiamo assaporato noi spettatori di
questo meraviglioso film biografico si disperde, e torna la finzione, la commedia, quella del palcoscenico,
che vede Stan e Ollie festanti, giocherelloni, come se nulla li turbasse mai
realmente. E’ questa la magia di un comico manifestata in un sol battito:
accantonare la sofferenza per mascherarla
con il riso che diffonde altro riso.
Al cospetto di una platea
stracolma, Stanlio e Ollio balleranno un’ultima volta. “Ci siamo divertiti, non è vero, Stan?” – Borbotta Ollio.
“Certo che sì!” – Replica Stanlio.
L’essenza della commedia viene
qui espressa in un semplice scambio di battute: divertirsi e far divertire, sconfiggere, anche per degli ineffabili
secondi, lo scoramento dell’animo.
Il film si chiuderà come
era cominciato: con un passo di danza.
Ollio, grande e grosso, apparirà, sotto i riflettori, leggiadro come una piuma mossa dal vento. Stanlio, così minuto, sembrerà, invece, più grande ad ogni giravolta, come se
lui stesso fosse carico di una gioia incontenibile, pronta per essere esternata.
In quell’attimo, le luci si spegneranno, lo spettacolo giungerà veramente a
conclusione.
Finì quella sera, tra le
risate, le gioie, i caldi applausi, i rintocchi strepitanti, i sorrisi. Quel riso che i due comici avevano donato
al mondo perdurava sui volti di tutti. Attraverso la commedia in bianco e
nero, Stanlio e Ollio avevano scoperto la
verità, il miglior modo in cui poter vivere. Essi avevano compreso,
carpito, fatto proprio il potere insito nella vera Commedia. Un potere che avvicina ed unisce.
Non vi è cosa più dolce
che vedere il volto di chi amiamo mutare, le
guance contrarsi, le labbra aprirsi
nel generare un sorriso schietto, sincero. Poter ridere è un dono, far
ridere un’arte. Non vi è nulla di diabolico in tutto questo. Il riso è proprio un regalo di Dio. Esso
avvicina e non divide. Ed infatti, Stanlio e Ollio, sul finale, riusciranno a
far avvicinare anche le loro mogli, spesso aspre, discordi e litigiose. Le
donne, felici, si terranno per mano, contemplando l’eterea magia di uno
spettacolo comico.
Far ridere è il potere
più bello, il potere più desiderato, il
potere più temuto. Col riso si dà felicità, si può persino fare innamorare.
"Stanlio e Ollio" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
A notte inoltrata, il
silenzio della natura venne interrotto da un canto subitaneo. In sella ad un bianco cavallo, comparve un uomo vestito di nero, con un mantello
di velluto finissimo. Sul capo, portava un cappello scuro, con un fiocco rosso, spesso e fitto come le piume
di un’aquila reale. Questi galoppava nel bosco mentre baritoneggiava una canzone. La voce calda e cadenzata di tale
figuro giungeva sino al cuore della boscaglia.
Fra' Diavolo cantava libero e sfuggente come un uccel di bosco. Con l’alterità di un sire, egli percorreva, solitario, il viottolo. I suoi vocalizzi risuonavano lungamente, balzando da ramo in ramo, i gorgheggi rimbombavano da tronco a tronco, e gli acuti venivano carpiti dal vento e sospinti sino agli angoli più remoti della campagna. Fra' Diavolo era solito annunciare la sua presenza interpretando le proprie arie con animosità e passione. Il brigante, con la leggerezza di una nota musicale, soleva mettere in guardia le possibili vittime dei suoi furti. L’inflessibile bandito dava alle sue prede una chance: se fossero scappati in tempo, non appena udito la sua voce modulata, pericolosa come il verso leggiadro e soave di una ammaliante sirena, i malcapitati sarebbero forse riusciti ad aver salva la vita. Il canto di Fra' Diavolo era un lampo che squarciava il cielo e che precedeva il sopraggiungere di un tuono. Fra' Diavolo, dal canto suo, era un’eco, un bagliore preventivo ed una saetta fulminea.
Or dunque, Fra' Diavolo cavalcava lento verso il suo rifugio, senza mai interrompersi. Quei boschi del nord erano il suo palcoscenico, i derubati il suo pubblico inerme, che mai gli avrebbe dedicato alcun applauso. Il bandito tornò alla sua dimora, accolto festante dagli altri briganti. Sceso dal destriero, il prode e signorile masnadiero, radunò i suoi uomini per illuminarli circa il suo prossimo furto.
Nel frattempo, non molto
lontano da quei luoghi, due sagome bizzarre emersero da un viottolo. Una di
esse era corposa e panciuta, l’altra mingherlina e stiracchiata. Stanlio e
Ollio trottavano, rispettivamente, in sella ad un ciuchino e ad un puledro dal
manto bruno. Questi inseparabili amici si erano da poco congedati da un
faticoso lavoro, durato molti anni. In quel
tempo, Stan e Ollie pativano la fame e la sete. Entrambi avevano messo da
parte cospicui risparmi. Nelle bisacce dei loro fidati animali da trasporto, i
due, infatti, occultavano un bel gruzzolo, con il quale si accingevano a
trascorrere i restanti anni della loro vita come pascià. Quando il destino
sembrava finalmente volgere a loro favore, due banditi fecero capolino dalla
foresta e rubarono loro tutti i quattrini. Stanlio e Ollio, sconfortati,
perdettero in un solo istante il frutto dei loro sacrifici. Erano piombati nuovamente in povertà, come
spesso gli era accaduto in tutt’altre disavventure.
Nelle varie pellicole a cui presero parte, Stanlio e Ollio assumevano spesso i panni degli emarginati e dei reietti. In “Fra' Diavolo” non furono da meno. Solitamente, Laurel e Hardy tolleravano la ristrettezza economica, i loro personaggi avevano appetito ma non potevano permettersi un pasto caldo, erano spesso vagabondi, zingarelli, nomadi senza un tetto sotto cui ripararsi. Stanlio e Ollio si schieravano sempre dalla parte dei più deboli, dei dimenticati, poiché a loro volta venivano spesso obliati dai benestanti. Essi facevano ridere pur patendo gli stenti e la miseria, strappavano sorrisi pur subendo l’ira dei tracotanti e la furia dei prepotenti. Nulla li abbatteva mai nello spirito, sebbene si scontrassero costantemente con un fato avverso e dispettoso. In “Fra' Diavolo”, Stan e il suo fraterno amico Oliver, viaggiano nel passato, giungendo sino alla penisola italiana, precisamente nel Piemonte del 1700, dominato dal brigantaggio.
Nella loro esistenza, colma
di privazioni e soprusi, Stanlio e Ollio non conoscono il riposo e neppure la
resa. Nell’opera filmica del 1933 i due hanno lavorato con onestà, senza mai risparmiarsi, lasciando intendere d’essere stati altresì
sfruttati, derisi, vessati. Ciò che
contava era stringere i denti, sorridere e mettere da parte le monete d’oro che
costavano tanto sudore.
Di colpo, però, i
risparmi di una vita vengono ghermiti e portati via. Angosciati, i due buoni
amici decidono di smetterla di comportarsi bene, d’essere retti e giusti.
Dopotutto, perché avrebbero dovuto continuare ad essere integri, corretti e
leali, se la vita non aveva fatto altro che riversare su di loro le viltà dei
malvagi? Ambedue decidono, così, di
diventare banditi!
Non posseggono più la
forza per scalare, dal basso, la grossa piramide sulla cui sommità vi è
custodita la gioia di una vita agiata. Decidono, pertanto, di cominciare
direttamente dalla vetta. Basta comportarsi degnamente. Al diavolo restare giudiziosi e franchi! Stanlio e Ollio scelgono
di tramutarsi in banditi e di rubare ai ricchi.
E’ una critica forte
quella evocata dall’inaspettata scelta di Stanlio e Ollio. In un mondo cupo,
governato da manigoldi, opportunisti e delinquenti, si può restare davvero onesti?
Stanlio e Ollio non ne possono più, non vogliono venire ancora bistrattati e
umiliati dagli oppressori, e vedono nella possibilità di diventare, a loro
volta, bruti e vendicativi, l’unica via per poter sopravvivere. La società continuava ad ignorarli, la
gente a trascurarli, il mondo a non sorridergli, sebbene loro fossero sempre
solari e gentili. Che opzioni potevano vagliare? Ecco, dunque, la ferma
decisione: diventare ladruncoli di strada.
Purtroppo per loro, quello che non possono in alcun modo intuire è che la generosità di un buon cuore non può essere alterata. E così, Stanlio e Ollio, da briganti, provano a rapinare un viandante. Quest’ultimo scoppia in lacrime e i protagonisti si commuovono a loro volta, donando all’apparente sventurato l’unica moneta rimasta nelle loro tasche. Stanlio e Ollio sono troppo buoni, ingenui, secondo il valore più positivo e altruista del termine, non possono neppure improvvisarsi ladri da strapazzo. Ma i due non si danno per vinti, tentano un nuovo colpo. Per ironia della sorte, spingono le loro ricerche sino al covo di Fra' Diavolo. Ollio minaccia il re dei ladri con il fucile, spacciandosi lui stesso per il temutissimo “Diavolo”. Furibondo per essere stato usurpato, Fra' Diavolo si rivela e impone a Stanlio e ad Ollio di divenire i suoi fedeli aiutanti, trascinandoli sino alla sua tana. Ivi, Fra' Diavolo espone il suo piano: egli medita di rubare le ricchezze di Lady Pamela, nobile consorte di Lord Rocburg. Tuttavia, Fra' Diavolo non sa ancora dove la donna nasconda gli inestimabili gioielli e i cinquecentomila franchi avuti dal marito. Per compiere il furto, il bandito decide di celare, nuovamente, la propria identità sotto il falso titolo nobiliare di Marchese di San Marco. Fra' Diavolo, allora, prende alloggio nell'albergo dove risiedono il burbero Lord e sua moglie. Stanlio e Ollio lo accompagnano, mascherandosi da suoi valletti. Senza neanche accorgersene, Stanlio e Ollio capitolano in un ennesimo pasticcio. Fra musiche e adulamenti, tra balli ed armoniose melodie, gli artigiani della risata si fanno strada verso gli intrighi dell’albergo, generando gioie ed ilarità ad ogni loro gesto.
Fra' Diavolo dà via ad un assiduo corteggiamento per rubare il cuore di Lady Pamela. Lo scaltro furfante mira a intenerire l’animo della ricca signora. Lady Pamela, come la Giulietta di William Shakespeare, si affaccia dal balcone e mira, estasiata, il marchese che l’attende giù. Fra' Diavolo, come già fatto da Romeo, scruta la balconata con gli occhi all’insù, ed il suo sguardo, furbo ed ingannatore, finge di smarrirsi negli occhi della donna sempre più innamorata. Fra' Diavolo si arrampica con abilità sino a guadagnare la camera della dama. Lady Pamela si lascia andare alle lusinghe del marchese e rivela all’uomo dal fiero aspetto che il denaro è cucito nella sua sottoveste. Lady Pamela, a quel punto, solleva il vestito, mostrando al cortigiano come, nella sottoveste, siano stati intessuti monete e gioielli.
Nessuno è mai riuscito a rubare i franchi alla nobildonna poiché nessuno è mai riuscito a giungere sino alle sue grazie. Una forte carica erotica e sensuale viene esternata da questa rivelazione. Per riuscire a possedere i cinquecentomila franchi, Fra' Diavolo deve sedurre la fanciulla, sottrarla alle sue vesti, ai suoi indumenti. L’oro e la fulgida ricchezza sono custoditi vicino alla candida epidermide della donna. Insinuarsi sotto la sua gonna, spogliarla da tutti i suoi abiti coprenti, renderla nuda, così da raggiungere il prezioso patrimonio è una metafora della conquista. La seduzione, l’attrazione fisica, l’infatuazione vengono espressi da questo risvolto della storia: nell’avere il cuore, l’anima ed il corpo di una dama si può ottenere il tesoro più grande, sia esso “materiale” come rappresentato nel film sia esso “ideale” come rappresentato dal vero amore.
Stanlio e Ollio,
comprimari e protagonisti al tempo stesso di questa peripezia, restano fin troppo
puerili e sciocchi per ben comprendere le trame tessute dal marchese, loro
padrone. Essi non si curano dei furti e delle questioni inerenti gli altri
personaggi, si limitano a ridere a
crepapelle da ubriachi, a giocherellare con “Menadito” o con “Naso,
Nasino, Nasello”. Stanlio e Ollio restano bambini intrappolati nel corpo di
uomini adulti. Seguitano, conseguentemente, ad osservare le vicissitudini con i
loro soliti sguardi: gli occhi di due
piccini che trascorrono il tempo scherzando. Proprio grazie alle loro
risate, ai loro vezzi, alle loro allegre peripezie, Stanlio e Ollio sono
riusciti a cavarsela nelle situazioni più disparate. Persino quando la vita
voltava loro le spalle, essi seguitavano ad avere un ghigno giocoso e
spensierato.
Quel ghigno poteva essere intravisto persino sotto l’espressione crucciata e rassegnata di Ollio, o sotto la mimica piangente di Stanlio. Essi ridevano sempre, perché sapevano che con le loro candide disgrazie elargivano serenità d’animo a chi li stava ad ammirare. La risata era l’unica arma di Stanlio e Ollio, altro che quei fucili o quelle pistole che impugnavano maldestramente fianco a fianco a Fra' Diavolo. Anche quando erano prossimi ad essere impiccati, verso la fine del film, poco prima di salvarsi per l’ennesima volta, i due, nel proprio intimo, sorridevano come bimbi. Stanlio e Ollio non erano affatto geniali bensì intuitivi, poiché ammiravano il tutto con stupore, come un bimbo che scopre ed impara. Stanlio e Ollio guardavano il mondo così come il Pascoli avrebbe voluto che tutti facessero. Laurel e Hardy osservavano la realtà con gli occhi di un “fanciullino”, con gli occhi dell’innocenza e della purezza.
"Stan Laurel e Oliver Hardy" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
“Due menti senza un singolo pensiero” - era l’aforisma con cui Stan Laurel era solito descrivere “Stanlio e Ollio”, il duo comico a cui Oliver Hardy e lo stesso Laurel davano vita sullo schermo. Solamente supporre davvero di non venire mai turbati da alcun pensiero sembrerebbe alquanto utopistico. Stanlio e Ollio, nelle loro disavventure, avevano eccome di che pensare! Alle volte dovevano escogitare il modo di sbarcare il lunario, racimolare quanto occorreva per consumare un frugale pasto tanto i loro personaggi pativano la povertà; altre volte dovevano, invece, ponderare le opportune soluzioni per tirarsi fuori dai guai, vagliare un escamotage per “sopravvivere” ad un nuovo, difficile giorno, in una società costituita da biechi prepotenti. Era chiaro sin da subito che Stan Laurel con quella sua frase non volesse realmente intendere che Stanlio e Ollio non venissero mai “attraversati” dalla benché minima attività cerebrale. Il significato di quanto affermava era ben più profondo, anche se apparentemente elusivo. Non avere un singolo pensiero in due significava vivere la vita ed affrontare le sfide, più o meno ardue della quotidianità, con la spensieratezza di chi riesce a ridere a crepapelle anche innanzi al più triste degli scenari snocciolatosi sotto i propri occhi. Stanlio e Ollio ridevano insieme e facevano ridere quando venivano maltrattati, sfruttati, sottopagati, rifiutati, scacciati, traditi o lasciati in mezzo ad una strada in pieno inverno con la temperatura che segnava pericolosamente il “sotto zero”. Ma perché, nonostante tutto, i due erano così “spensierati”? Perché incarnavano, nella loro intimità, l’animo di due bambini, soggetti infantili ma da sempre “anarchici” nei confronti di una società schiacciante. Mantenevano tale “meccanismo di difesa” persino nei riguardi delle loro famiglie, che potevano rivelarsi anch’esse opprimenti. Le sole armi di Stanlio e Ollio erano le loro risate, sberleffi siffatti di ilarità e rivolti a chi cercava di tarpare le ali di quella libertà che permetteva loro di volare via, di volteggiare rapidi e leggeri come un pensiero remoto, esattamente come può fare la fantasia senza freno di un bambino.
Sposare chi nell’animo resta un eterno “Peter Pan” è un sfida ostica per il mantenimento di un durevole, felice e sereno matrimonio. Dovevano saperlo sin dal principio Lottie e Betty (rispettivamente Mae Busch e Dorothy Christy), le consorti dei due amici in uno dei loro massimi classici: “I figli del deserto”, quinto lungometraggio della coppia comica più famosa della storia della settima arte. Uscito nelle sale cinematografiche tra la fine del 1933 e l’inizio del 1934 è l’unico lungometraggio dei due artisti ad essere stato diretto da William A. Seiter, regista specializzato nel genere rosa e nella commedia, la cui sensibilità imprime al film una sorta di impronta indelebile.
In questa commedia intramontabile, i due protagonisti anelano ad un desiderio di evasione smisurato, grande quanto l’inospitale deserto del Sahara. Il loro bisogno di divertimento e indipendenza si scontra con i tradizionali e dogmatici doveri coniugali e le mogli, tanto belle quanto inclini al comando, assurgono al ruolo di “antagoniste”, metaforiche catene che tentano di attanagliare e tenere stretto lo spirito fanciullesco di Stanlio e Ollio. Questi ultimi amano profondamente le loro spose ma non vorrebbero comunque rinunciare ad un attimo di svago. E, infatti, per poter essere presenti al raduno annuale dei “Figli del deserto”, associazione alla quale Stanlio e Ollio sono iscritti, i due amici devono mettere in scena una farsa. Ollio, disperato perché Lottie lo vorrebbe al suo fianco durante le vacanze in montagna, decide di fingersi malato, e così si fa aiutare da un “medico” compiacente (invero, un eccentrico veterinario), il quale gli prescrivere un periodo vacanziero a Honolulu. L’amico Stanlio gli dovrà fare di conseguenza da accompagnatore. Liberatisi ormai dalle partner i due vanno invece all’appuntamento di Chicago con i “Figli del deserto”.
Nel far rientro a casa scoprono che la nave di ritorno da Honolulu è affondata, e da qui si snodano tutta una serie di tragicomiche peripezie (degne della più spassosa commedia antica del teatro di Aristofane) che vedono Laurel e Hardy costretti a nascondersi nella soffitta della casa di Ollio. C’è da aggiungere pure che le mogli, in principio preoccupatissime per la sorte dei mariti, hanno modo di vederli proiettati sul grande schermo mentre entrambi si pavoneggiano davanti all’operatore che li riprende, scoprendo così l’inganno. Lottie e Betty, un tempo alleate, nel mentre meditano la loro vendetta, lasciano al contempo emergere una sana e competitiva rivalità su chi dei loro due mariti si rivelerà più sincero.
Mentre Ollio continuerà a mantenere la propria posizione menzognera, il pauroso Stanlio dirà tutto alla moglie, perché, in fondo, i bambini potranno pur essere spensierati, ma scoppieranno di certo a piangere se in loro prevarranno i sensi di colpa per aver detto un’innocente bubbola. I due protagonisti, completamente succubi delle mogli, accetteranno il loro destino per le spontanee risate di noi spettatori. Così Ollio sarà sommerso dalle stoviglie scaraventate sulla sua testa da Lottie, mentre Stanlio riceverà tutte le attenzioni di Betty, che lo premierà con coccole e leccornie per essere stato, almeno nel finale, sincero. Tra Stanlio e Betty prevarrà, per quella notte, un amore quieto; tra Ollio e Lottie, ancora una volta, un ironico amore burrascoso e litigioso. L’esilarante atto conclusivo del film vuol lasciare un messaggio basato sull’onestà ma soprattutto sul principio di fedeltà, cuore pulsante del perfetto funzionamento di un buon matrimonio.
“I figli del deserto” è strutturato con un susseguirsi di momenti divenuti celebri, memorabile la scena in cui Ollio canta, col suo inconfondibile timbro vocale, la canzone “Honolulu baby”. I caratteri decisamente nuovi che si riscontrano nel film sono riconoscibili nelle gag. Non si notano più le classiche corse infaticabili, le rocambolesche cadute e le ardimentose vicissitudini dei protagonisti. Sin dalle battute iniziali del lungometraggio ci si trova davanti a una nuova comicità basata sulla caratterizzazione ben distinta dei personaggi e sulla scrittura articolata degli episodi. I due arrivano in ritardo al congresso e subito, già sulla porta d’entrata, riescono a perdersi di vista, tendando in seguito di ritrovarsi. Quindi, mettendo scompiglio tra i presenti, raggiungono in modo goffo i loro posti. Appare evidente che la comicità non è data da una battuta, da una situazione particolare o da un episodio al limite del paradosso, ma è data dal contrasto tra l’incapacità dei due individui e la solennità dell’evento che si sta svolgendo. Non mancano però le vecchie tecniche già sperimentate e oltremodo collaudate. Basti pensare alla gag in cui Ollio, fingendosi ammalato, ha i piedi in una tinozza di acqua caldissima: prima viene ustionato dalla moglie che gli versa inavvertitamente addosso dell’acqua bollente, poi dalla superficialità di Stanlio che cade anch’egli dentro al mastello, dove per ultima andrà a finirci anche la stessa moglie. Ma per distacco, la sequenza a generare maggiore ilarità resta quella finale, dove lo sguardo perplesso e preoccupato di Ollio si volge direttamente alla cinepresa, ricercando la complicità degli spettatori con il suo celebre “camera-look”. Il volto paonazzo di Oliver fa traspirare la comicità di un uomo prossimo a scontare la propria “colpa” e che reclama ingenuamente un “aiuto” a chi ne sta osservando il divertente epilogo.
Ne “I figli del deserto”, il matrimonio viene riletto secondo una chiave umoristica farsesca, in cui il rapporto tra marito e moglie non si sviluppa su di un livello paritario ma vede la donna porsi autorevolmente al di sopra dell’uomo, prostrandolo con fare intimidatorio. Come se tale indumento conferisse una sorta di “potere”, sia Stanlio che Ollio fingono d’indossare i “pantaloni” nelle loro rispettive case, il che sarebbe anche vero, ciononostante dimenticano di confessare che entrambi cedono con consuetudine agli imperativi delle mogli, coloro le quali portano una “gonna”, ma in effetti mantengono uno status di assoluta “leadership”, dimostrando con quanta facilità si possa sfatare un “luogo comune”. Attenzione, però, le due protagoniste femminili nel film non sono, come può sembrare in una rilettura rapida e approssimativa, mere arpie irascibili e totalitarie, bensì donne forti e oramai mature, che proprio faticano a comprendere gli spiriti gioviali dei mariti. Vi è, dunque, una incompatibilità caratteriale tra la sfera bambinesca dei due e l’enigmatico mondo adulto personificato dalle due donne. Sia Betty che Lottie soffrono il fatto che Stan e Oliver preferiscano trascorrere il tempo con l’allegra combriccola dei figli del deserto piuttosto che con loro. Una nuova chiave di lettura della pellicola potrebbe essere altresì racchiusa nella recondita voglia, manifestata anche con rabbia e disapprovazione, delle due spose d’essere considerate dai loro mariti come assolute compagne di vita. Una vita considerata in ogni sua forma e che non si limiti, per l’appunto, soltanto al focolare domestico.
“I figli del deserto” è una meravigliosa commedia che esalta l’imprevedibilità degli eventi, la complessità degli equivoci e, soprattutto, le conseguenze del raccontare fanfaluche le quali, quasi sempre, vengono a galla.
Ripensando agli ultimi secondi dell’opera, prima che il sipario cali giù e ponga fine alla narrazione visiva, non si può che provare una certa immedesimazione in un personaggio in particolare. Davanti alla furia di una moglie delusa e arrabbiata, a noi uomini non resta che “incassare” i colpi, accettare una giusta punizione e preparare le opportune scuse da proferire verbalmente, magari accompagnandole con un sorrisetto malizioso come quello di un ragazzetto e sinceramente innamorato come quello di un marito.