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"Pinocchio" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Era un piccolo insetto della famiglia dei Lampiridi, un po’ in là con gli anni, ed emanava tanta lucentezza. Ray, questo era il suo nome, si era mostrato per la prima ed unica volta in un’opera della Disney di stampo recente, “La principessa e il ranocchio”. Si trattava di un animaletto curioso e dalla verve sognante, non amava affatto il giorno, e attendeva impaziente il calar della sera. Spesso, volgeva gli occhi verso la volta celeste a rimirare una stella in particolare, e non, come fanno tutti, l’insieme dei corpi celesti che ammantano il cielo. Ray si era innamorato di quella stella, tanto da considerarla una lucciola remota, volata troppo in alto, smarritasi nell’infinità dell’universo e rimasta lì, a rinfrancare la vista di chi indirizza il proprio sguardo alla volta della sua essenza lucente. Ray chiamava quella stella Evangeline, ed essa emanava una luce ancor più raggiante di quella che veniva emessa dal corpo da coleottero di questo bizzarro innamorato. Quando Ray lascerà questa Terra, il suo spirito raggiungerà il cielo e diverrà un astro, posto a pochi “attimi” dalla sua stella più amata. Come accadeva a molti degli eroi della mitologia greca, tramutati in costellazioni eternate da Zeus, Ray riuscirà a realizzare il suo desiderio più grande, vivere una vita immortale fianco a fianco a quell’amore che aveva animato il suo cuore, facendolo risplendere di un’aurora sfavillante. Lassù nell’infinito, dove Perseo e Andromeda continuano ad amarsi sotto forma di costellazioni, qualcosa di misterioso e imperscrutabile aveva concesso ad una morente lucciola la realizzazione di un desiderio. Ma chi era stato magnanimo fino a tal punto?

E’ sempre nel cielo che noi uomini releghiamo i nostri sogni inconfessati. Talvolta, aspettiamo d’intravedere la caduta vertiginosa e rapida di una stella, così da esprimere fugacemente un desiderio appena sussurrato ma ardentemente voluto. Crediamo, forse ingenuamente, che quella stella che precipita giù, porti con sé un pensiero pronunciato a bassa voce, e che prima di disperdersi, con l’ultimo dei suoi sforzi, essa scelga di esaudirlo. Su, nel firmamento custodiamo astrattamente le nostre speranze, come se le stelle non fossero altro che banali corpi celesti, pur sempre vivi e palpitanti. Ma anche qualcosa di più, entità divine e magiche che guardano dall’alto e aiutano chi si nutre di speranze, giù in basso.

Un giorno lontano lontano, un anziano falegname, tanto buono, implorò una stella di fargli dono di un figlio. No, tale stella non era Evangeline. Eppure, anch’essa era impregnata di una scintillante magia, pronta ad accontentare il volere di un uomo umile e generoso. Nelle prime sequenze di “Pinocchio”, uno dei grandi capolavori dell’animazione firmato Walt Disney, lungometraggio ispirato all’altrettanto capolavoro di Carlo Collodi, il Grillo Parlante tiene immediatamente a precisare come le stelle possano render possibile qualunque desiderio. Inizialmente, noi spettatori potremmo dubitare di tale affermazione, del resto lo stesso Grillo ammette, senza remore, d’aver peccato di fiducia anch’esso, in principio. Diffidare del fantastico è insito nell’indole umana. Ma la storia che il medesimo, coscienzioso animaletto andrà a rinarrare ci permetterà di credere.

 

Tanto tempo fa, una sera in cui le stelle brillavano come diamanti incastonati in un “soffitto” privo di nuvole, un intagliatore di legno se ne stava nella sua casetta a lavorare. Ancora due tocchi e l’ultima delle sue creazioni si poteva finalmente dir finita. Geppetto era sul punto d’ultimare un grazioso burattino, ricavato da un ciocco di legno pregiato. Con la punta del pennello, l’artista si accingeva a dipingere i restanti tratti del viso del burattino: dapprima le sopracciglia brune, le guance purpuree ed infine la bocca, tratteggiata ad arte per far risaltare l’espressione di un dolce sorriso. Geppetto era un artigiano d’impareggiabile bravura, un “Efesto” povero che svolge la sua attività in casa, adibita anche a bottega, piuttosto che nelle viscere di un vulcano attivo destinato a fucina e a dimora. Tutto intorno alla casa di Geppetto era “vivo”, anche ciò che apparentemente non lo era affatto. L’interno di quell’abitazione trasudava di meraviglie. Vi erano sulle mensole fantastici giocattoli, su altri scaffali, invece, carillon e scatole musicali, tanto piccole da poter essere tenute nel palmo di una mano. Dozzine di orologi arricchivano, infine, un’intera parete, ed ognuno di essi era diverso, singolare, lavorato a mano. Ad ogni scoccare dell’ora gli ingranaggi, così accuratamente progettati, facevano scattare i meccanismi, per cui le statuine poste in sommità cominciavano a simulare ritmicamente un movimento, un fischiettio, un cenno. Erano tutti oggetti costruiti dalla sapiente abilità dell’artigiano, “inanimati” seppure in movimento, nel loro progredire meccanico, senza vita ciononostante erano stati generati da un atto creativo, da un gesto d’amore per il proprio lavoro e la propria arte. Geppetto, nei suoi orologi, animava il tempo, infondeva in esso la vita e l’arte. Erano quelle le realizzazioni di una vita, mai vendute né forse mai apprezzate da alcuno. Il Geppetto della Disney non sembra soltanto isolato, come quello venuto fuori dalla penna del Collodi, pare altresì un lavoratore la cui arte risulta essere incompresa. I giocattoli che riposano inermi, aspettano, come se fossero stati “partoriti” e destinati ad un bambino mai giunto, un erede che Geppetto non ha mai avuto ma che ha tanto agognato. Nel film di Walt Disney, Geppetto è già padre nell’animo, deve solo diventarlo realmente.

Il falegname era tanto solo, forse aveva perduto sua moglie molto tempo prima e, conseguentemente, non aveva avuto figli. Le sue uniche compagnie senzienti e vive erano una “pesciolina” rossa, Cleo, e un gattino dal manto scuro, Figaro. Non potendo più generare una vita con la sua sposa, e non avendo neppure la possibilità di adottare un infante, Geppetto trascorreva i suoi anni a creare, come poteva, la vita, usufruendo dei materiali più disparati. Attorniato da tanti oggetti nati dalla sua mente e plasmati dalle sue mani, Geppetto viveva immerso in un mondo in cui vita vera e vita fittizia coesistevano, dando l’illusione d’essere simili. Tutto pareva esser vivo nella sua casetta, poiché tutto si muoveva ed aveva una forza espressiva ammirabile, iniettata dalla sua bontà creativa.

Il burattino, chiamato dall’artigiano Pinocchio, era divenuto per Geppetto il preferito. Come se lui fosse un puparo e quella la sua adorata marionetta, egli la muoveva con i fili, così da farla danzare allegramente per tutto l’ampio stanzone. Il vecchio falegname era arrivato a considerare quell’ometto di legno come un figlio. Purtroppo, però, quel bimbo intagliato e scolpito non era reale, e poteva muoversi solamente per volontà altrui. Così, quella notte, Geppetto pregò una stella radiosa di tramutare il suo Pinocchio in un bambino vero.

Fu in quel momento che la stella si “staccò” dalla cupola celeste e discese giù, tramutandosi in una splendida fata dai capelli d’oro. La Fata Turchina aveva avuto pietà, oppure aveva scorto qualcosa nell’ultima fatica dello squattrinato falegname. Quel legno da cui era sorto Pinocchio aveva un che di fatato. Geppetto era riuscito a catturare col desiderio la linfa vitale della natura. Bastava soltanto il tocco di bacchetta di una “maga” per alitare quel soffio di vita di cui Pinocchio aveva bisogno. Dalle nuvole venne giù una “madre” bellissima, dipinta con tale magnificenza dagli artisti della Walt Disney da non averne eguali.

La fata azzurra è avvolta da una fulgida luce, ha le labbra rosse come mele appena raccolte, gli occhi cerulei come il cielo terso dal quale proviene, le ali argentee e cristalline come drappo di velluto trasparente e indossa un vestito azzurro, ricco di merletti pregiati e tempestato di pietre preziose. Nelle pellicole d’animazione, poche sono le donne, come tale figura di fata, concepite e ritratte con tale vivezza e splendore da poter essere considerate “vere”, reali, tangibili, concrete allo sguardo, tanto autentiche da confondere il già citato senso della vista e dare l’impressione di poter essere addirittura sfiorate dal tocco di una mano, protesa verso lo schermo nel vano tentativo di lambire un tratto della pelle.

La fata dona la vita al burattino e gli promette che se si dimostrerà obbediente, coraggioso e disinteressato, la magia si compirà del tutto, fino a farlo diventare un bambino vero per sempre. Inizia così l’avventura di Pinocchio, il quale, spalleggiato dal fedele Grillo Parlante, andrà ad esplorare il mondo esterno e conoscerà i pericoli della società e le tentazioni del male.

Pinocchio scopre il mondo un po’ alla volta, con ingenuità, con una certa innocenza ma soprattutto attraverso la menzogna, arma furbescamente usata dall’uomo sin dalla più tenera età per ottenere ciò che vuole. Ma Pinocchio scoprirà a sue spese che le bugie, se non accorciano le gambe, riescono comunque a mostrarsi con la crescita spropositata del naso. Giungerà poi sino al paese dei balocchi, e lì rischierà di trasformarsi in un asinello, metafora estetica dell’ignoranza, come accadrà al suo amico Lucignolo, in una delle scene più marcatamente inquietanti mai girate dagli studi Disney.

Nella suddetta scena, Lucignolo regge con bramosia un calice traboccante di birra, fuma con impazienza un sigaro, denigra superficialmente il sapere scolastico, ed è platealmente incline al gioco d’azzardo. Walt Disney, mutando il corpo dell’ingenuo amico di Pinocchio, ammonisce i suoi piccoli spettatori sui vizi che creano dipendenza, anche a costo di spaventarli. Lucignolo, quando nota il suo progressivo cambiamento, disperato, chiede aiuto a Pinocchio, lo prega di far arrivare in fretta e furia il suo Grillo, e, come ultima delle sue parole pronunciate da umano, invoca la sua mamma, prima di trasformarsi in un ciuchino impazzito e senza più salvezza. Pinocchio comincia così a trasformarsi, ma sarà l’arrivo provvidenziale della sua stella amica, il Grillo, a salvarlo.

Pinocchio si pente e intraprende un viaggio a ritroso di espiazione, alla ricerca del padre. Grazie alla figura del Grillo Parlante, non soltanto coscienza ma anche spalla del protagonista, Pinocchio si ravvedrà giusto in tempo, prima di soffrire e di dannarsi, in una rilettura didascalica operata dall’opera filmica che suggerisce come il percorso di crescita adempiuto da Pinocchio sia stato necessario per permettergli di ben distinguere il bene dal male.

Come i marinai, orientati dal sestante durante la navigazione, Pinocchio sarà guidato dalla sua stella più cara, la sua diretta consigliera, incarnatasi nuovamente nel suo amico, il quale lo accompagnerà sino in mare aperto, dove il burattino verrà inghiottito dalla balena e si ricongiungerà al padre. La balena raffigurata dagli artisti Disney è gigantesca, buia come il nero di seppia, non bianca come il capodoglio bramato da un tale capitano, uno dei tanti protagonisti della letteratura americana, con denti aguzzi e sguardo predatorio. Pinocchio, rimasto ancora con le orecchie e la coda da somaro, segno di come il suo peccato continui a perseguitarlo, escogiterà un modo per salvare se stesso e la sua famiglia.

Il suo gesto eroico e coraggioso gli farà ottenere la salvezza: la Fatina, infatti, avrà misericordia del piccolo burattino, oramai moribondo e stremato dalla fatica, e soffierà in lui nuova vita, questa volta rendendolo un bambino in carne ed ossa. Il Grillo, come premio per il suo operato, riceverà dalla fata un distintivo d’oro, che avrà proprio la forma di una stella.

Sul finale, il “Pinocchio” della Disney celebra l’importanza del nucleo famigliare e la gioia del ritrovamento tra padre e figlio. Mentre scende nuovamente l’oscurità, ed una stella torna a irradiare con la sua luce il buio della notte, Pinocchio, il Grillo, Geppetto, Figaro e Cleo ballano felici e contenti. Questa volta, Pinocchio, nel compiere i suoi passi di danza, non è più mosso da alcun filo ma unicamente dal suo volere e dalla sua pura coscienza. Tutto merito di quella meravigliosa stella!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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