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Un ultimo respiro profondo, poi giù in acqua. Haley chiude gli occhi, protrae il suo corpo in avanti e si tuffa. Nuota rapidamente, con tutte le sue forze, dà bracciate veloci che solcano l’azzurro chiaro della piscina. Di tutta fretta raggiunge il bordo. La prima vasca è finita ma ne manca ancora una. La parete, sfiorata dai suoi arti, la sospinge per l’ultimo sforzo. Haley sguazza, lesta, sino al traguardo ma il suo “passo” incalzante non basta. Per qualche centesimo di secondo, la gara di nuoto viene vinta da un’avversaria, e ad Haley non resta che incassare l’ennesimo smacco. Fuoriesce, allora, dall’acqua, l’elemento in cui riesce ad essere a suo agio, agile e leggera, e riguadagna il suolo, la “terraferma”, l’elemento in cui riemergono le sue frustrazioni, i suoi affanni, le sue amarezze.

Haley sa come incamerare le sconfitte. Ella è caduta molte volte ma ha sempre trovato il modo di rialzarsi, di riemergere dal fondo, di ricominciare ed accettare un’altra sfida. Ma le delusioni, adesso, cominciano ad essere troppe. I suoi genitori si sono separati da tempo, Haley non può più frequentare suo padre, vede la sorella di rado e non riesce a imporsi come vorrebbe nella vita di tutti i giorni. Come poter trovare le energie residue per andare avanti, riprovare e tornare a solcare l’acqua?

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Haley pratica il nuoto sin da bambina, ma a lei questo sport non è mai piaciuto. Il padre insistette tanto affinché si esercitasse. Egli vedeva in lei un talento naturale, una sorta di predisposizione innata. La ragazza cominciò, allora, a cimentarsi nelle competizioni agonistiche, più per soddisfare le aspettative del genitore che per altro. Ad onor di cronaca, Haley è davvero una grande nuotatrice, deve solo perseverare nei suoi allenamenti, ed ha un’attitudine a non scoraggiarsi, a non arrendersi mai. Il suo rapporto con l’acqua è tutt’altro che idilliaco. Per lei, essa ha sempre rappresentato una dimensione con cui doversi confrontare, uno spazio in cui dover primeggiare, sopravvivere, lottare per avere la meglio sugli altri, un regno dove testare le proprie abilità, mettere alla prova il proprio coraggio, una realtà da fronteggiare per oltrepassare i propri limiti. 

Il padre è solito sussurrarle all’orecchio che lei è una “superpredatrice”, nobile ed elegante come un’aquila, agile come un felino, tacita come un rettile acquatico. Haley, però, non si è mai sentita tale, e non ha mai pensato a se stessa come ad una “divoratrice”, una cacciatrice che potesse ingurgitare e spazzare via i propri avversari. Lei sa soltanto di essere una “tosta”, una “perdente” che non conosce resa.

Una volta raggiunto lo spogliatoio, a seguito dell’ultima gara di nuoto disputata, Haley viene a sapere che un uragano di categoria 5 è in rotta di collisione con la Florida. La ragazza, preoccupata per le sorti del padre, decide di raggiungere la sua abitazione a Coral Lake. Col trascorrere delle ore, la tempesta infuria sempre più, e la pioggia scende copiosa come un torrente inarrestabile. Haley ignora le avvertenze della polizia, e arriva sino a destinazione. Entra e si porta in prossimità del seminterrato della dimora. E’ lì che scorge il padre ferito e privo di sensi, e lo rinviene. Poco dopo, Haley si accorge di non essere sola: dall’oscurità emergono due grandi alligatori, intrufolatisi in casa attraverso un canale di scolo, a seguito della violenta perturbazione abbattutasi in quel luogo.

Haley trascina il corpo del genitore in una zona sicura, salvo poi rendersi conto d’essere rimasta prigioniera. L’acqua che precipita incessante sta invadendo l’abitazione e gli alligatori hanno, oramai, imposto il proprio dominio su di essa, attendendo con predatoria pazienza. Ad Haley non spetta che sostenere, in acqua, la sfida più ardua per la propria sopravvivenza.

Il lungometraggio “Crawl – Intrappolati”, prodotto da Sam Raimi, si svolge interamente in una casa in cui i protagonisti devono far fronte alle proprie paure e ad alcune indomabili “forze oscure” che tenteranno di annientarli. Questa premessa narrativa di base risulta essere simile a quella di uno degli horror più famosi diretti proprio da Raimi: “Evil Dead”, ovvero “La casa”. “Crawl” è un thriller estivo valevole, dal ritmo febbrile e colmo di attimi di tensione.

Sin dall’inizio, l’opera filmica effettua un rovesciamento delle parti per quanto concerne i tipici rapporti gerarchici tra i personaggi di una pellicola a carattere avventuroso e di genere “survival”. In “Crawl” è la figlia a prendersi cura del padre e non il contrario, esaltando costantemente la forza e l’audacia femminile incarnati dalla protagonista. Haley è una ragazza coraggiosa, che avverte ma domina il terrore, una “bambina” rimasta schiacciata dalle speranze del proprio papà, e, pertanto, cresciuta troppo in fretta. Ella è ancora profondamente legata alla figura del genitore, colui che non ha mai voluto deludere. Dave, il padre di Haley, ha riposto un peso e una responsabilità fin troppo esagerati sulle spalle della figlia, aumentando, senza volerlo, le sue ansie e le sue insicurezze. Ciononostante, la voglia di non arrecare insoddisfazione nel cuore del papà ha portato Haley ad accrescere la propria determinazione nel non cedere al dolore, un fattore caratteriale, quest’ultimo, che permetterà ad Haley di restare in vita. La drammatica esperienza che Haley e Dave vivranno insieme, intrappolati a Coral Lake, permetterà loro di riavvicinarsi e ricominciare da dove si erano separati con una maggiore comprensione delle rispettive volontà. 

I coccodrilli sono creature straordinarie. Essi possono vivere sia sulla terraferma che in mare, dominando, così, due elementi del creato: la terra e l’acqua. Quando giacciono sommersi, i coccodrilli sono quasi invisibili ad occhio nudo, poiché sfruttano l’acqua torbida per mimetizzarsi. Essi emergono all’improvviso, con le fauci schiuse, afferrando qualunque cosa ci sia in superficie. Tali creature celano in sé l’istinto, la forza e l’adattamento di milioni di anni. I coccodrilli sono, infatti, esseri antichissimi, comparvero nel Cretaceo superiore, e tutt’oggi popolano il nostro mondo come dei veri e propri dinosauri perdurati, fossili viventi che hanno evitato l’estinzione patita dalle altre specie di animali che, milioni di anni or sono, regnavano incontrastati sul globo terrestre. Animali misteriosi, affascinanti, elusivi ed inquietanti, i coccodrilli si esprimono attraverso ruggiti feroci ma anche tramite sibili lievi, versi del tutto indecifrabili e indescrivibili. Essi hanno la parvenza d’esser freddi ed austeri, cruenti e impietosi, versano lacrime che noi umani giudichiamo non altro che false espressioni di tristezza, pianti di puro disinteresse. Questi rettili giganteschi e possenti, dotati di una scorza spessa come una corazza, testimoniano il raggiungimento di uno stadio dell’evoluzione perfetta. Essi incarnano il passato, la preistoria, e permangono, da allora, inalterati nell’aspetto e nel comportamento. Il coccodrillo ha un morso devastante, il più potente del regno animale. Tali bestie feroci, stando al ruolo che adempiono nella pellicola, vengono descritte come macchine perfette portatrici di morte.

Gli alligatori del film, che irrompono nella casa della protagonista, che invadono il suo spazio vitale, nuotando, trasportati dalla corrente che ha allagato l’intero edificio, rappresentano la ferocia di un mondo primordiale, l’efferatezza di un’era arcaica, la brutalità di un mondo selvaggio e, soprattutto, la famelica violenza della preistoria che sconfina, riversandosi nella modernità che viene, a sua volta, personificata dalla dimora di Haley. L’abitazione, flagellata dai marosi ed espugnata dagli alligatori, evoca la bellezza del presente deturpata dalla forza di un passato affamato, pronto a fagocitare con veemenza l’attuale, l’odierno. Nella situazione di emergenza, nella catastrofe, Haley riscopre la solitudine, l’amarezza di una società ridotta allo stato primitivo dalla violenza delle inondazioni, una società, per l’appunto, in cui l’uomo deve lottare con gli animali feroci per la propria sopravvivenza e incolumità.

Crawl – Intrappolati” è un viaggio a ritroso nel tempo, una discesa vertiginosa nell’avvenuto, dove l’antichità evocata da questi particolari dinosauri, i coccodrilli, che procedono, tuttora, con il loro maestoso ed inquietante incedere a nuotare tra le acque, si scontra con la nostra epoca rappresentante il progresso; un progresso che la furia punitiva della Natura può presto trasformare in regresso. 

Nella sua tragica disavventura, Haley vivrà, con l'acqua, il confronto più disagevole della sua esistenza e riuscirà a prevalere. Sarà la resistenza, il desiderio di non cedere, a portarla in salvo. La volontà di non demordere, di non capitolare, di non rassegnarsi sono le caratteristiche più lodevoli di questa giovane donna che, una volta domato il passato, convoglierà in sé l’impavidità di guardare al futuro.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Prima de’ “L’armata delle tenebre”, Sam Raimi desiderava dirigere una pellicola a carattere supereroico. Dopo aver ultimato le riprese del suo terzo lungometraggio, “La casa 2”, Raimi tentò di convincere la Warner Bros a sceglierlo come regista di “Batman”, ma venne superato in vista del traguardo dal cineasta Tim Burton. Cercò, allora, di accaparrarsi i diritti per realizzare un film su “The Shadow” ma senza successo. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, le porte di Hollywood non erano ancora state aperte sull’universo dei fumetti, e poche erano le case di produzione propense ad investire su progetti di tal genere. L’epoca dei primi “Spider-Man” cinematografici che vanteranno la firma proprio di Sam Raimi era ancora lontana. I “Superman” con Christopher Reeve, il “Batman” di Tim Burton rappresentavano, in quei decenni, le eccezioni. Raimi adorava i fumetti e, non potendo acquistare i diritti per adattare alla celluloide un personaggio cartaceo, decise di creare lui stesso il proprio antieroe in formato pellicola. Or dunque, stipulando un contratto con la Universal, Raimi partorì il suo figlio più tormentato: Darkman.

Il grande talento di Raimi ed il suo stile unico ed inconfondibile avevano già mietuto ampi consensi tra gli appassionati del cinema dell’orrore. Raimi, sin dagli inizi della sua carriera, dimostrò d’essere un abilissimo cineasta, un ottimo autore ma, ancor di più, un eclettico e originalissimo artista. Le tinte orrifiche delle sue opere, l’ironia inaspettata, improvvisa, goliardica e grottesca, lo splatter estremo, il rosso del sangue che zampilla copioso, la comicità parodistica, la tecnica di ripresa rapida, la soggettività prolungata, la camera che scruta e scatta veloce come un proiettile, lo sviluppo elettrizzante e dinamico della sua narrativa sono gli elementi di base del suo cinema. Raimi è senza alcun dubbio un artista geniale, un regista da capire e stimare. Nel già citato “Darkman”, il suo linguaggio e la sua poetica trovano una forte espressione.  Darkman incarna, sotto le sue bende, tra le sue ferite putride, le essenze straziate e angosciate dei grandi mostri della Universal, le creature che appartengono indissolubilmente all’età dell’oro del cinema in bianco e nero.

Darkman è un personaggio violento e brutale, stralunato e fuori di testa, sofferente e drammatico tanto da suscitare pietà, comprensione, empatia. In lui confluiscono molteplici sentimenti ed altrettante emozioni. Darkman non è l’eroe del popolo né il vigilante mascherato che veglia sulla città, bensì un uomo sfigurato che insegue la sua personale vendetta. Secondo il volere di Raimi, sarebbe toccato all’amico fraterno Bruce Campbell vestire i panni del distolto uomo-nero, ma lo studio cinematografico spinse per scritturare un interprete più affermato. Liam Neeson, attore di notevole presenza scenica, al suo primo ruolo da protagonista, impersonò Darkman, conferendo al personaggio un dolore intimo, profondo, impossibile da alleviare. Neeson riuscì a fare ciò non tanto con le mimiche facciali, parecchio limitate dall’impressionante trucco, bensì con la voce soffusa, a stento soffocata, che esternava i disturbi interiori del personaggio. Darkman è un antieroe ispirato dal romanzo grafico ma plasmato per la settima arte. Raimi confezionò un film tributario, nostalgico, citazionista, eppure incredibilmente innovativo e stravagante. Le sequenze del suo lungometraggio evocano le bellezze pittoriche e gli sfondi colorati delle tavole di un fumetto, da sfogliare pagina dopo pagina, montaggio dopo montaggio. Le scenografie imponenti, gli edifici di una Los Angeles bagnata da una pioggia battente, i gargoyle di pietra che svettano alti sulle sommità dei palazzi, le fotografie e le luci così particolari rendono questo film un classico di culto, uno dei tanti cult nati dalla mente di Raimi e immortalati dal suo occhio meccanico. Darkman, concepito dalla fantasia del regista statunitense, è una vittima sfortunata, un vigilatore maledetto dalla crudeltà degli uomini.

Quando chiesero ad Alfred Hitchcock a cosa, secondo lui, corrispondesse la vera felicità, egli rispose: “Alla serenità assoluta, ad un orizzonte limpido davanti a sé”. A Los Angeles, molti anni fa,viveva un uomo che aveva realmente assaporato la felicità più pura.

Peyton Westlake conduceva una vita mite ma alquanto soddisfacente. Aveva un lavoro gratificante, una bella fidanzata che presto avrebbe sposato, e si trovava sul punto di compiere una rivoluzionaria scoperta. Un cielo terso e senza alcuna nuvola dominava l’orizzonte di Peyton ed il suo futuro appariva più che mai radioso. Di colpo, però, arrivò un fortunale. Peyton non poteva di certo aspettarsi che tutto, in una notte dannata, sarebbe cambiato.

Peyton era un brillante e scrupoloso scienziato. In quel tempo, stava ultimando i suoi esperimenti per la creazione di una pelle liquida che potesse aiutare le persone vittime di gravi ustioni. La pelle artificiale che Peyton aveva sintetizzato in laboratorio, sebbene avesse superato il processo di vivificazione, non riusciva a perdurare. Scoccato il novantanovesimo minuto, l’epidermide sostitutiva iniziava a liquefarsi. Questo, tuttavia, non abbatteva Peyton nello spirito. Egli sapeva che, prima o poi, sarebbe giunto ad una rivelazione. Una notte, il laboratorio di Peyton viene dato alle fiamme da una banda di criminali capeggiata da Durant, un noto boss malavitoso. Lo scienziato viene massacrato dalla furia omicida dei delinquenti. Le sue mani vengono arse dalle fiamme ed il suo viso immerso in una pozza d’acido. In una sola, buia, notte l’esistenza di Peyton mutò per sempre. Egli perse la sua bella vita, dovette allontanarsi dalla sua compagna, venne ritenuto morto, divenne, pertanto, un cadavere errante, un “fu”: il fu Peyton Westlake. Nell’oscurità, dalla morte di Peyton vide la luce Darkman.

Peyton viene recuperato e portato in un istituto medico. Scambiato per un vagabondo senza casa e senza identità, viene scelto per essere sottoposto ad esperimenti. I dottori, consapevoli che l’uomo non può tollerare i dolori derivanti da tali ustioni, decidono di recidergli i nervi che si trovano lungo il tratto spinotalamico, precisamente nel punto in cui gli impulsi del dolore partono per arrivare al cervello. Peyton, in tal modo, non avverte più alcuna sensazione proveniente dall’esterno. Questo, però, provoca in lui gravissimi effetti collaterali. Il suo corpo, divenuto insensibile al dolore, non trae più alcun avviso di pericolo, inoltre, il suo cervello, isolato dagli impulsi sensoriali circostanti, assorbe invece tutti gli stimoli presenti al suo interno, amplificando le emozioni e dando sfogo ad alienazioni, paranoie, ansie incontrollate e profondo senso di solitudine. Queste alterazioni emotive procurano, inoltre, frequenti raptus d’ira. Scariche di adrenalina viaggiano incontrollate nel suo corpo aumentando considerevolmente la sua forza. Peyton ha, involontariamente, sviluppato capacità sovrumane che mineranno per sempre la sua esistenza. Il protagonista, lentamente, si tramuta in un uomo solo, senza scrupoli, reietto e abbandonato. La sua mostruosità estetica non gli permette di farsi accettare dai suoi simili, persino le sue nuove abilità non fanno che allontanarlo dalla sfera umana. Non sentire più dolore, non provare più alcuna compassione, vivere solo, oppresso dai suoi pensieri, non fa che renderlo visceralmente misantropico. Darkman personifica l’emarginazione più acuta, l’intolleranza nei riguardi del diverso e di colui che soffre di un male incompreso.

Fuggito dall’ospedale, il ricercatore si rifugia tra le rovine devastate del suo laboratorio, dove inizia a ricostruirsi il volto digitalizzando una sua fotografia. Come fatto dal dottor Frankenstein, Peyton si isola dalla realtà cittadina per dedicarsi al suo indefesso operato. In principio, Peyton cerca di lavorare pazientemente, ben presto, però, si accorgerà che non potrà in alcun modo dominare le sue frustrazioni.

La mente di Peyton vaga in tempesta. Essa è un veliero che solca acque burrascose. Il vento gelido non cesserà mai di soffiare forte su quelle vele, le nuvole cupe non smetteranno di far piovere.  Peyton era un studioso, ma il suo cervello non può più ragionare come un tempo. Se ad uno scienziato viene tolta l’assennatezza, esso cadrà nella disperazione. Le paranoie, le ansie, le allucinazioni udite e mirate torturano la mente di Peyton, minando la sua integrità razionale. Peyton ha perduto la sua paziente intelligenza, oramai è un essere che vive di emozioni alterate. I “poteri” che gli sono stati donati da un fato tragico rappresentano l’eterna dannazione che Peyton dovrà patire. La sua vita gioiosa e quieta è stata distrutta, nessun futuro lo attende più. Da scienziato assennato come il dottor Jekyll, Peyton è diventato un essere diabolico e mostruoso, forte ed incontrollato come Mr. Hyde.

Peyton si strugge nell’oscurità, inorridito dal proprio aspetto come il Quasimodo di Lon Chaney. Egli, rinchiuso tra i resti del suo laboratorio, la sua casa, il luogo che considera sacro al pari di un’antica cattedrale parigina, giace al suolo, ingobbito, genuflesso da un peso che gli flette le spalle sino a piegarle. Il volto di Peyton è coperto da una fitta bendatura che non fa trasparire alcuna smorfia, soltanto i suoi occhi sofferenti e rabbiosi emergono dagli strati di stoffa bianca. Il suo viso bendato è stato immobilizzato come lo fu, a sua volta, l’empia espressione della mummia di Boris Karloff. Nessuno lo vede più, nessuno sa che è vivo. Egli permane nelle tenebre, non viene mai scrutato, mai descritto, come fosse un uomo invisibile.

Peyton progetta la sua vendetta e, digitalizzando la sua immagine, riesce a creare una maschera identica al suo volto. Indossandola, Peyton riemerge dalle ombre e prova a raggiungere la sua Julie. Egli la spia da lontano come il fantasma dell’Opera era solito fare, similmente ad uno spettro elusivo, nei riguardi della sua Christine. Julie, ancora affranta dal lutto della sua scomparsa, indossa, metaforicamente, un velo che le copre il volto. Peyton, a sua volta, calza sul viso una maschera che richiama il proprio aspetto originario ma non è altro che un’illusione. I due amanti, come in un quadro di Magritte, si rincontrano, si stringono e si baciano senza accorgersi d’essere occultati da un “panno bianco”. Cos’è reale? Un volto ricostruito che può durare un’ora e poco più, o ciò che si cela dietro quella stessa maschera di cera velata, il sentimento e la personalità angustiata di un uomo divenuto mostro all’esterno e all’interno? Una domanda che Raimi pone ai suoi interlocutori silenziosamente.

Peyton tornerà, poco dopo, nell’oscurità proseguendo a covare i suoi propositi di rivalsa. Ottenendo gli scatti fotografici dei volti dei suoi assassini, Peyton sviluppa le maschere delle loro facce, indossandole di volta in volta così da riuscire a mimetizzarsi tra loro. I connotati non sono che mere patine estetiche, strati ingannatori, sfumature menzognere che annebbiano e confondono la realtà secondo l’arte di Darkman. Come accade in “Robocop” di Paul Verhoeven, anche in “Darkman” uno dei fili conduttori della storia è la vendetta.

Darkman ucciderà uno ad uno i suoi carnefici. Non proverà più pietà, non ascolterà più la sua coscienza: egli darà sfogo soltanto alla sua ira, alla sua furia cieca. Non vi è legge, non vi è morale nell’agire di Darkman, solo un senso di torbida ritorsione. Darkman castiga i vili, punisce i violenti, ottiene la sua rivincita sui cattivi. Più che un giustiziere, Darkman diverrà, infine, un vendicatore. Sul vertice di un palazzo in costruzione, Peyton adempierà la sua vendetta. Fronteggerà il mandate del suo omicidio, e lo farà precipitare giù nel vuoto. Un grattacielo in costruzione sarà lo scenario che Raimi riproporrà nel suo “Spider-Man 3”, durante il combattimento finale tra l’Arrampicamuri e Venom.

Di pari passo alla mutazione fisica, Peyton si accorge d’essersi trasformato nel cuore. Consapevole che Julie non potrà mai realmente tollerare ciò che è diventato, Peyton sceglierà di fuggire. Si mischierà tra la folla, usufruendo del suo potere più grande: il camaleontismo. Un potere che non deriva dalla forza bruta né da alcuna abilità superumana, ma dalla sua intelligenza contorta di erudito. Questa sua capacità sarà l’ultimo barlume di umanità che avrà. Egli, sintetizzando la pelle, può creare e fare proprie le fattezze di qualunque uomo egli voglia. Peyton ha smarrito il suo volto e, per questo, ha deciso di indossare i volti di tutti gli altri. Darkman, pertanto, è ogni uomo e nessuno al contempo, può essere ovunque e in nessun luogo. Nessuno potrà riconoscerlo ogni qual volta sceglierà di camuffarsi tra la folla.

Egli non esisterà più come Peyton, ma solo come Darkman. Sarà uno fra tanti, uno fra i più, un “fu” dimenticato che, di tanto in tanto, pur essendo ancora vivo, seguiterà ad osservare la sua tomba vuota come il Mattia Pascal.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Attenzione: l’articolo contiene SPOILER sulla trilogia de “La casa” e sulla serie “Ash vs Evil Dead"

  • La casa (1981)

Qualunque cosa con questo libro, io abbia riportato in vita, mi perseguiterà per sempre.”

Ash (Bruce Campbell) se ne stava rannicchiato sul sedile posteriore della sua Delta. La Delta era un modello Oldsmobile 88 del 1973, a cui Ash era particolarmente affezionato. Giusto il giorno prima l’aveva portata dal meccanico per assicurarsi che fosse perfettamente funzionante. L’autovettura era il mezzo con cui lui, la sua ragazza Linda, sua sorella Cheryl e gli amici Scott e Shelly avrebbero dovuto raggiungere un cottage di montagna per trascorrere un tranquillo week-end. Per l’occasione, Ash aveva concesso di guidare la sua macchina all’amico “Scotty”, che li avrebbe condotti, non senza qualche sussulto lungo il tragitto, a destinazione.

La casa che i cinque avevano affittato ad un prezzo stracciato si trovava all’interno di una folta boscaglia, isolata dal centro cittadino, e per essere raggiunta era necessario attraversare un ponte fatiscente ma “solido come una roccia”. Lo chalet si presentava in condizioni alquanto malconce, e dava l’impressione d’essere la più decadente delle catapecchie, la più sudicia e buia delle spelonche. Nulla però poteva abbattere lo spirito avventuriero dei cinque giovani, pronti a godersi qualche serena giornata di riposo.

Cheryl Williams, la sorella di Ash, era un’artista. Presumibilmente, ella amava soffermarsi a ritrarre ciò che più catturava la sua attenzione. A tal proposito, proprio l’andirivieni di un vecchio orologio a pendolo, parte integrante dell’arredamento della casa, attirò la ragazza, la quale, una volta aver preso confidenza con l’ampia camera del soggiorno, si mise a disegnare. Di colpo il pendolo si arrestò, come se il tempo avesse rinunciato a scorrere, mentre la mano di Cheryl, guidata da una forza estranea e invasiva, cominciava a lasciare dei segni di matita sul foglio immacolato. La ragazza tratteggiò un’immagine astratta e apparentemente incomprensibile ma che si rivelerà in seguito essere la copertina di un libro.

La sceneggiatura del film, curata dal regista Sam Raimi, fa sì che sia proprio Cheryl, e non il protagonista Ash, ad avere il primo contatto paranormale con la forza demoniaca che si cela nella foresta. Non è certamente un caso, Cheryl è un’attenta disegnatrice, che ghermisce il dettaglio della realtà circostante così da trasporlo su tela, come fosse una rappresentazione intima e personale. Si può certamente supporre che la sua sensibilità d’artista le abbia permesso di avvertire per prima i pericoli sovrannaturali che dormono tra le fredde mura di quella baita, in attesa d’essere ridestati.

Proprio in corrispondenza del pendolo a muro, oramai fermo, si trova una botola che conduce alla cantina dell’abitazione. Decisi a perlustrarla, Ash e Scott si avventurano nel buio sotterraneo e rinvengono un arcano tomo (il Necronomicon), un pugnale affilato (il pugnale Kandariano) e un nastro-registratore. Ascoltando il nastro, i giovani scoprono che un archeologo (il professor Knowby, proprietario della casa) ha preso possesso di un libro, ritrovato durante uno scavo nelle rovine di Candar, che consente di riportare in vita i demoni. Il professore ha poi pronunciato e registrato le formule contenute nel libro, risvegliando un demone che riposava in esso.

“La casa” fu girato con un budget esiguo. In virtù di ciò, il cast scritturato per la lavorazione contava interpreti non professionisti, tra i quali figuravano gli amici di Sam Raimi. I trucchi di scena e gli effetti speciali furono improvvisati di volta in volta e spesso realizzati con materiale di risulta. Raimi, al suo debutto per una regia cinematografica ma già abilissimo con la macchina da presa, per ultimare le riprese, sempre con una certa difficoltà, dovette “inventarsi” tecniche di regia che sfruttassero la soggettività, espediente che diverrà il suo marchio di fabbrica. I mostri presenti ne “La casa” non vengono mai palesati. E’, invero, l’occhio della camera a muoversi con rapidità verso i poveri protagonisti, come se esso incarnasse lo sguardo di predatori famelici che sbucano dalla vegetazione e aggrediscono prede inermi e indifese. “The Evil Dead” nacque come un B-Movie girato con mezzi di fortuna ma raggiunse, grazie alla maestria registica del suo cineasta e alla bravura interpretativa del suo protagonista, la caratura dei classici dell’orrore. La “povertà” degli scenari, la semplicità di alcune trovate, la massiccia dose di splatter e l’elevato utilizzo di espedienti orrifici, agghiaccianti per i tempi, impreziosirono la pellicola, fino a rendere “La casa” un amatissimo prodotto di nicchia. “La casa” si segnala, naturalmente, per costituire l’esordio assoluto del personaggio di Ash Williams, antieroe riluttante che evolverà gradualmente nel corso della trilogia.

Ash, nel primo lungometraggio, è del tutto diverso da come apparirà nelle incarnazioni immediatamente successive. E’ un ragazzo a modo, tranquillo, romantico e innamorato della sua Linda. L’orrore che si abbatterà su di lui e che investirà come una dannazione tutti i suoi amici lo temprerà nel carattere, trasformando la sua indole imperturbabile in un temperamento audace e combattivo.

Principalmente, è interessante scorgere la dinamica iniziale con cui l’opera di Raimi comincia il proprio corso. I cinque ragazzi si recano al cottage per trascorrere un vacanziero fine settimana. Quella che doveva essere una gita fatta di divertimento si trasformerà in un’avventura il cui itinerario rappresenterà una discesa inarrestabile nel vortice degli orrori più torbidi. La casa, in tal caso, dovrebbe garantire una sorta di protezione, l’ultimo baluardo sito in un bosco maledetto, un rifugio dai mali che si muovono come ombre silenti e minacciose di albero in albero, sospinti dal vento freddo della notte. In verità, proprio la baita sarà il luogo da cui i mali verranno liberati ed esacerbati. Ciò che della storia raccontata nel film dovrebbe far raggelare il sangue nelle vene è il fatto che il male non abbia mai una vera forma, bensì si impadronisca dei corpi e delle anime degli innocenti, deturpandone la sagoma e dominandone per sempre la volontà. Ash si troverà così a dover affrontare un’essenza malefica invisibile, difforme, che osserva da lontano e in silenzio le proprie vittime sacrificali.

Ash sarà il solo a sopravvivere al dramma che si consumerà quella lunga notte. All’alba di un nuovo giorno, il tempo riprenderà a scorrere e gli ingranaggi dell’orologio a pendolo a muoversi. Una volta fuoriuscito dal decadente edificio, anche Ash verrà attaccato dal demone che credeva d’aver sconfitto.

  • “La casa 2” (1987)

“C'è qualcosa là fuori, quella strega nella cantina ne è solo una parte, quella cosa vive fuori nei boschi al buio, è qualcosa che vuole tornare dal mondo dei morti.”

Ash viene così assalito dal mostro che finisce per soggiogarlo ed impadronirsi di lui. A salvarlo da una tragica fine sarà il sorgere del sole che respingerà l’entità maligna permettendo ad Ash di tornare in sé. Non potendo più fuggire, l’uomo si barrica in casa. A notte fonda, Ash, stupefatto, osserva il corpo mutilato della propria compagna Linda riprendere vita, emergere da una fossa scavata in precedenza nel terreno e cominciare a danzare, sola, al chiaro di luna. Una scena spiazzante, di stampo spiccatamente Burtoniano, diremmo oggi. Ma è soltanto la prima di un susseguirsi delirante di sequenze che giacciono pericolosamente in bilico sull’orlo di un abisso spalancato sull’orrore e su di un inaspettato umorismo. Sam Raimi con “La casa 2” riscriverà i canoni dei comuni film horror, elevando il suo seguito ad un rango superiore, diverso ed imparagonabile. L’ambientazione è la medesima della precedente, altresì lo sviluppo narrativo coincide con il precedente, persino il tema basico della pellicola ricalca il vecchio capitolo, eppure “La casa 2” è un sequel dallo stile differente e innovativo, merito di un Raimi capace di plasmare una pellicola ancor più avvincente partendo da un tema del tutto simile.

“La casa 2” espande il dramma vissuto da Ash Williams, convertendo il triste fato del protagonista in una disavventura dalle venature tanto raccapriccianti quanto tragicomiche. “La casa 2” è un’allucinazione reale, un incubo vaneggiante vissuto in piena veglia, un delirio onirico palpabile e visibile ad occhi aperti. Le immagini splatter vengono rimodellate a fini umoristici, il sangue ribollente che schizza in ogni dove ogni qual volta Ash annienta un demoniaco avversario è l’elemento caratterizzante di un orrore divenuto fonte di un’ironia difficile da descrivere. “La casa 2” è una commedia dell’orrore che segna la nascita di un’icona del cinema horror.

Poco dopo essersi dilettata in quel balletto macabro, Linda seguiterà ad aggredire Ash, che per sopravvivere sarà costretto a eliminarla. Tuttavia, la sua mano destra, addentata dalla morsa del maligno essere, verrà infettata dal “veleno” del demone e assumerà la sua volontà. Ash sarà dunque costretto a mozzarsela. La situazione e la stabilità mentale di Ash cominciano a cedere: bizzarri e terrificanti eventi sovrannaturali si manifestano senza freno, la mobilia e tutti i restanti oggetti della casa prendono vita e sbeffeggiano Ash, oramai sull’orlo della follia. Sarà Annie Knowby, la figlia del professore, tornata all’abitazione con le pagine mancanti del Necronomicon, a “salvarlo” prima che sia troppo tardi.

Una volta ripreso il pieno controllo della sua mente, Ash escogita un modo per poter combattere. Fabbricandosi un'imbrigliatura speciale per il braccio destro, egli si impianta una motosega al posto della mano mancante e, con la mano sinistra, imbraccia un fucile a canne mozze calibro 12, scovato nello chalet. La scena che mostra Ash armarsi di sega e fucile, mentre sta per pronunciare per la prima volta il suo celebre e distintivo “Groovy” sancisce l’avvento compiuto dell’antieroe, futuro cacciatore di demoni e “uomo della profezia”.

Come verrà rivelato proprio nel finale de “La casa 2”, il Necronomicon parla di un uomo sceso dal cielo, il “prescelto”, colui che solo può sconfiggere le forze del male, che si rivelerà essere proprio Ash. Questo elemento della storia aggiunse un mistico alone di predeterminazione nel destino del protagonista, come se un fato già scritto avesse guidato Ash. Il protagonista era quindi destinato a trovare il libro dei morti e ad affrontare l’oscurità in quella casa.

  • “L’armata delle tenebre” (1992)

“Mi chiamo Ash, e sono uno schiavo. Se non sbaglio dovrebbe essere l'anno domini 1300 e mi hanno condannato a morte, ma non è stato sempre così. Un tempo anch'io ho avuto una vita vera, un lavoro.”

Ash viene risucchiato in un vortice spazio temporale e trasportato indietro nel tempo, finendo nel Medioevo. Ne “L’armata delle tenebre” Raimi porta a compimento la trasformazione della saga, abbandonando quasi del tutto l’atmosfera horror a favore di uno stile cinematografico votato al fantastico. Anche lo stesso Ash si presta ad un cambiamento ultimato, divenendo la caricatura dei più classici eroi risoluti e mascolini del cinema d’azione, parodiandone la parte più sciocca, impulsiva e superficiale di ognuno di loro. Nel medioevo, Ash viene identificato da un mago come l'uomo che, secondo un'antica profezia, avrebbe ritrovato il Necronomicon e annientato le forze del male. Sebbene sia riluttante, Ash accetta di ricercare il libro poiché è la sua sola possibilità di far ritorno nel presente. Non sarà così facile adempiere la missione di recupero, poiché un’armata di teschi si appresta a sorgere…

“L’armata delle tenebre” è un piccolo gioiello appartenente ad un genere incomparabile, “modellato” con un’impronta inconfondibile da Sam Raimi. Surrealismo, magia inverosimile, tanta azione, comicità demenziale e un senso costante d’avventura fanno dell’atto finale della trilogia un lungometraggio avvincente, pieno di fascino nonché capace di far ridere a crepapelle. L’ultima apparizione al cinema di Ash vede il protagonista della trilogia affrontare un demone nel supermercato in cui lavora come commesso del reparto ferramenta, in una scena irresistibilmente divertente.

“Si, certo, potevo restare nel passato. Avrei fatto una vita da re. Ma non mi posso lamentare. A mio modo sono un re.”

Ash, come verrà ulteriormente approfondito nella serie televisiva “Ash vs Evil Dead”, ambientata trent’anni dopo gli eventi dell’ultimo film, è un eroe non certo eccezionale, ma, invece, un uomo comune, non particolarmente sveglio né tantomeno animato da sentimenti di puro e disinteressato altruismo. Egli è “vittima” consapevole di una profezia che lo ha scelto, o per meglio dire, lo ha tacciato, affibbiandogli la levatura dell’eroe che lui non ha mai chiesto. Ash è estremamente ironico ed allegro, e sa dispensare buonumore.

Analizzando il suo vissuto è possibile notare come Ash, per più di trent’anni, abbia vissuto nascosto e in solitudine. Nessuno gli ha creduto quando ha raccontato gli orrori accaduti nella vecchia baita di montagna, ed è stato considerato dai più come un efferato assassino. Ash è stato per lunga parte della sua vita un “eroe” incompreso, reputato alla stregua di un reo. Per tale ragione il personaggio ha passato tre decenni vivendo alla giornata in una roulotte. Anche se non dà a vederlo, le dicerie e le malignità sul suo conto lo hanno ferito, tant’è che nei momenti di maggiore disperazione, quando abbandona la sua veste scaltra, Ash non esita ad ammettere con tristezza di considerarsi “un fallito”.

Williams è un uomo pigro, colmo di vizi, che ama trascorrere le sue giornate a bere birra, a corteggiare belle donne e a guidare la sua Delta. Ash sembra a tutti gli effetti un uomo superficiale, eppure finisce per legarsi completamente alle persone che più gli stanno vicino, come Pablo e Kelly, dimostrando di confidare molto nei suoi affetti famigliari. Può dare l’impressione d’essere neghittoso, ciononostante non rinuncia mai a combattere, o a compiere i suoi “doveri”, tanto da non esitare a sacrificarsi. Ash non torna mai indietro sebbene abbia più volte avuto la possibilità di farlo. Egli è intimamente buono e, com’è possibile notare nella terza e ultima stagione della serie televisiva, sa assumersi, con una sorprendente felicità, le sue responsabilità di padre. E’ proprio nel rapporto con sua figlia Brandy che Ash rivela di saper essere, altresì, un padre amorevole, protettivo e affettuoso.

Per tutta la sua vita, Ash ha intrecciato una parte delle sue sicurezze attorno ad una catenina, un pendaglio d’argento che, un tempo, cercò di donare a Linda ma che poi tenne per sempre con sé. Quel pendaglio ricorda ad Ash i suoi sentimenti più puri di amore. Di fatto, quando verrà posseduto dall’entità malvagia, nel secondo capitolo della trilogia, sarà proprio il guardare la catenina argentea a farlo rinsavire. La collanina funge così da amuleto protettivo per Ash, che ne farà dono, sul finire delle proprie avventure, alla figlia Brandy, così che possa essere protetta dal portafortuna del padre.

"Ash Williams" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ash Williams è un personaggio di notevole spessore, un eroe divenuto evocativo ed iconico, merito di un grandissimo Bruce Campbell che ha fatto di questo ruolo un simbolo di coraggio e simpatia.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Riflesso di Spider-Man" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Capitolo Terzo: Spider-Man 3

La ragnatela era stata imbrattata da una sostanza vischiosa, nera come pece e appiccicaticcia. Essa ora è scura, non bianca e rossa come un tempo. Quando la camera dilata il suo disinteressato sguardo e si sofferma ad osservare il consueto intrecciarsi della ragnatela ai titoli d’apertura dell’ultimo film della trilogia, è tutto buio. Da una zona anonima, una luce fioca rischiara parte dei fili tessuti e intrisi di un liquido bruno e putrido. Impregnati da questo denso “materiale” di origine ignota, i titoli di testa frastagliano accanto alle immagini estrapolate dei protagonisti. Il terzo e conclusivo “opening credits” della trilogia simboleggia la fase culmine del lavoro di Raimi: dalla fuggevolezza del primo Uomo-Ragno apparso nei titoli di testa si è passati all’arte deificata di Alex Ross, sino a giungere alla realtà netta e cristallina di “Spider-Man 3”. Nessuna reinterpretazione artistica, in questa ragnatela affagottata dall’oscurità del simbionte le immagini sono evidenti, reali. Ciò preannuncia l’inevitabile: in questo conclusivo capitolo della saga tutti i nodi verranno al pettine e saranno risolti una volta per tutte in maniera nitida e definitiva. Nel mentre la sequenza scorre via, gocce ombrose cadono giù, insudiciando ulteriormente i filamenti ancora immacolati. Il lurido elemento vivo e colloso del simbionte ha intaccato completamente la tela del ragno, e la sta facendo sua come un parassita ingordo e violento: è il momento di andare via.

"Spider-Man" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Di rado un film fu tanto atteso

L’aria che si respirava nelle settimane che precedettero l’uscita di “Spider-Man 3” la ricordo con un tale nitore che potrei paragonarla ad una lieve brezza rinfrancante, pronta ad accarezzarmi il viso. Se il primo lungometraggio di Raimi era riuscito a suscitare in me tutta una serie d’emozioni, il secondo mi aveva meravigliato come mai avrei creduto. Le premesse sembravano, dunque, suggerirmi che la terza pellicola avrebbe alzato ulteriormente la posta in palio. Raimi era già riuscito a superarsi, perché non avrebbe dovuto ripetersi?

Per un ragionamento forse poi non tanto logico né conseguenziale, “Spider-Man 3” sarebbe dovuto essere un trionfo visivo, un tripudio di sensazioni nuove. Le aspettative continuarono a crescere di giorno in giorno quando fu annunciata la presenza di “Venom”, uno dei massimi antagonisti dell’Uomo-Ragno. Come ben sapevo, Venom non era che un “parto” secondario, una creatura “generata” solo in un secondo momento dal simbionte. Prima del suo approdo, sarebbe stato Spider-Man ad interagire con l’alieno, a sperimentare per la prima volta il fascino del male. “Spider-Man 3” veniva presentato come un film cupo, dark, maturo. La prima immagine pubblicizzata della pellicola immortalava l’Uomo-Ragno seduto in cima ad una torre con indosso un iconico costume nero. Spider-Man era stanco, in ginocchio, schiacciato da un peso oscuro che gravava sul suo capo. Il suo volto cedeva, osservava il vuoto, e il suo braccio disteso era poggiato sulla gamba. Quello che vedevo era un Uomo-Ragno riflessivo, meditabondo, oppresso, forse anche intimorito da quella strana sostanza attaccaticcia che gli si era modellata al costume. Si trattava di un’immagine fin troppo attrattiva per un appassionato del supereroe come me che, al riguardo, ben conosceva la trama circa l’arrivo del simbionte sulla Terra. Raramente, confesso di aver atteso tanto un film. In molti, oltre me, non vedevamo l’ora di raggiungere la sala cinematografica. Sui cellulari, le immagini del “Black Spider-Man” campeggiavano come sfondi e temi. “Spider-Man 3” sarebbe stato un evento che avrebbe segnato i ricordi più cari di ogni “nerd”.

"Spider-Man Nero in città" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ed io, dal mio punto di vista, ero pronto. Per meglio dire, ero decisamente immantinente di rivedere Spider-Man “danzare” sulla città restando aggrappato alle sue “corde”, dondolandosi di grattacielo in grattacielo, tuffandosi poi giù a capofitto nel centro urbano di una metropoli illimitata. I presupposti per poter guardare un terzo atto altrettanto stupefacente erano solidi come le fondamenta di un’antica cattedrale.

Quando uscii dal cinema restai piacevolmente colpito dalla bellezza estetica di alcuni personaggi, dall’azione travolgente, e dalle (poche) sequenze riservate allo Spider-Man nero. Tuttavia, una domanda cominciò a farsi strada in me: “tutto qui?”. Del film mi erano rimaste impresse le sequenze di maggiore impatto visivo, ma la storia l’avevo già scordata. Cosa era successo? Le mie pretese erano state tradite o, in verità, loro stesse erano già dal principio irraggiungibili? In verità, “Spider-Man 3” mancò di molte cose.

Sam Raimi non poté lavorare tranquillo. Al regista non fu permesso di sviluppare la storia come avrebbe voluto. In vero, fu la Sony ad esigere la presenza di Venom, cosa che costrinse Raimi a rimaneggiare pesantemente la sceneggiatura già collaudata. Per la prima volta, Raimi non riuscì a mantenere il timone della propria nave con mano risoluta. Ne seguirono delle “virate” improvvise che destabilizzarono la navigazione. I tanti personaggi presenti sulla scena e i troppi antagonisti costrinsero il regista a perdere la rotta, dando luogo ad una storia pasticciata. “Spider-Man 3” non è, purtroppo, la degna fine che questa trilogia avrebbe meritato. Le colpe non furono imputate a qualcuno o a qualcosa in particolare, ma ad un mix di scelte, opzionate ed imposte, che guastarono l’armonia di un atto finale partito sotto tutt’altri auspici.

"Spider-Man, riflesso" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Le debolezze del terzo film sono riscontrabili in una storia poco incisiva, se non parecchio labile, e nella debolezza dei personaggi principali, per la prima volta caratterizzati con pressapochismo, conseguenza diretta di una raffazzonata e frettolosa riscrittura obbligata. Pur attingendo parti della trama da alcuni dei momenti più entusiasmanti della storia editoriale dell’Uomo-Ragno, il film finì per arenarsi in un pantano fangoso senza mai uscirne. A questo va aggiunto lo spessore psicologico vacuo e insufficiente di Eddie Brock, e la pessima resa di Gwen Stacy, interpretata dalla bionda (per l’occasione) Bryce Dallas Howard, personaggio cardine dell’adolescenza di Peter, qui ridotta a ragazza petulante, mero pretesto per abbozzare un triangolo amoroso fatto di gelosie e inganni.

Il modo di agire dei protagonisti, Peter, Mary Jane e Harry, è incoerente, innaturale, e del tutto fuori carattere tant’è che alle volte si ha l’impressione che essi non siano realmente loro, ma delle copie distorte ed irriconoscibili. Tuttavia, questo difetto permette di analizzare uno dei concetti presenti in “Spider-Man 3”, ovvero il tema della “trasformazione”. Sebbene il terzo e ultimo passo della trilogia sia imperfetto, esso riesce comunque a inscenare diverse tematiche interessanti, meritevoli d’essere messe al vaglio.

  • Questo costume. Wow, che bella sensazione... È la fine del mondo.

L’esibizionismo è un elemento basico di “Spider-Man 3”, sin dalla scena iniziale, nella quale vediamo un Peter disincantato ammirare l’immagine di “se stesso” proiettata su un grande schermo. Peter avverte indirettamente le gioie della fama, e sembra esternare, seppur con i suoi tipici modi affabili, la sfacciataggine di chi sente d’essere amato, se non anche venerato, dal grande pubblico. Raimi vuol farci riflettere su come la trasformazione di Peter cominci ben prima del suo imbattersi nel simbionte alieno. Mary Jane ha finalmente calcato i palcoscenici di Broadway, ma la sua prima esibizione raccoglierà tenui, per non dire freddi, riscontri critici. D’altronde, il lavoro di Mary Jane, ovvero il suo essere attrice di teatro, non può prescindere dal non sconfinare nel protagonismo. I grandi interpreti mettono in gioco le loro doti e si esibiscono “ostentando”, in arte recitativa, il loro talento. Mary Jane pare risentire di colpo del proprio insuccesso, e sembra sviluppare parimenti una leggera invidia nei confronti dell’alter-ego dell’uomo che ama, Spider-Man, il quale è prossimo ad essere celebrato in un evento in cui gli verranno consegnate le chiavi della città.

Ed è in tale festosa circostanza che si spezza l’idillio amoroso tra Peter e Mary Jane: Spider-Man bacia Gwen senza una vera motivazione, senza neppure curarsi della reazione che avrebbe potuto provocare in Mary Jane. Peter, borioso e sbruffone, è oramai accecato dalla fama dell’eroe. L’arrivo del simbionte incrementerà la sua arroganza e il suo desiderio di protagonismo: da una trasformazione accennata nel carattere del ragazzo si giungerà ad una trasformazione completa, riscontrabile esteriormente nel costume nero. La sequenza in cui un Peter addormentato cadrà preda del simbionte che lo soffocherà col suo manto di pelle nera come il tizzone, e l’immediata scena successiva, in cui l’Uomo-Ragno si risveglierà, sono straordinarie e conferiscono il lustro che serve alla pellicola per riprendersi e donare ai suoi spettatori dei momenti di pura estasi visiva.

Spider-Man che giace a testa in giù, stretto alla sua ragnatela, e che si vede per la prima volta riflesso allo specchio con il costume avviluppato dal simbionte, accompagnato da una traccia musicale forte e vibrante, è una sequenza d’enorme impatto. Spider-Man osserva il riflesso di un nuovo se stesso, come accadde a Norman Osborn nel primo film quando, intravedendo la sua immagine replicata dallo specchio, interagirà con Goblin. Lo specchio per Raimi diventa lo strumento per espletare una dualità oscillante tra bene e male. L’Uomo-Ragno in quella vetrata si relazionerà per la prima volta con la sua identità più torbida e incontrollabile.

A questo punto la trasformazione viene marcata da un mutamento nella psiche e nell’indole del ragazzo, divenuto, sotto l’influenza del simbionte, più aggressivo e spietato. Ciononostante, il film di Raimi non riesce a mostrare con pregevolezza questo cambiamento senza scadere nel pittoresco. Molte delle scene che certificano la diversità caratteriale di Peter sfiorano la comicità, ai limiti della caricatura. Inoltre, per esternare il cambiamento dell’eroe si scelse di dare al protagonista un look diverso nella pettinatura affinché fossero accentuati i capelli corvini. Una scelta inopportuna, se non anche imbarazzante, che poco riuscirà a comunicare allo spettatore se non un senso di perplessità.

Le trasformazioni messe in atto in “Spider-Man 3” riguardano tanto il protagonista che i suoi avversari. Il male possessivo già presente nei precedenti lungometraggi sull’Uomo-Ragno qui tenta di mutare tanto l’aspetto quanto il cuore dei personaggi. Harry assumerà l’identità di Goblin, mutando il suo essere per inseguire la “chimerica illusione” che il padre perduto possa essere fiero di ciò che il figlio è diventato seguendo le sue orme. Persino il volto di Harry verrà sfregiato a metà da una delle bombe presenti nel suo arsenale, come se il viso volesse rappresentare il bene e il male che dilaniano l’animo incerto del ragazzo.  Flint Marko vedrà il suo corpo disfarsi come polvere granulosa e ruvida quando verrà trasformato nell’Uomo Sabbia. Sia Harry che Flint, tuttavia, non manterranno la loro crudeltà a lungo e, come Peter, rigetteranno il male al termine delle loro vicissitudini. Dei quattro mutati soltanto Eddie Brock, Venom, si lascerà contagiare del tutto dall’oscurità, ergendosi, di fatto, a vero antagonista della pellicola.

  • Io non sono un uomo cattivo... è cattiva la mia sorte.

L’intero film di Raimi ruota attorno all’avvicendamento tra bene e male, con quest’ultimo che si manifesta nuovamente sotto forma di dannazione. E’ dannato il fato di Flint, colpevole di aver ucciso inavvertitamente zio Ben. Sarà ancora maledetto il suo destino, quando egli si troverà vittima di un esperimento che lo tramuterà nell’Uomo-Sabbia. A tal proposito, la scena in cui egli affiora da una montagna di sabbia e cerca di riassumere una forma umana è intensa e toccante. Il modo in cui la sua mano porosa e sgretolabile cerca di afferrare il pendaglio in cui è custodita la fotografia della figlia, il suo unico affetto, testimonia come un uomo “distrutto” e ridotto in polvere tenti di aggrapparsi a qualcosa di concreto per riappropriarsi del proprio aspetto. Si aggancia ai ricordi, agli affetti, all’amore l’Uomo Sabbia.

  • La vendetta è come un veleno che t’invade tutto e senza che tu te ne accorga ti trasforma in un essere spregevole.

“Spider-Man 3” indaga la sfera emotiva del suo grande eroe e cerca di far perseguire lui il perdono. La furia vendicativa dell’uomo-Ragno nei confronti di Flint, reo di aver ucciso Ben Parker, è dettata da una ferita che nell’animo del supereroe aveva cominciato a cicatrizzarsi ma che di colpo è stata inaspettatamente riaperta. Al contempo, Eddie Brock insegue folli propositi di rivalsa nei confronti di Peter Parker, colpevole di avergli fatto perdere il lavoro al Daily bugle. Se Peter riuscirà a perdonare Flint, tanto da togliersi finalmente un peso dal cuore, Eddie tenterà fino allo stremo di vendicarsi. La vendetta così si configura come un lercio veleno, coagulante e di nero colore.

  • Sono le nostre scelte che fanno di noi quelli che siamo... e abbiamo sempre la possibilità di fare la scelta giusta.

La campana rintocca più volte quando la pioggia bagna uno stremato Peter Parker. Il lacrimare del cielo si fa incessante come un pianto continuo e malinconico. L’atmosfera riflette la personalità agitata e umiliata dell’eroe. Spider-Man ha raggiunto la sommità di una cattedrale, si è accomodato in cima, su una pietra sporgente, e una croce svetta alta sul suo capo, al culmine della casa di Cristo. E’ uno Spider-Man meditativo quello che possiamo ammirare in una delle scene più coinvolgenti dell’intera trilogia. Comincia ad essere disgustato dal suo costume nero che ne ha compromesso la moralità. Decide così di ritirarsi all’interno del campanile. Nel frattempo, Eddie ha varcato la soglia del santuario e dopo aver sfiorato l’acqua santa con la punta delle dita della mano destra, si siede sul banco a pregare: Brock implora Dio di uccidere Peter Parker. Poco dopo aver espresso quel drammatico volere, l’uomo avverte delle urla provenire dal limite massimo del campanile. Quando la grossa campana suonerà, la forza del simbionte verrà meno e Spider-Man potrà così cercare di strapparsi di dosso quel costume. Come Ercole, il massimo eroe della mitologia greca, quando cercò con ferrea volontà, tra afflizione e patimento, di sdrucirsi di dosso le vesti infocate intinte nel diabolico sangue del centauro Nesso, così Peter, con egual fatica, farà di tutto per sbrandellare i resti di quel tetro veleno, agendo e soffrendo a causa del costume che gli sta dilaniando le carni. In quel momento, Peter avrà compiuto una scelta: tornare ad essere il vero Spider-Man. Da lassù, il simbionte cadrà giù come una pioggia maledetta, figurandosi come la spaventosa risposta alla richiesta proferita da Eddie Brock in chiesa. Il simbionte avvinghia l’uomo e lo trasforma in Venom. Ne seguirà uno scontro che vedrà prevalere l’Uomo-Ragno.

Zia May era solita ricordare a Peter il dovere dell’uomo che ha l’intenzione di chiedere in sposa una donna. Prendersi cura della propria consorte è prima di tutto una scelta cosciente e doverosa, poi un dono e soprattutto un impegno da dover adempiere per tutta la vita. Peter si riappellerà a questo insegnamento quando si ricongiungerà a Mary Jane, pronto a proteggerla nuovamente finché avrà forza. Peter e Mary Jane torneranno insieme rimettendo assieme i cocci rotti del loro allontanamento. I due riprenderanno così a danzare; no, non più su nel cielo, passando di nuvola in nuvola con l’ausilio delle ragnatele, ma sulla Terra, lì dove hanno scelto di riprendere la loro storia, questa volta per sempre.

"Solitudine"  China di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Conclusioni: addio amichevole Spider-Man di quartiere

Siamo giunti al termine di questo viaggio, e quest’ultima pagina segna la fine di questa personale rilettura che ho voluto dedicare alla trilogia di Sam Raimi. “Spider-Man 3” non ebbe alcun seguito, fu, dunque, l’ultimo atto. Le imponenti e sensazionali scene d’azione permisero al film, a mio giudizio, di andare oltre la sufficienza. Tuttavia, la sensazione che la saga meritasse una conclusione più entusiasmante continua a permanere anche a distanza di due lustri. Manca il matrimonio tra Peter e Mary Jane, manca l’ultimo scontro tra Spider-Man e il Lizard di Dylan Baker, manca ancora tutto ciò che avremmo potuto vedere in un possibile “Spider-Man 4” che tanti, oltre me, avranno un tempo reclamato a gran voce.

La trilogia di Spider-Man di Sam Raimi occuperà sempre un posto speciale nella storia del cinema, e soprattutto nel mio cuore, così come lo Spider-Man di Tobey Maguire seguiterà ad essere un simbolo di quella che potremmo definire “un’epoca” lontana del cinema supereroico. Diversa e di certo stupefacente.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere la prima parte cliccando qui.

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"Spider-Man e Mary Jane" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Capitolo Secondo: Spider-Man 2

Non è di bianca consistenza come ci si aspetterebbe.  E’, in verità, di un rosso acceso il filo che si intreccia con un altro e un altro ancora, fino a comporre la ragnatela con cui “Spider-Man 2”, il secondo capitolo della trilogia sull’eroe mascherato, comincia. L’occhio meccanico della camera guidato con mano sicura dal cineasta Sam Raimi si schiude nuovamente tra gli spazi circoscritti di una fitta ragnatela. A differenza del precedente “episodio”, i titoli di testa non danno l’impressione d’essere catturati dai filamenti tessuti dall’aracnide, ma vengono contornati da un susseguirsi di immagini artistiche. Il Michelangelo del fumetto, Alex Ross, dipinse col suo inconfondibile tocco iperrealistico le scene più iconiche del primo “Spider-Man”, le quali si alternano cronologicamente durante l’emozionante intro di “Spider-Man 2”, fungendo da ripasso agli eventi salienti accaduti nel primo film. Se nei titoli di testa di “Spider-Man”, la figura dell’Uomo-Ragno era evasiva, ineffabile, effimera e sfuggente, in questo secondo “opening credits” le immagini da ammirare appaiono chiare e distinte, in quanto sono evidenti reinterpretazioni dei personaggi che abbiamo potuto conoscere ed amare nella prima splendida pellicola. I quadri di Alex Ross, in un altalenante gioco prospettico, generano incanto: sotto i nostri occhi si materializzano le fattezze colorate di Peter, sbigottito nel vedere un ragno camminargli sulla mano, quando appena un attimo prima, sulla stessa, aveva avvertito un forte “pizzico”. Il viso scolpito di Harry Osborn subentra a quello delicato e meraviglioso di Mary Jane. La maestria pittorica di Ross non ha freno, e in questa successione egli prosegue a dipingere i momenti più importanti della vita di Peter Parker: la morte di zio Ben precederà la tavola in cui l’Uomo-Ragno, con indosso il suo costume, scruta l’orizzonte mantenendosi in posizione eretta.

Il pennello del pittore Ross, intinto nella tavolozza, cattura gli attimi e li perpetua sulla tela in cui i personaggi giacciono inermi a godere di un istante divenuto eterno. Il bacio tra Spider-Man e Mary Jane viene così immortalato dallo strepitoso talento dell’artista americano e i due innamorati, come fossero statue greche, permangono vividi in un’effusione romantica divenuta infinita. Mary Jane bacia il suo amato senza sapere la verità: sotto la maschera si cela il suo Peter Parker. Anche Psiche si era innamorata di un’ombra ed era solita baciarla senza sapere che si trattava proprio del dio Eros. L’amore nasce e si accresce oltre ciò che la vista è in grado di scorgere. Sarà proprio la confessione di questo amore un tema portante di “Spider-Man 2”.

L’arte del ritrattista Ross insiste ad immobilizzare l’Uomo-Ragno in una posa statuaria di stampo classico, mentre egli si regge con le mani su di un muro totalmente bianco, come fosse fatto di sola luce. L’ultimo dei dipinti ritrae la scena finale del precedente lungometraggio: il volto affranto di Mary Jane, cinto dai suoi capelli rossastri, è leggermente reclinato e i suoi occhi sembrano ricercare la presenza di Peter, il quale, nel frattempo, si avvia verso un paesaggio autunnale per intraprendere una strada fatta di solitudine.

  • Lei mi guarda ogni giorno.

Come accadeva nel primo film, il volto di Mary Jane compare poco dopo la fine dei titoli di testa, anticipando nuovamente l’arrivo sulla scena del protagonista. Peter sta infatti osservando un grande cartello pubblicitario raffigurante Mary Jane, scelta come testimonial di una nota marca di profumi. Di lì a poco, il giovane dovrà correre per le strade per tentare un’impresa, forse impossibile anche per Spider-Man: consegnare delle “pizze al volo” entro pochi minuti all’altro capo della città. Nel mentre procede in sella al suo “bolide”, con in testa il casco rosso, un autobus devia il suo percorso: sui lati del mezzo pubblico era presente il cartello pubblicitario raffigurante Mary Jane. La donna amata da Peter sembra “apparire” d’improvviso e dirottare il senso di marcia dell’eroe. Peter deve “svoltare”, dare una nuova impronta alla sua esistenza, e deve farlo in fretta. La vita del protagonista, infatti, sta attraversando un momento caratterizzato da equilibrio instabile: Peter fatica a bilanciare la sua doppia vita di studente e vigilante. Vive in un sudicio appartamento, arriva tardi alle lezioni universitarie, stenta ad avere voti alti, ed è solo. Il mero conforto di Peter è da riscontrarsi nella vicinanza, seppur astratta e impalpabile, di Mary Jane, la quale lo “osserva” ogni giorno in quella posa fotografica ritratta su di un cartello.

  • “Spider-Man 2”: un sequel impeccabile

“Spider-Man 2” è uno dei sequel più belli della storia del cinema. Sam Raimi plasma la sua opera più spettacolare e ambiziosa, imprimendo al film uno stile proprio, non paragonabile con nessun altro, e per questo unico. Raimi riesce nell’impresa di perfezionare ciò che andava migliorato nel primo capitolo della saga, e infonde al suo blockbuster la caratura dei grandi film. L’introspezione riservata al protagonista, il perfetto equilibrio con cui viene analizzata la dualità uomo/supereroe e come anche sono state vagliate le differenze che intercorrono tra Peter e Spider-Man, elevano l’opera di Raimi al rango di film d’autore. “Spider-Man 2” può venire descritto come un blockbuster in grado di abbinare alla sua spiccata vena ospitante una profondità emotiva e coinvolgente di grande valore. Spettacolarità e riflessione, passione ed emozione si mescolano creando una miscellanea pressoché perfetta: “Spider-Man 2” è una pietra miliare del cinema supereroico, poiché è un’opera d’arte plasmata da un vero artista, non un semplice prodotto d’intrattenimento confezionato per soli scopi di guadagno. Ancora oggi, resta l’unico film tratto dai fumetti Marvel ad aver vinto un premio Oscar.

  • L’intelligenza non è un privilegio!

La mente del Dottor Octavius (Alfred Molina) è quella di un premio Nobel, e di fatto, quel premio che poco sembra importargli, sembra prossimo a finire tra le sue mani, secondo quanto tiene ad affermare, con una certa insistenza, Harry Osborn. Octavius si trova ad un punto di svolta nella ricerca sulla fusione a freddo. Per quanto la sua intelligenza sia elevata, Octavius non fatica a confessare come egli, un tempo, non riuscisse a comprendere gli scritti di Thomas Eliot. Quando non era che un ragazzo e aveva da poco cominciato a frequentare la sua futura sposa, Rosy, era un semplice studente di fisica. La moglie, dal canto suo, era studentessa di letteratura inglese. Ed era proprio lei che tentava di far capire al futuro scienziato gli scritti di Eliot, da lui definiti fin troppo complessi. Appare evidente nel lungometraggio di Raimi come la figura della sposa per Octavius sia essenziale, e il loro rapporto, così affettuoso, di riflesso, induce Peter a meditare sulla sua lontananza da Mary Jane.

In una dimostrazione scientifica, a cui parteciperà anche Peter, Octavius è prossimo a racchiudere “la potenza del sole” nel palmo della sua mano. Lo scienziato, per l’occasione, adopera un esoscheletro dotato di quattro tentacoli meccanici collegati al suo cervello tramite un complesso sistema neurale. I bracci sono dotati d’intelligenza artificiale ma le loro funzioni raziocinanti vengono inibite da un chip che permette ad Octavius di mantenere il controllo su di essi. Durante la dimostrazione accade un irreparabile incidente e la moglie Rosy perde tragicamente la vita. In quei drammatici frangenti, il chip viene distrutto e i bracci tentacolari cominceranno a prendere il controllo sulla mente sconvolta di Octopus.

Le donne amate da Spider-Man e Octopus influenzano involontariamente la psiche dei due rivali. La morte di Rosy coincide con l’assoluta perdita di lucidità di Octavius. “La mia Rosy è morta… Il mio sogno è morto…” dice il triste scienziato. L’allontanamento di Mary Jane, promessa sposa ad un altro, porta Peter a perdere il completo controllo sui suoi poteri. Se l’incidente di laboratorio ha condotto Octavius a trasformarsi nel Dottor Octopus, un uomo divenuto oramai apatico, per aver perduto il solo affetto della sua vita, la lontananza di Mary Jane trascina Peter in un abisso, fino a fargli perdere la padronanza delle proprie straordinarie doti. Dalla perdita di Rosy, Octavius comincerà a sperimentare i propri “poteri” e assumerà l’identità di Octopus. Dalla possibile perdita di Mary Jane, Peter rinuncerà, invece, alla sua identità segreta di Spider-Man, getterà via il suo costume e smetterà di utilizzare le sue sensazionali capacità.

Se nel primo film Goblin e Spider-Man erano accomunati dalle medesime qualità fisiche in quanto esseri eccezionali, beneficiati di una prestanza fisica e una vigoria superiore alle persone normali, in “Spider-Man 2”, l’antagonista e l’eroe si somiglieranno per la loro intelligenza. L’intelligenza non è un privilegio, è un dono da dover mettere al servizio degli altri, affermava, con fare da mentore, un saggio Octavius al suo allievo, Peter. Ancora una volta “il dono” nella saga di “Spider-Man" viene deturpato da una gravosa maledizione: l’intelligenza di Octavius lo porterà a covare il desiderio di replicare l’esperimento nel quale la moglie perì, nonostante ci sia il serio rischio di distruggere l’intera New York. La bramosia della conoscenza si rivelerà una maledizione che condurrà Octopus alla follia.

Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

I bracci meccanici si muovono autonomamente ma possono essere controllati da Octopus come delle micidiali armi. Essi hanno movenze serpentiformi, fendono l’aria come un male infido, e si avvicinano al viso dello scienziato per avvelenare la sua mente come rettili velenosi. Frasi che non c’è dato d’udire secernano un veleno che annebbia la moralità del dottore. Octavius si è trasformato inconsapevolmente in un mostro tentacolare a sei braccia, una “piovra” subdola e cruenta che persegue insani propositi di ricerca.

  • L'amore non deve essere un segreto. Se ti tieni una cosa complicata come l'amore chiusa dentro, alla fine ti ammali.

Cos’è l’amore in “Spider-Man 2”? Quali forme assume? L’amore agisce nel mistero, anche nell’agire segreto di un’innamorata. La giovane Ursula, una ragazza che vive di fronte all’appartamento in cui alloggia Peter, incarna, nei suoi gesti e nel suo approcciarsi al ragazzo in maniera tanto timida, un’infatuazione amorosa sincera e dolcissima. Ursula sembra, infatti, provare un affetto spontaneo e insperato per Peter. Ella sa che la sua piccola “cotta” non verrà ricambiata dal protagonista, e proprio per questo la tiene per sé. La scena in cui i due consumano una torta al cioccolato insieme ad un bicchiere di latte, in un pomeriggio come un altro, è una delle più dolci che abbia mai visto. Come Ursula tiene questo “amore” per sé, così Peter nasconde ancora a Mary Jane ciò che realmente prova. Quando la ragazza verrà rapita, la crisi psicologica che gravava su Peter cesserà, ed egli potrà finalmente riacquistare i suoi poteri e la sua identità di Uomo-Ragno.

La vista di Spider-Man torna ad acuirsi nell’esatto momento in cui Mary Jane verrà catturata dal malvagio Octopus, segno evidente di come la sua vita, tanto da Peter Parker che da Spider-Man, resti sempre intrecciata al fato del suo eterno amore. Spider-Man torna così in azione e combatte contro Octopus in uno degli scontri più spettacolari mai filmati nel cinema d’azione. La sequenza del treno, straordinaria, mette in luce l’assoluta umanità dell’Uomo-Ragno di Tobey Maguire. Non a caso, in tale contesto, Spider-Man perde la maschera e seguita, a volto scoperto, a usare tutte le sue forze per arrestare la folle corsa del convoglio, prossimo a schiantarsi con centinaia di viaggiatori al suo interno. Gli stessi uomini che, una volta tratti in salvo dall’eroe, resteranno per qualche istante ad osservare il suo volto, notando con stupore come il grande e invincibile Spider-Man sia in verità soltanto un ragazzo.

Quello stesso ragazzo che sconfiggerà Octopus, e rivelerà finalmente a Mary Jane come stanno le cose. La parte finale della pellicola di Raimi ruota tutta intorno all’amore. Il ricordo della sua Rosy e il suo essere rinsavito portano Octopus a sacrificarsi per salvare la città, l’amore e la devozione di Harry Osborn nei confronti del padre deceduto conducono il ragazzo a scoprire il nascondiglio di Goblin e a prendere la decisione di seguire le oscure orme del genitore. Ancora, l’amore smisurato che Peter prova per Mary Jane gli permetterà di spiegare alla donna perché un tempo la rifiutò, e il motivo per cui non possono stare insieme: perché egli sarà sempre Spider-Man.

Per amore e per paura che i nemici dell’Uomo-Ragno possano arrecare dolore alla donna amata, Peter si congeda da Mary Jane, prossima a sposarsi con un altro. Il ragazzo si accomiata da lei lasciandola discendere con la sua ragnatela, per poi osservarla, solitario, dall’alto, mentre lei si allontana.

Ma sarà nuovamente l’amore a indirizzare il fato dei due protagonisti: Mary Jane, vestita da sposa, si lascerà andare ad una corsa liberatoria, scandita dalla marcia nuziale. Sarà così che raggiungerà Peter, e i due decideranno, pur coscienti dei rischi, di cominciare finalmente una nuova vita insieme.

"Spider-Man" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

L’amore, quello vero e possente come una ragnatela tessuta da un prode supereroe, finalmente, potrà prevalere.

Voto:9/10

[Continua con la terza parte]

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere la prima parte cliccando qui.

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