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"Ghostbusters" - Locandina artistica di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

In questo strano mondo esistono alcune “cose” che trascendono l'umana comprensione e che fuggono da qualsiasi sensata, ragionevole spiegazione. Sono quelle “cose” che la maggior parte delle gente non vuole assolutamente sapere.  Ed è proprio in questo specifico campo di ricerca che operano loro, gli Acchiappafantasmi!

Tali “cose”, astruse da descrivere e disagevoli da enumerare vista la loro incerta origine, sono i “fondamenti” del sovrannaturale, la “sostanza” dell’ultraterreno. Tuttavia, è indispensabile rammentare che il “mistero” non rappresenta una branca dell’indagine scientifica, che l’ignoto non è un ramo del sapere, ed ancora che il recondito mondo extrasensoriale non costituisce un concreto settore di studio. La sfera del paranormale, insondabile e sfingea, non è d’esclusiva competenza dei Ghostbusters, cionondimeno loro sono stati dei veri pionieri nell’osservazione e nella successiva analisi della suddetta “materia” d’apprendimento.

 

Peter, Ray ed Egon… Perdonatemi, intendevo dire il dottor Venkman, il dottor Stantz ed il dottor Spengler cominciarono a studiare i fenomeni paranormali sin dai tempi dell’Università. Con il termine “paranormale” si intende l’insieme di manifestazioni anomale che violano le leggi della fisica e si pongono in antitesi agli assunti scientifici. Solitamente, se un dato avvenimento psichico o psicofisico di genesi incognita viene misurato applicando il metodo scientifico, esso risulta essere del tutto inesistente o comunque facilmente spiegabile. La parapsicologia, l’ambito d’applicazione dei tre studiosi sopra citati, indaga, di fatto, lo sviluppo e l’origine di alcuni di questi fenomeni insoliti. I tre dottori volevano volgere le loro attenzioni oltre ciò che la scienza è in grado di chiarire, così da poter mirare, coi loro occhi un qualcosa d’eteroclito come un’entità ectoplasmatica proveniente dall’aldilà. Essi erano pronti a credere nei fantasmi, e si trovavano sul punto di fare una grande scoperta!

Un giorno come un altro, nella biblioteca pubblica di New York appare, in fluttuazione libera, una sorta di torso gassoso con le sembianze di un’anziana bibliotecaria la quale trascorre la propria eternità a sfogliare e leggere libri. Gli studiosi raggiungono in fretta e furia la biblioteca e si imbattono per la prima volta nel fantasma della signora in grigio. E’ la testimonianza cristallina quanto evanescente delle loro teorie: i fantasmi esistono. Peter, Ray ed Egon non sono degli ingenui millantatori, hanno scovato l’anello mancante, il punto di contatto che unisce i due piani dell’esistenza.

La particolarità che balza subito all’attenzione dei tre futuri Acchiappafantasmi riguarda il loro essere scienziati. Chi è uomo di scienza, sovente, è un dotto, una persona raziocinante che pone a vaglio ogni minuzia, ed è caratterialmente poco incline a credere nell’inspiegabile. Peter, Ray ed Egon sono tre scienziati singolari e del tutto particolari. Pur rispettando fortemente il metodo ed il valore della loro vocazione scientifica, essi confidano nell’oltreumano ed in quello che può essere occultato ad una osservazione superficiale. E’ proprio questa la prima, grande peculiarità dei tre protagonisti di questa storia: il loro essere scienziati del “possibile” e uomini convinti dell’impossibile. Essi desiderano innalzare la scienza ad un livello superiore, mai esplorato prima.

Il paranormale, nella sua accezione più estrema, parrebbe quanto di più distante dalla scienza ci sia. Scopo della scienza è servire l’Umanità, non investigare su presunte, bislacche fantasticherie. Per tale ragione, i tre, ritenuti alla stregua di ciarlatani, vengono espulsi dall’Università di New York. Il dottor Venkman, che pretese una spiegazione, venne accusato dal Rettore d’essere un mediocre scienziato e di considerare la scienza un inganno, qualcosa da mettere alla berlina. Peter viene inoltre tacciato di basare i suoi studi sui miti e le leggende, sulle convinzioni popolari, i cosiddetti racconti “folkloristici” riguardanti spiritelli, fantasmi ed incarnazioni dell’etereo.

L’università è un’istituzione che insegna, educa, istruisce, ma anche che giudica, che promuove o boccia lo sviluppo di un’idea, di una ricerca. Peter, Ray ed Egon, in una delle scene iniziali di “Ghostbusters” appaiono come “studenti” indifesi, vengono valutati in base ai loro risultati insoddisfacenti e, pertanto, respinti, allontanati, “scacciati”. Dall’ambito accademico, severo e razionale, i tre personaggi finiscono in strada ad abbracciare “il popolo” e le sue “credenze”. Costretti ad abbandonare la facoltà, si ritrovano “fuori”, prede del mondo esterno, in mezzo a quella gente generalista che, come ho avuto modo di scrivere in principio, non vuole conoscere tutto quello che si sottrae ad una trasparente comprensione logica. E proprio laggiù, immersi nella Grande Mela, decidono di proseguire i loro studi, trasformandoli in una fonte di sostentamento.

Peter, sarcastico, sbruffone, giocherellone e donnaiolo, non ha proprio l’aspetto né la caratura canonica di scienziato. Egli dà, invece, l’impressione di considerare la propria materia di competenza uno scherzo, un gioco, se non addirittura una menzogna, un tranello. Questo perché Peter, conscio che il senso vero della vita elude la comprensione dell’uomo, conduce la sua esistenza con ironia, facendosi beffa di ogni sicurezza professata dagli altri. Venkman è uno studioso che eccelle nell’intuire la natura umana e che fa della comprensione la propria specializzazione, tuttavia nasconde d’essere anch’egli arguto e lesto nello “psicanalizzare” il prossimo. Persino a Dana Barrett, colei che sarà il suo unico amore, Peter cela la sua perspicacia, preferendo farsi apprezzare per i suoi modi schietti e sprezzanti. E’ forse vero quanto asseriva il Rettore, Peter considera la scienza una sorta di mezzo per giochicchiare o per meglio affrontare, con una sana risata, le difficoltà della vita. Se il reale significato dell’esistenza umana è troppo arduo da capire, sarà forse la “morte”, l’altra “via” impersonata dai fantasmi a suggerire delle risposte. Probabilmente, è per questa ragione che il dottor Venkman ha accolto, con il suo inconfondibile entusiasmo, gli studi condotti da Ray ed Egon, con i quali ha stretto una profonda e inossidabile amicizia.

Ray è un uomo intelligente, socievole, estroverso, ed è mosso da un entusiasmo coinvolgente, simile a quello che anima i bambini. Per lui, la scoperta del piano spirituale è fonte d’incontenibile gioia. Egli rappresenta la parte più pura e disinteressata di quel tipo di curiosità che orienta ogni “inchiesta” scientifica. Del resto, i primi impulsi che guidano il desiderio di sapere sono provati dai bimbi per discernere ciò che si disconosce. Ray è questo, un bambino “intrappolato” nel corpo di un adulto, che desidera rinvenire ed apprendere.

Egon è schivo, riflessivo, taciturno, perennemente sulle sue, ha un’espressione ponderante e un atteggiamento flemmatico. La sua mente è estremamente brillante, parimenti a quella di un genio. Poco avvezzo alle relazioni sociali, il dottor Spengler passa le sue giornate ad inventare. Egli non nasconde una certa dipendenza dagli zuccheri, essendo golosissimo di merendine e dolci di ogni tipo. Il suo cervello, in effetti, “consuma” parecchio e necessita di “ricaricarsi” con dosi abbondanti di dolciumi. Il suo voler esplorare il regno degli spiriti equivale al voler trovare il “brio”, il nocciolo di una scoperta straordinaria e, per tale ragione, più dolce da assaporare.

I tre sono pronti per mettersi in affari. Acquistano così un palazzo fatiscente, la dismessa sede dei Vigili del Fuoco, da adibire sia a quartier generale sia a loro dimora. In verità, Egon aveva esternato delle riserve nei confronti dell’edificio ma la felicità incontenibile di Ray che scivolava giù per una pertica, lo ha convinto a desistere dalle sue remore. Del resto, ogni scelta compiuta da questi saggi scienziati è sospinta da una fanciullesca letizia. “Trinceratisi” nella caserma, intraprendono l’attività di disinfestatori del paranormale. Ben presto, assumono Janine come segretaria, la donna di cui avevano bisogno, la sola che riesca a tenere bada gli estri di quegli incontenibili scienziati.  Janine ha, infatti, una spiccata parlantina, una voce squillante, ed è capace di mantenere tutti in riga.

Per la squadra, Egon mette a punto tecnologie avveniristiche come lo zaino protonico, in grado di catturare l'energia psicocinetica dei fantasmi tramite flussi di particelle, il rilevatore psicocinetico ed una trappola che permette di catturare e conservare gli ectoplasmi.

Infine, Ray acquista, per una “modica” cifra, un’antiquata e malconcia ambulanza. L’auto, una Cadillac del 1959, è alquanto sozza e malridotta; ma da quella “carcassa” cupa come una nuvola di pioggia nascerà la splendida Ecto 1, l’automobile d’ordinanza dei Ghostbusters. Il “plumbeo” colore verrà sostituito con un radioso bianco crema, come a simboleggiare il candido risorgere di una macchina “defunta”. Gli Acchiappafantasmi sono pronti ad entrare in azione. La prima, vera missione si presenta in una sera all’apparenza tranquilla. Janine riceve una chiamata dal Sedgewick Hotel, il cui dodicesimo piano è infestato da un vorace fantasma verde. Le porte della caserma si spalancano, i fari e le luci intermittenti della Ecto 1 si accendono, mentre la sirena comincia a risuonare di un’eco ben distinta. Pochi istanti e l’automobile sfreccia a tutta velocità per le vie. Fiammanti ali rosse, che si proiettano dalle fiancate, ed il simbolo di un fantasma racchiuso in un “divieto” scarlatto, posto sulle portiere, sono gli emblemi di un’auto che passerà alla storia del cinema. Raggiunto l’albergo di lusso i Ghostbusters s’imbattono in Slimer.

Tutte le superstizioni relative ai fantasmi concordano nell’affermare che un’anima trapassata non ascende al regno dei morti per via di alcune faccende rimaste in sospeso sulla Terra. In “Ghostbusters”, i fantasmi sono entità immateriali, incorporee, intangibili, a meno che non vengano colpite dal flusso protonico. Non è del tutto precisato se essi continuino a “vivere” tra noi per via di una questione rimasta insoluta, anzi si riporta che questi spiriti siano esternazioni di una forza oscura e diabolica, prossima ad arrivare (il semidio sumero Gozer, antagonista primario dell’opera filmica).

Slimer ha le fattezze di un tubero informe, è verde, melmoso, e differisce dagli altri fantasmi. Esso vaga solitario, apparendo e svanendo a seconda dei periodi più o meno intensi di attività soprannaturale. Slimer non è cattivo né aggressivo, se non nell’accezione più irridente del termine, e bada soltanto a ingurgitare tutto il cibo che riesce a sgraffignare. La fame è una prerogativa dell’uomo, il mangiare è un bisogno prioritario. Nel suo essere uno spirito, Slimer sembrerebbe aver conservato un appetito insaziabile come ultima reminiscenza del suo passato da essere umano. La sua è una ingordigia istintiva, che non troverà mai fine. Esso non sarà mai satollo, fagocita ma non riesce a nutrirsi per davvero. Osservando questo fantasma, verrebbe da chiedersi quale sarebbe, semmai ce ne fosse una, la sua vicenda irrisolta. Chi era Slimer nella sua vita precedente? Probabile che lui non lo ricordi neppure. Slimer non ha una finalità da espletare né un obiettivo da adempiere. Esso non si unisce agli altri fantasmi, erra isolato, spinto dalla voglia di abbuffarsi e giocherellare. Anche Slimer è caratterizzato come se fosse un piccino, che corre per i corridoi di un hotel, affascinato da frivolezze.

I Ghostbusters, dopo averlo acciuffato, cominciano a lavorare a ritmi frenetici, facendo fronte ad una forsennata attività spiritica propagatasi in tutta la città. Essi divengono i paladini della metropoli, dei difensori imbattibili, sino all’avvento di Gozer. Col passare delle settimane, i tre, bisognosi di aiuto, assumono Winston Zeddemore, che diverrà la presenza più adulta e matura del quartetto.

“e io vidi quando si aprì il sesto sigillo, e io vidi che si fece un gran terremoto, e il sole si fece nero come un cilicio di crine, e la luna si fece come sangue...” (Ray cita un passo della Bibbia)

“Ghostbusters” è un classico della commedia fantascientifica ma, sebbene sia strutturato con un efficace umorismo, possiede una scena, una soltanto, in grado di spezzare temporaneamente il clima disteso della pellicola. Una sequenza che irrompe bruscamente e muta la smorfia degli spettatori, facendo sì che il loro sorriso, solo per qualche istante, si interrompa, vada scemando, e diventi un’espressione di paura.

Ray e Winston stanno percorrendo un ponte a bordo della Ecto 1. Le luci che sormontano l’auto rifulgono ma le sirene restano spente. Non si ode nessun suono estraneo, se non quello della colonna sonora, ad accompagnare i dialoghi dei due. Attorno all’auto è scesa la sera e il buio domina l’intero schermo. Winston domanda a Ray se creda in Dio, e questi ammette di non avere fede. Winston replica, confessando il suo credo nel Signore, e incalza con un’altra domanda; chiede a Ray se ricorda cosa racconta la Bibbia sull’Apocalisse. Ray dimostra d’esser preparato sull’argomento, ricordando il versetto 7:12, passo in cui si narra che i morti, alla fine del mondo, sarebbero fuoriusciti dalle loro fosse. Ray riduce il racconto religioso ad un mero mito ma Winston lo invita a riflettere sul fatto che tale narrazione, riguardante il giorno del giudizio, non può essere un semplice scritto, dato che, ed il loro lavoro ne è una testimonianza, i morti sono già usciti dalle loro tombe. Ray rabbrividisce, accende la radio e ascolta un po’ di musica, come se volesse distrarsi dalla deduzione a cui è andato incontro.

Tale scena segna una linea di demarcazione tra la prima parte del film, positiva e scherzosa, e la seconda, tetra e seria. “Ghostbusters” è una storia dell’orrore, raccontata con una forte dose di humor, ma pur sempre una narrazione visiva a carattere orrifico. Nel suo scorrere, il lungometraggio è riuscito a cogliere un estratto fondamentale della vita: essa andrebbe sempre vissuta con ironia e spensieratezza, ciononostante, la stessa è capace di palesare un pericolo imminente e generare paura.

Nell’atto finale, gli Acchiappafantasmi fronteggiano Gozer, una semidivinità fuoriuscita da un portale che conduce ad un'altra dimensione, e che ha assunto le sembianze di una donna. Gozer dà la possibilità agli eroi di scegliere la forma fisica del “distruggitore”, ovvero la calamità che annienterà New York. Inavvertitamente, Ray pensa alla simpatica mascotte della pubblicità dei marshmallow. D’un tratto, Gozer si materializza sotto forma di un tenero, enorme e minaccioso essere vestito da marinaio. Ancora una volta, il frammento più infantile dell’animo di un Ghostbusters è emerso. L’uomo della pubblicità dei marshmallow rappresenta la parte innocua e affettuosa di Ray, un qualcosa di così dolce e tenero da esser ritenuto incapace di fare del male. E’ questo che raffigura l’ultimo, gigantesco avversario del film: la fanciullezza che assume i contorni della malvagità adulta.

I quattro Ghostbusters sconfiggono Gozer, incrociando i flussi protonici e indirizzandoli alla volta del portale, spazzando via la semidivinità e ristabilendo la pace. Sul finale, gli eroi, seguiti da Janine e Dana, ed osservati da un Lewis rimasto, suo malgrado, in disparte, filano via a bordo della Ecto 1, facendosi strada in mezzo ad una folla festante, con Slimer che volteggia, aprendo le fauci e “divorando” l’occhio della camera: sono gli ultimi fotogrammi di una storia memorabile.

Passano cinque anni da quell’atto eroico, e per i newyorkesi gli Acchiappafantasmi sono soltanto un ricordo. Dalla sconfitta di Gozer, non vi sono più stati fenomeni paranormali. Qualcosa, però, è in agguato e gli studiosi sono nuovamente pronti ad avvalorare le loro “tesi”. Prima di poter riprendere il lavoro, gli Acchiappafantasmi vengono arrestati e trascinati in tribunale per aver avviato, senza permesso, uno scavo nel sottosuolo, necessario per svelare i misteri relativi a un fiume di melma psicocinetica che scorre sotto la Firstavenue.

Il processo di “Ghostbusters 2” è ben più di un comune evento giuridico. Esso è l’ultimo atto di una “caccia alle streghe”. In tale processo, i Ghostbusters vengono trattati come ingannatori, mistificatori ed approfittatori. La scienza professata e dimostrata dai tre dottori viene ritenuta non veritiera agli occhi della legge. Il loro credo nel fantastico si scontra con la freddezza del giudice Wexler, assolutamente non incline a credere all’esistenza di fantasmi, demoni e spiritelli. L’udienza assume i connotati di un paradossale processo Galileiano. Come Galileo Galilei dovette, obbligatoriamente, abiurare la sua teoria copernicana eliocentrica, gli Acchiappafantasmi si troveranno a dover difendere il proprio credo scientifico nel paranormale. Il giudice, in tal caso, veste la tunica dell’uomo cieco, che non vuole vedere oltre la punta del suo naso, testardo, sciocco, pronto a condannare i poveri imputati sulla base di un’antipatia covata nel tempo. In preda alla rabbia, il giudice si farà persino scappare un “vi farei mettere al rogo…”, un chiaro riferimento alle pratiche del passato che vedevano i processati d’eresia venire condannati a morte e arsi vivi. Ray, durante la proclamazione della sentenza, sussurrerà ad Egon un “Eppur si muove…”, plateale riferimento all’esternazione del Galilei in merito al moto astronomico del pianeta Terra. Quando sembrano oramai ad un passo dalla condanna, un reperto esibito dall'accusa, il barattolo contenente un campione di melma psicocinetica, inizia a ribollire ad ogni rabbiosa esternazione del giudice, fino ad esplodere, facendo comparire i fratelli Scoleri, criminali morti perché spediti sulla sedia elettrica dallo stesso Wexler. I Ghostbusters, dunque, hanno avuto ancora una volta ragione!

Antagonista di questo sequel è Vigo, un tiranno della Carpazia. Il male di Vigo ha continuato a persistere all’interno di un grande quadro che ritrae la sagoma inquietante e dispotica di questo antico sovrano moldavo. L’arte ha eternato lo spirito di questo cruente despota, e la tela su cui sorge il ritratto è alla stregua di un portale che garantisce il passaggio di Vigo dal mondo dei morti a quello dei viventi.

Con la venuta dell’autocrate, i fantasmi che pullulano New York cominciano a ripresentarsi, e per i Ghostbusters è l’inizio di una nuova caccia. Per tutta la Grande Mela si materializzeranno sagome spaventose. Al porto cittadino, per lo sgomento di pochi, il Titanic attracca alla banchina più vicina. Un corteo di anime scende dalla nave e calca il suolo delle banchine. Come un vascello fantasma, il transatlantico, affondato la notte tra il 14 ed il 15 aprile del 1912, conquisterà la meta che non poté mai raggiungere durante il suo viaggio inaugurale. In questa sequenza, è interessante scorgere lo squarcio mostrato sulla fiancata della nave, quella che si infranse contro l’iceberg. Tale squarcio risulta essere enorme. Negli anni in cui venne girato “Ghostbusters 2”, il relitto della nave era stato appena rinvenuto, ed erano tante le teorie che aleggiavano sull’affondamento della colossale nave della White Star Line. Per alcuni, a seguito della collisione, la nave aveva patito una “lacerazione” smisurata, come quella mostrata nel film. Invero, una tale apertura avrebbe fatto affondare il piroscafo in pochi minuti, e non in circa due ore come effettivamente accadde. Tale immagine del lungometraggio conserva, a suo modo, una parte delle speculazioni scientifiche del periodo.

Sulla conclusione delle vicende, gli Acchiappafantasmi, simboli assoluti di bontà, si ergono a difesa della metropoli. Sconfiggeranno Vigo, rispedendolo una volta per tutte all’interno del suo quadro che, in un’esplosione di colore, si tramuterà in un dipinto rinascimentale, forse concepito dalla mano di Piero della Francesca, raffigurante i quattro Ghostbusters.

Come avveniva nell’antica Grecia, l’arte ha reso merito ai valorosi, immortalato gli eroi e conferito eternità alla loro gloria.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Ellen Ripley e Newt - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

L’Alien si era insinuato tra gli angoli celati alla vista della “scialuppa di salvataggio”, sulla quale il tenente Ellen Ripley aveva trovato riparo poco prima dell’autodistruzione della nave madre Nostromo. Ellen era l’ultima sopravvissuta di un equipaggio sterminato barbaramente da un predatore ostile. La donna si accorse della presenza della creatura, quando essa sbucò dalla stiva di bordo in stato di semi-incoscienza. Ellen, sconvolta dalla presenza dell’essere, ebbe comunque il tempo per nascondersi, e in particolar modo sfruttò il momento propizio per razionalizzare il terrore esagitato in lei dal mostro. Concepì così un rischioso piano per sbarazzarsi definitivamente dell’extraterrestre. Il giorno in cui quella forma di vita sconosciuta e aberrante fu spazzata via dallo scafo dell’astronave e si perse nello spazio sconfinato, la paura nella sua essenza più perfida e angosciante fu domata. Il terrore venne assoggettato al volere di una donna. La paura venne allontanata, e si dissolse come un incubo che sparisce al momento del risveglio. Tuttavia, ciò che aveva visto e affrontato il tenente Ripley non poteva essere dimenticato con la medesima semplicità con cui i brutti sogni vengono accantonati al sorgere del sole. L’Alien era arrivato dall’oscurità, ed era nero come la pece. Nulla poteva schiarire la sua immagine, e niente poteva addolcire il ricordo di un simile orrore. Lo Xenomorfo era un incubo primordiale di fattezze bestiali. Dopo aver trionfato, Ellen doveva ultimare il suo viaggio e far ritorno a casa, alla volta della Terra…verso la sua figliola. Nella versione speciale di “Aliens” di James Cameron, si scopre, infatti, che Ellen Ripley era madre di una bambina. Un dettaglio di grande valenza, soprattutto se considerata l’iconografia che il ruolo di una “madre” riveste nel lungometraggio di fantascienza.

  • Il sequel di “Alien”

Aliens – Scontro finale” fu il seguito del capolavoro fantascientifico “Alien”. Cameron, regista di “Aliens”, aveva appena ultimato le riprese del suo primo cult, “Terminator”, e si apprestava a scrivere una nuova pagina importante della sua carriera. Girare un secondo capitolo del thriller fantascientifico, dalle venature orrifiche della già pietra miliare di Ridley Scott, era un’impresa dal successo tutt’altro che scontato. Cameron sapeva che Scott, con quell’atmosfera cupa e opprimente del primo “Alien”, e col quel mistero inscenato secondo un’accurata progressione sequenziale degli eventi che avrebbero portato l’Alien a manifestarsi con gradualità nelle sue minacciose intenzioni, aveva già detto molto su quell’essere dalla natura enigmatica e fascinosa da dover essere mantenuta tale. Il regista statunitense sapeva che doveva fare qualcosa di diverso, andare oltre, “esagerare”. Con “Aliens” Cameron realizzò un sequel che espanse la mitologia introdotta e perfettamente trattata nel primo, indimenticabile episodio; egli doveva puntare al culmine e coniugare l’azione con la narrazione, il ritmo con la riflessione. Non sarà più soltanto un alieno ad essere l’imperscrutabile antagonista che si cela nel buio e fuoriesce, in maniera fulminea, impietrendo la sua povera preda. In “Aliens” gli Xenomorfi compaiono a dozzine, il pericolo viene esasperato nonché avvertito con mortifera costanza, e il senso di allerta viene reso preminente proprio perché incarnato in tanti esseri astiosi che attaccano con frenesia. Gli Xenomorfi visti in “Aliens” “vengono fuori dalle pareti” claustrofobiche di una caverna, sfuggono abilmente alla vista degli uomini per poi apparire di colpo, dimostrando grande intelligenza nel mimetizzarsi camaleonticamente con l’ambiente circostante e attaccare coloro che non riescono a distinguerli dai muri nei quali vi si occultano. Così facendo, gli Xenomorfi somigliano a un male di sicuro non percettibile, che piega le sicurezze dell’uomo, da sempre predatore in cima alla catena alimentare, qui invece estromesso senza preavviso, e prepotentemente gettato giù da quell’apice piramidale per essere calpestato.

“Aliens” fu inoltre la prima, vera testimonianza del particolare talento di Cameron. Faccio riferimento alla peculiare abilità del cineasta nel girare i “sequel”. Solitamente, i “seguiti” tendono a rivelarsi inferiori se confrontati agli originali: Cameron sovvertirà il luogo comune, dapprima con il suo “Aliens – Scontro finale” e in seguito con “Terminator 2 – Il giorno del giudizio”, due pellicole d’indiscussa bellezza e dal ragguardevole successo. Tutt’oggi, entrambe permangono come prove inconfutabili, che certificano come tali seguiti siano, non solo degni successori di capostipiti divenuti opere di culto, ma addirittura, secondo i pareri di tanti, superiori ad essi. “Aliens” è un film denso, corposo (l’edizione speciale supera le due ore e mezza di durata), ricco di suspense, strutturato secondo un susseguirsi di molteplici scene intense che alternano momenti introspettivi ad altri in cui l’azione più spettacolare la fa da padrone. “Aliens” è la lotta dell’essere umano contro la natura più avversa, dell’uomo contro una bestia dalla laida fattezza. “Aliens - Scontro finale” è un bellissimo lungometraggio di fantascienza, che può vantare la pregevolissima interpretazione di Sigourney Weaver, candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista.

  • Donna…

Ellen, ancor prima di partire per la sua missione sulla Nostromo, come dicevo, era una mamma. Dopo essere miracolosamente scampata agli attacchi del mostro alieno, per fare ritorno sulla Terra, Ellen innestò il pilota automatico della navetta, e proseguì nel preparare quanto era necessario per il sonno criogenico, inevitabile per sostenere il viaggio di ritorno, all’interno di una capsula. Ellen si abbandonava così al mondo dei sogni, dopo aver vissuto con gli occhi sbarrati un incubo in carne ed ossa.

Trascorrono tanti anni dal quel giorno, 57 per la precisione, molti di più di quanti erano stati inizialmente previsti dall’ufficiale superstite del Nostromo. La navetta di salvataggio su cui riposa, dormiente e da poco più di mezzo secolo Ellen Ripley, viene scorta da un’astronave della stazione di recupero Gateway. Ellen viene ritrovata e risvegliata dal suo stato di ipersonno. Scoprirà, con dolore, che la sua amata figlia, divenuta sessantenne, è morta in seguito ad una malattia. Sebbene la straziante esperienza con lo Xenomorfo sia oramai un ricordo, il panico vissuto torna a manifestarsi in lei, specialmente quando Ellen dorme. L’Alien si configura nuovamente come un incubo d’origine ignota, un male ansiogeno in grado di spezzare il corpo di un essere prossimo a morire o di turbare, in egual maniera, la psicologia di chi è riuscito a sottrarsi alla sua presa mortale.

Nei suoi sogni agitati, Ellen rivive sulla propria pelle la terrificante scena della nascita dell’Alien. Lo Xenomorfo nasce attraverso una macabra azione parassitoide, compiendo una violenza fisica devastante e uccidendo il corpo che lo ha ospitato. Ellen rammenta con orrore tale orripilante nascita. Lei, una donna che un tempo aveva messo al mondo anch’ella una vita e che aveva sofferto il dolore del parto per poi stringere tra le braccia la sua neonata, una creatura dolce, bella e innocente, resta inorridita nel soffermarsi a rievocare quanto la venuta alla luce di uno Xenomorfo sia uno stupro e un parto d’immonda natura. Non riuscendo a sopportare più i suoi incubi, Ellen accetta di partecipare a una pericolosa missione con l’intenzione di distruggere le restanti uova degli Alien sul sistema LV-426. Decide così di tornare in quel pianeta in cui la sua squadra di sbarco rinvenne l’uovo dell’Alien. Tale pianeta è stato recentemente terra-formato e colonizzato dagli esseri umani. I membri della Compagnia Weyland-Yutani recatisi sul suddetto pianeta non rilasciano da tempo più alcuna comunicazione, ed Ellen crede che tutti siano stati catturati dagli esseri e sfruttati per la nascita di quelle forme di vita extraterrestri.

Ellen cerca di mettere in guardia i marines dai pericoli legati al mostro, ma questi non sembrano dare affatto peso alle parole del Tenente, convinti di avere dalla loro la forza perentoria delle armi e la scaltrezza eroica tipica dei grandi combattenti. Ellen risulta essere l’unica donna in una squadriglia di soldati composta da soli uomini. In verità, tra loro vi è un’altra donna, Vasquez, ma quest’ultima viene anche lei rappresentata con un aspetto marcato, rude, del tutto somigliante a quello dei corrispettivi compagni di “plotone”. Sembra esserci un’astratta linea di demarcazione che separa la protagonista, conscia del male a cui stanno tutti per andare incontro, dagli uomini facenti parte di questa “squadra d’assalto”, quasi tutti ingenui e spiccatamente arroganti. I guerrieri in questione credono di poter contare sulla supremazia bellica delle loro avanguardistiche armi, non curandosi dei pericoli portati da una razza aliena sorta da una natura indomabile e oscura, che non conosce rimorso né paura. La virilità maschile personificata da questi soldati subisce, se confrontata alla saggezza femminile di Ripley, una rilettura negativa, tanto da rendere l’arroganza dei soldati una sorta di manifestazione plateale della loro mascolinità da sbruffoni. I soldati, giunti sul pianeta con stupida calma e una mal celata superbia, cominceranno ben presto a cambiare, perché si troveranno dinanzi una potenza predatoria incontrollabile, che farà vacillare completamente ogni loro sicurezza. Gli uomini, se in principio avevano assunto le spavalde vesti di implacabili guerrieri, verranno ora ridotti a inermi vittime sacrificali, prede del volere degli Alien. Tra i membri dell’equipaggio soltanto Hicks (Michael Biehn), e l’androide Bishop (Lance Henriksen) verranno rappresentati con valori differenti, e non a caso saranno i soli a trarsi in salvo insieme a Ripley.

  • …Madre

Una volta discesi sul sistema LV-426, Ripley incontrerà una bambina, Newt, miracolosamente scampata alle grinfie delle creature. Con lei, Ellen instaurerà un profondo legame d’affetto che assumerà i contorni di un rapporto tra madre e figlia. Ripley, nel visino, turbato e reso sporco dal sozzo terreno, della giovane sopravvissuta, torna a rimirare la figlia perduta. Quando Newt verrà presa dalle creature e portata nel covo della grande regina, Ellen comincerà un’eroica ed estenuante corsa contro il tempo per salvarla. Le sequenze che vedono Ripley calare giù, sino ad avventurarsi nelle profondità delle caverne mantengono un ritmo incalzante. Ellen, per mettere in salvo la sua prole adottata, si troverà faccia a faccia con lo Xenomorfo regina. Ripley, da madre, sarà al cospetto di una creatura dalla mole gigantesca, anch’essa madre a sua volta, genitrice di una forma di vita che necessita di uccidere per poter ottenere vita propria. Ripley ingaggerà un violento scontro con la regina, che culminerà con la morte della raccapricciante creatura.

Ellen aveva rinvenuto la sua Newt nel momento in cui stava prevalendo la disperazione, e nell’istante in cui credeva di averla perduta per sempre. Fu l’urlo terrorizzato della piccola ad attirarla. Con l’audacia che può animare il cuore di una madre, Ellen si precipiterà verso il più arduo dei pericoli. Fu il grido di una piccola ad attrarre l’attenzione di una madre. Nello spazio nessuno può sentirti urlare, recitava la celebre Tagline dell’“Alien” del 1979, eppure, l’urlo disperato di una figlia richiamò a sé una madre perduta…così che potesse affrontare ancora una volta la paura più recondita e sconfiggerla.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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La paura viene sovente descritta come uno stato d’animo, o più precisamente, un turbamento emotivo scatenato da un istintivo meccanismo di difesa che pone in guardia il soggetto in una condizione di pericolo in un dato momento o in una particolare situazione. La paura riesce a suscitare un’attrazione nel cuore dell’uomo, il quale tende a volte a ricercarla piuttosto che evitarla. Il cinema orrifico è un genere nato al solo scopo di affascinare un certo tipo di pubblico, invitandolo a sperimentare diverse forme di terrore, vista la presa che lo sgomento artificioso e irreale può avere.

Hans Ruedi Giger nel 1978 fantasticò su una paura scientificamente vivibile e che può essere dimostrata, donando lineamenti e forme a una paura remota, estranea, sconosciuta. Carlo Rambaldi animò questa suddetta paura, imprimendo in essa una presunta coscienza, una meccanica capacità senziente di coordinazione del gesto, del movimento e, conseguentemente, dell’aggressione. Nel 1978 la paura venne incarnata in Alien.

Alien nacque come la mostruosa materializzazione di un incubo, di un angoscioso male primordiale.  Il primo “Alien” di Ridley Scott fu un’articolata indagine fantascientifica sulla resa scenica della paura nelle sue forme più tetre e inquietanti. Dapprima il film eseguì una riflessione sulla paura siffatta come una minaccia ignota, impalpabile, nascosta tra i cunicoli di un’astronave. L’infinità dello spazio profondo è il teatro di questa azione drammatica, e la nave spaziale Nostromo, il palcoscenico in cui si consuma la tragedia. Un equipaggio di cinque uomini e due donne (tra cui spicca naturalmente la protagonista Ellen Ripley, interpretata da Sigourney Weaver) viene a contatto con una creatura di provenienza aliena.

La nave spaziale assurge a ruolo di luogo delimitato, una trappola fatta scattare da un violento stratega extraterreste, come fosse una prigione che procede nello spazio. Come in una rappresentazione teatrale, l’azione è circoscritta in una porzione di superficie. All’esterno l’immensità del cosmo fa da platea taciturna, incapace d’applaudire all’indirizzo dei personaggi che si muovono sulla scena e che vengono a contatto uno ad uno con la paura più cupa e tenebrosa. Quasi tutto il film si svolge all’interno del Nostromo, con i membri dell’equipaggio impegnati ad affrontare una creatura misteriosa, dalle metodologie predatorie terrificanti.

In “Alien” il terrore non viene espresso soltanto dalla presenza dello Xenomorfo, ma è lo stesso luogo a esagitare tale paura. L’ambientazione claustrofobica che non concede alcuna via di fuga opprime tanto i personaggi che gli spettatori. L’uomo intrappolato con un essere ostile, in un territorio sbarrato, è una prassi narrativa nota sin dall’alba della mitologia arcana. Basti pensare al mito greco di Teseo e del Minotauro, ambientato tra i meandri imperscrutabili del Labirinto di Dedalo, in cui l’eroe doveva affrontare la bestia senza poter contare su una rapida via di fuga.

La paura, il terrore di cui Alien si fa tristo dispensatore, è uno stato emozionale conosciuto dall’uomo e dalle bestie, ma non dall’Alien, che è del tutto incapace d’avvertire sentimento alcuno. L’Alien è un predatore difficilmente contrastabile, che striscia e corre su quattro zampe. Il cranio della creatura è di forma estremamente oblunga, affusolato verso la schiena. Possiede una bocca munita di zanne affilatissime e una lingua retrattile, dotata a sua volta di mandibola e mascella dentate. Ha una coda che termina con un'appendice affilata, e una pelle coriacea, impenetrabile come una corazza, di colore nero: di Alien non si riescono a scrutare gli occhi.

Ma quello che terrorizza ancor più del suo aspetto è la tecnica riproduttiva. Alien è un parassita che s’instaura nel corpo dell’uomo al solo scopo di proliferare. Una volta pronto alla nascita, l’ospite dilania l’umano per venire al mondo. Una straziante metafora del dolore del parto da cui vede la luce un’immonda creatura. Tale orripilante caratteristica potrebbe essere interpretabile come la tramutazione di un terrore interno, come una malattia incurabile che piega e spezza il corpo dell’uomo tra atroci sofferenze. Alien è pura malvagità, paragonabile a un male incurabile, un incubo che giace sopito in noi senza nutrire alcuna forma di pietà.

Il germe dell’horror viene seminato nell’orticello della fantascienza inesplorata, e quello che ne deriverà, sarà il più classico gioco del gatto col topo, del predatore che osserva mite e silenzioso le sue prede, celandosi tra le ombre e cacciando non per nutrirsi, ma solamente col preciso intento d’uccidere per arrecare il dolore e non per sopravvivere agli stenti.

L’Alien di Ridley Scott, datato 1979, con le sue luci fioche, le sue scenografie soffocanti, e il suo ritmo alternato da picchi di tensione e momenti più quieti, raccolse un seguito di culto e valse il secondo Oscar per i migliori effetti speciali al genio italiano Carlo Rambaldi. Sebbene ad oggi, il suo sviluppo narrativo risulti alquanto prevedibile, contestualizzato al periodo in cui venne realizzato, fu una lenta, sconvolgente e ben congegnata sfida carica d’agonia dell’uomo contro il mostro. Già, perdonatemi, intendevo dire… della donna contro il mostro. Sigourney Weaver con questa parte poté fregiarsi del titolo d’icona del cinema, un ruolo di certo non semplice da raggiungere nell’Hollywood degli uomini sicuri di sé che salvavano le donzelle in difficoltà.

“Alien” è un racconto visivo verosimigliante, in cui l’incubo pervade la realtà in un conflitto malsano, accresciuto dagli infausti simbolismi dell’agghiacciante nascita del mostro e della tormentata morte degli uomini. Vita creata e vita sottratta sono i fattori preponderanti dell’opera di Scott, ed essi vengono fagocitati dall’oscura paura cui Alien si fa carico.

Un terrore affrontato da Ellen, tra magnetismo fisico ed erotismo sensuale; celebre, a tal proposito, la scena in cui la donna si spoglia per indossare la tuta spaziale e abbandonare la nave su un’astro-scialuppa di salvataggio dove ucciderà il terribile Alien. La bellezza e l’audacia femminile si ergono al di sopra dell’aberrante mostruosità.

Dinanzi al cosmo, spettatore coinvolto appieno nell’azione dello spettacolo, solo uno ne uscirà vivo. “Nello spazio nessuno può sentirti urlare…” lo avrà sussurrato Ellen all’ammasso carbonizzato dell’Alien, quand’ella sarà l’ultima sopravvissuta del Nostromo.

La paura, fino a quel momento, venne domata.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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