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Il lungometraggio di Stanley Kubrick si rifà a un racconto di Arthur C. Clarke, intitolato “The Sentinel”, scritto nel 1948 per un concorso radiofonico indetto dalla BBC, che lo scartò, e poi pubblicato nel primo e unico numero della rivista “10 Story fantasy”. Nel 1964 Kubrick chiese a Clarke se avesse sottomano un’idea per un buon film di fantascienza, e verso la fine del 1965 cominciarono le riprese, che si conclusero tre anni dopo.

Il racconto di Clarke tratta del ritrovamento sulla Luna di una costruzione piramidale che emette dei segnali verso lo spazio. La strana costruzione altro non è che una specie di “sentinella” messa lì milioni di anni addietro da una razza intelligente, allo scopo di monitorare l’evoluzione della Terra, intorno alla quale ruota la Luna.

L’odissea nello spazio è l’esplorazione subcosciente di una navigazione adempiuta senza lo spostamento fisico, ma con il trasporto mentale che travalica la rotta dell’infinito. “2001: Odissea nello spazio” presagisce il compimento di un’estenuante traversata, il cui itinerario prevede la navigazione su di un oceano di stelle, le cui sponde salmastre tendono ad elevarsi come onde che bagnano le rive dell’immensità smisurata del cosmo. Un pellegrinaggio universale ma soggettivo, che riguarda ognuno di noi, gli spettatori, e la comprensione intima di ciò che il singolo imparerà al raggiungimento dell’ultima tappa, in un viaggio imprevedibile, la cui importanza è insita tanto nel percorso che nella meta. Il tutto, però, non può che essere un’evoluzione immaginaria, vissuta con la potenza di un racconto visivo che avviene sotto i nostri occhi. Come fossimo seduti soli in una platea vuota, silenziosa, ravvivata dalle prime note di un’orchestra sita a pochi passi dal palcoscenico, tutti noi intraprendiamo questo viaggio senza fine tra il tempo e lo spazio nel laconico luogo circoscritto della sala, nel momento in cui le melodie sospingono il nostro spirito a librare in aria. “2001: Odissea nello spazio” è un viaggio intimo, introspettivo, compassato secondo una struttura ponderata per far mirare, con la lentezza della riflessione e della contemplazione, la consistenza meravigliosa di un significato filosofico ed esistenziale. Il film si presta a molte interpretazioni e reca in sé diverse chiavi di lettura, rimanendo sempre uno dei più complessi e complicati lungometraggi da vedere e da capire.

Con il termine Odissea s’intente il verificarsi di un viaggio circolare che si svolge tanto nello spazio siderale quanto all’interno del personaggio principale, concludendosi con un ritorno al punto di partenza, una fine che riabbraccia il principio, un tramonto che si ricongiunge all’alba. La pellicola ha una durata di 145 minuti ed è per gran parte muta; la prima parola viene pronunciata a 25 minuti dall’inizio. “2001: Odissea nello spazio” è plasmato dall’arte dei gesti e dei silenzi, è un racconto sequenziale visivamente trascendentale, un’esaltazione massima del connubio “musica e immagine”, paradigma di base del linguaggio cinematografico. La colonna sonora è composta da quattro brani di musica classica di differenti autori: Richard Strauss, Johann Strauss, Gyorgy Ligeti e Aram Khatchaturian.

E’ Kubrick stesso a indicarci con i sottotitoli la suddivisione della trama in quattro macro-sequenze. Nel buio della proiezione, quando lo schermo permane in uno stato visivo del tutto ottenebrato, iniziano ad echeggiare le note di Richard Strauss, fin quando in dissolvenza, compare l’universo, e poi viene inquadrata la Luna; la camera si alza e lascia intravedere parte della Terra illuminata e ancora dietro il Sole che sta sorgendo. I tre astri sono perfettamente allineati, quando la musica giunge al proprio culmine ritmico e, finalmente, sullo schermo compare il titolo. La prima macro-sequenza si intitola: “L’alba dell’uomo”. E proprio su una magnifica alba, in un paesaggio arido e desolato, si alza completamente il sipario. Tra resti di carcasse divenute ossa alcune scimmie lottano vicino a una pozza d’acqua fangosa. Ma ecco che una mattina scorgono al centro della pozza uno strano monolito di colore nero che guarda verso il cielo. I primati circondano il Monolito e lo sfiorano con gli arti, come fossero catturati dallo stupore di un oggetto ad essi sconosciuto. Si svolge adesso un’altra ellissi temporale in cui alcuni uomini-scimmia rischiano di morire di sete e di fame, non potendo far altro che cibarsi degli avanzi degli altri predatori, finché un giorno uno di essi afferra un osso e comincia a rotearlo. E’ quello l’inizio di un lungo processo di “ominazione”.

Segue un’altra ellissi temporale in cui le scimmie ominidi, assumendo sempre più una postura eretta, hanno adesso ben compreso come usare gli ossi per cacciare e procurarsi il cibo. L’ultima ellissi scandisce il passaggio di alcuni milioni di anni: un osso scagliato in aria si trasforma come per magia in un’astronave che fluttua nel cielo plumbeo cosparso di stelle. E’ un balzo di milioni di anni, un’evoluzione avvenuta con la rapidità di un battito di ciglia ma dal valore intrinseco e storiografico di milioni di anni.

I satelliti artificiali si muovono nello spazio, quasi stessero danzando sulle note del valzer “Bel Danubio Blu” di Johann Strauss. Si scorge poi un’immensa stazione spaziale a forma di doppia ruota in movimento. Sull’astronave si sta svolgendo un incontro tra scienziati russi e americani. Essi discutono in merito a ciò che di inspiegabile sta accadendo su di una base lunare. Raggiunta la superficie lunare, compare di nuovo il monolito, e da esso si dipana un campo di forze, che crea una potentissima emissione radio puntata sul pianeta Giove.  Questa missione ci proietta a diciotto mesi più avanti nel tempo.

L’equipaggio della nave spaziale Discovery è composto da cinque uomini, di cui tre sono ibernati, e da un sesto elemento non umano. Si tratta dell’elaboratore avveniristico HAL 9000, in grado di svolgere tutte le funzioni del cervello umano. HAL è un super-computer di bordo, ed ha il compito di svelare il mistero del Monolito sulla Luna, e di capire le origini della vita. Durante la missione nulla andrà come previsto, HAL si ribellerà agli uomini, uccidendo tutti i membri dell’equipaggio eccetto David, che riuscirà a disattivare l’intelligenza artificiale. Il viaggio dell’astronauta continua così verso l’infinito.

Avvicinandosi sempre più al pianeta Giove, David si imbatte a sorpresa nel Monolito nero sospeso tra le stelle. Da quel momento cade in trance ed entra in una dimensione spazio-temporale, vivendo dei momenti unici ed entusiasmanti tra cui si ritrova dapprima più anziano, in vestaglia da camera, e poi vecchissimo sul letto di morte. Si rivede di nuovo il Monolito, mentre sul letto non compare più lui, ma una specie di bozzolo dalla membrana luminosa, all’interno del quale vi è un feto, rappresentato dal “bambino delle stelle” che si muove nello spazio. Scorrono i titoli di coda e lo schermo diventa nero. Resta cosi per ben cinque minuti, mentre si odono le note del valzer di Johann Strauss.

Kubrick ha sempre evitato di dispensare interpretazioni al proprio film, forse perché non voleva proporci una fiaba conclusa, ma una storia che rimane sospesa, che lascia adito a cento, mille interrogativi. E, infatti, i temi che si possono riscontrare nel film sono molteplici. Per Stanley Kubrick, la sua opera doveva essere intesa come un’esperienza visiva in grado di penetrare, con la forza subitanea di un’emozione, la mente e il cuore di ogni singolo spettatore, e depositarsi nell’inconscio, suscitando conseguentemente un’interpretazione soggettiva.

Il rimando all’eroe omerico non si ritrova soltanto nel titolo. Il calcolatore HAL può essere paragonato a una sorta di moderno ciclope, anch’esso ucciso dall’astuzia di un uomo che lo priva del suo unico occhio. Il tema dell’occhio che scruta, così come ricorre in tutti i film di Kubrick, non poteva certo mancare in questo suo massimo capolavoro. C’è l’occhio dell’elaboratore, l’occhio spalancato dell’astronauta, gli occhi del bambino avvolto dalla membrana fetale.

Il nome del comandante, Bowman, in inglese si traduce “arciere” e può rammentarci, in qualche modo, che Ulisse ha una grande abilità con arco e frecce, tanto che è proprio con essi che scaccerà gli usurpatori dal suo palazzo a Itaca. Ma i rimandi più evidenti sono da cogliere in tutta la storia e nella sua simbologia. L’argomento del ritorno è sempre vivo nella vicenda e, assieme a esso, quello inerente la ricerca della conoscenzaIl lungometraggio, infatti, rifà il percorso dell’uomo dalla sua nascita (appunto l’alba) fino alla sua ultima evoluzione. Però il suo viaggio verso lo spazio astrale, come per l’eroe greco la discesa nel regno dei morti, che rappresenta il limite della sua bramosia di scoperta, è anche un viaggio tanto alla ricerca del suo destino, quanto alla conoscenza delle proprie radici. L’Odissea quindi si conclude così come era cominciata, e cioè con l’inizio di una nuova alba, in cui si vede il “bambino delle stelle” che rinasce nel preciso istante in cui termina la sua esistenza.

La questione della nascita è un altro dei temi importanti e prevale su quello della morte. Assistiamo alla morte di David, degli astronauti e pure a quella del calcolatore. Ma è come se nella fine si avvertisse la vita, di nuovo. Poi c’è il tema della violenza, intesa come caratteristica insita nell’uomo, in quanto incline a uccidere e a sottomettere per avere la meglio. Prova ne è l’osso che si tramuta in arma, e poi in satellite con la fisionomia di un’arma nucleare.

Il tema del progresso è trattato con estrema oculatezza. Si noti come l’elaboratore che pur essendo una macchina infallibile alla fine commette anch’esso un errore fatale. Si ribella quindi al suo creatore e vuole sopraffarlo definitivamente. Ma l’uomo grazie al grande coraggio, all’estro e alla furbizia riesce comunque a metterlo in condizioni di non nuocere, assoggettandolo nuovamente al suo volere. Nei drammatici frangenti in cui HAL perde progressiva coscienza di sé, e la sua intelligenza artificiale svanisce nell’oblio, egli lentamente torna ad uno stato primordiale d’intelligenza, ad un principio ripresentatosi nel momento del trapasso. Preludio all’esperienza esistenziale che vivrà, di lì a poco, il protagonista.

David sopraggiunge in una stanza arredata in stile Impero, d’epoca settecentesca, e in un eloquente silenzio invecchia, assoggettandosi a un espediente scenico che tratta il tempo come se perpetrasse il proprio potere e si “muovesse” con estrema velocità di narrazione, per presagire un successivo stadio evolutivo. La stanza in cui muore l’astronauta, forse vuole omaggiare un secolo “luminoso e illuminato”, in cui l’uomo si mise a guardare il mondo con uno sguardo diverso, e il progresso con occhi nuovi e più portati all’innovazione. Un profondo senso religioso percorre il film dall’inizio alla fine. Il Monolito, a cui sono state attribuite le più svariate interpretazioni, forse raffigurerebbe un riferimento a Dio. Di certo è qualcosa che ha innescato la scintilla della facoltà dello spirito d’intendere, ragionare e giudicare, consentendo così l’evoluzione della razza umana, tanto desiderosa d’ampliare la propria conoscenza.

Definire “2001: Odissea nello spazio” solamente come un film di fantascienza è decisamente errato e oltremodo riduttivo. E’ invece un film completo, in quanto, non a caso, in esso ritroviamo dei rimandi alla storia, alla filosofia, ai miti e alla morale; insomma un fermo e imperituro punto di riferimento nella storia del cinema mondiale.

Essa è un’opera che assolve al proprio volere non prima di aver fatto breccia tra la duplice dimensione del tempo e dello spazio, della vita e dell’esistenza evolutiva. L’odissea dell’Ulisse che è in noi trova l’attracco ad un porto sicuro alla prima esecuzione della partitura dell’ultima aria della colonna sonora. Poco prima che il sipario si chiuda, il nostro spirito, trasportato via in precedenza dall'ebrezza della visione, torna a toccare terra, per accomiatarsi dall’oceano stellare, scenario della navigazione, e per scrutare un’ultima volta la dissolvenza di uno schermo che si spegne con il calar del buio.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters   

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