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Comincerò in maniera sincera, esternando le mie personalissime difficoltà nel comporre questa recensione: credo sia difficile parlare in maniera definitiva del settimo episodio della saga di Star Wars. Perché è un film costruito a regola d’arte per rendere arduo un giudizio estetico. Il primo capitolo della trilogia sequel è stato realizzato con l’accenno continuo per rievocare l’emozione già vissuta. Ci si incammina su un binario già percorso per la paura di provare un viaggio diverso. Diventa di conseguenza ostica la scelta del metro di giudizio da adoperare, poiché giudicare qualcosa che ti rimanda a vecchie emozioni passate è una furberia mal celata. D’altronde l’originalità può essere soggetta ad apprezzamento o a disprezzo, ma la nostalgia a cosa può essere soggetta?
Lo considero un buon film, se lo si estrapola dal canone degli altri episodi risulta addirittura un gran bel film d’avventura e d’azione sci-fi. Il problema di fondo da analizzare nella stesura di una critica cinematografica a quest’opera è che non si può omettere il sottotitolo “Episodio VII”. Ed è questo il punto!

Ma nonostante il delirante citazionismo al passato e il molesto rimando nostalgico, il comparto tecnico, registico e interpretativo (tranne qualche caso) del film resta di buon livello. Star Wars VII è ancora Star Wars, ma è anche un’occasione persa. Mancata per la troppa paura. Sentimento preponderante che l‘ha reso ai miei occhi un film senza infamia e senza lode. Perché uso questa definizione? Perché credo sia quella più aderente al dato oggettivo. Il lungometraggio pur reggendosi su ritmi adrenalinici, pur intrattenendo lo spettatore e omaggiando il suo essere fan, non propone alcuno scenario innovativo interessante. Si limita allo stretto indispensabile. Non ricerca la lode ma non cade nell’infamia. Ricicla. Ricicla schemi, situazioni e idee già sfruttate; richiama e rimette in scena vecchi espedienti narrativi e in maniera neanche velata: al contrario. Abrams desidera infatti che lo spettatore sobbalzi sulla poltrona e urli: “Guardaaaa! E’ come quando…”. Il cineasta confeziona un pacchetto con una fatiscente carta regalo, che una volta strappata rivela un ulteriore involucro ancora bello e desiderabile, ma, e qui risiede il difficile giudizio da motivare, si tratta di un oggetto che già avevamo nella nostra collezione. Ed è un piccolo oggetto del tutto simile ad una precedente edizione, differendo soltanto in qualche dettaglio. Potrebbe essere il riassunto universale della critica al consumismo. Ma il cinema non è solo prodotto per il Box-Office. Il cinema è un’arte. Star Wars in particolare è pur sempre fantascienza (con una massiccia dose di fantasy), e la fantascienza dev’essere sempre l’esplorazione del mondo ignoto, non deve mai rimasticare il cibo già gustato poco prima.

Ma il film sopporta stoicamente l’epidemia nostalgica e cerca di curarla dosando l’eroismo femminile incarnato in Rey. Lei è il vero assoluto punto di forza del sequel de “Il ritorno dello Jedi”. Abbandonata su un pianeta desertico, nella perenne, rassegnata attesa di un padre e di una madre che non torneranno più. Si imbatte in un droide, che reca con sé un dato segreto: un frammento della mappa che può condurre a Luke Skywalker. Inizia il viaggio della nostra protagonista, l’avventura della nostra nuova compagna che irrimediabilmente dovremo imparare a conoscere in divenire, tra passato e futuro. Ma Rey domina la scena e l’intero film riuscendo a brillare pressoché in ogni fotogramma. Perché Rey riesce ottimamente in qualunque cosa, apparendo alle volte fin troppo perfetta. Ma si è risvegliata. La forza si è risvegliata in lei e la porta all’eccessiva capacità di ribalta.

La regia di Abrams si mantiene ad alti livelli per gran parte dell’opera. I primi cinquanta minuti scorrono con una velocità rispettabile, immergendoci immediatamente in un’atmosfera da film action sci-fi più che da film di Star Wars. Gli inseguimenti stellari a bordo di caccia Tie Fighter e la fantastica fuga di un Falcon abbandonato restano sequenze ad altissimo livello d’intrattenimento, dove la spettacolarizzazione dell’immagine si antepone alla spiegazione socio-politica di ciò che stiamo effettivamente vedendo. Sono passati trent’anni dalla morte dell’Imperatore e dalla caduta dell’Impero. Ma la prima ora non sembra mostrarci alcuna differenza. Né a livello politico né a livello conflittuale.

Ed è qui che si consuma la primissima nota dolente del film. Il conflitto che andremo a seguire e le fazioni per cui andremo a fare infantilmente il tifo riguardano un conflitto già visto. In due minuti netti la Repubblica, rimessa in piedi con il sangue e il sacrificio eroico della Ribellione in tre film, viene polverizzata. Il primo ordine, sorto dalle ceneri dell’Impero, rivitalizza la guerra opponendosi alla Resistenza, esercito risicato della Nuova Repubblica. Pur di farci vivere il medesimo conflitto della trilogia classica, Abrams spazza via ciò che si era compiuto in un finale strappalacrime, per rendere possibile una guerra reinterpretata in ugual modo negli anni 2016, con gli stessi mezzi usati trent’anni prima. E’ ancora Impero contro Alleanza. Sono ancora le medesime guerre stellari. E’ un allucinante copia-incolla. Questo punto fondamentale nega al film qualsivoglia giudizio lodevole per porlo nel girone “dell’ignavo autorevole” che non aggiunge niente di suo. Ed è un peccato. Perché ciò che si vede nell’arco del film poteva e doveva meritarsi un qualcosa di nuovo, in modo da poter ambire a un giudizio solare e incantato. Abrams si affida ad Episodio IV anche per il metodo di narrazione. Non spiega nulla. Non rimarca mai ciò che in trent’anni è successo. E’ così e basta. Ma questo andava bene nel cinema anni '70, dove la magia e la meraviglia soverchiavano la spiegazione razionale. Questo modo di raccontare, disseminando misteri per depistare l’attenzione, non funziona più. Perché la gente oggi è avvezza a questo genere cinematografico consolidato da anni. Il film di Abrams non sta al passo coi tempi, anche per quest’ultimo aspetto si affida alla nostalgia. E non è un caso che i fan, invece di dibattere su ciò che hanno effettivamente visto, abbiano piuttosto cominciato a discutere su ciò che ci si deve aspettare dai prossimi film per ottemperare alle lacune lasciate in sospeso da Abrams stesso, che in un seguito di un film del 1983 non rilascia alcuna spiegazione.

E’ l’intero film ad oscillare dal coinvolgimento emotivo verso ciò che di concreto vediamo, al rimando nostalgico che si concretizza in un continuo perpetrarsi di strizzatine d’occhio o battute telefonate. Il richiamo al parsec del Falcon, la scacchiera, i cannoni su cui sedeva Luke, Solo indebitato con alcune fazioni malavitose, la cantina di Maz Kanata che rimanda a quella di Mos Eisley, la stessa Kanata che riprende le parole di Yoda, Kylo Ren che sente Han come Vader risentiva la presenza di Obi-Wan sulla Death Star, il salvataggio della protagonista femminile sulla Morte Nera, la disattivazione degli scudi, l’accenno al compattatore di rifiuti, la distruzione della terza, TERZA Morte Nera che ancora una volta stava per annientare la sede dell’alleanza con Leia al suo interno e che ancora una volta possiede lo stesso punto debole delle precedenti. E quasi dimenticavo il droide con dei file segreti e il pianeta desertico. Davvero troppo! Quando poi persino la trama si sovrappone a quella già vissuta, il tutto diventa un assurdo gioco a chi ricorda più il passato.

Kylo Ren immobilizza e aumenta la tensione nello spettatore durante la prima metà del film, riuscendo a risultare credibilissimo nei panni del nuovo antagonista. La sua dote nella forza, la sua efferatezza si dimostrano caratteristiche intimidatorie e minacciose. Dalla seconda metà, con precisione, dalla scena in cui toglie la maschera, inizia il crollo totale del personaggio. Menziono la scena in questione che probabilmente è l’unica scena che trovo davvero girata male del film. Forse volutamente. Per rendere più incisiva la demarcazione tra il Kylo Ren del lato oscuro e il Ben Solo, ragazzo tormentato e instabile, del lato chiaro. Quando Rey è pronta a vedere il volto di Ren, le inquadrature dovrebbero creare il giusto pathos per una scena culminante come questa. Si limitano invece a due sequenze dove Driver rivela il proprio viso e non può far altro che interpretare la parte senza il minimo aiuto registico e musicale. Non vi è infatti nessun accompagnamento musicale degno di nota a una scena talmente divisoria. Una scena così importante viene lasciata ad un semplice “toglie e via”. Il cattivo non è più così minaccioso. Ma non per demeriti propri, quanto per scelte registiche troppo semplici prive di tensione emotiva. Kylo Ren comincia a inanellare fallimenti clamorosi, rivelando volutamente una natura fragile, isterica e tendente alla dualità schizofrenica. L’antagonista passa così dalla potenza iniziale al dramma del caduto fino a incarnare una patetica emulazione devota soltanto all’ammirazione di una leggenda, mai dimostrando una vocazione propria al lato oscuro, quanto un desiderio di farne parte a tutti i costi. Il nemico si fa compatire fin da subito. Non si porta dietro nessun alone di mistero. Dovrà formarsi, ma in questo film sarà destinato a subire cocenti sconfitte da parte di Rey che lo ferirà al volto dandogli solo in quel momento una degna motivazione per indossare un elmo scenografico (bellissima a tal proposito l’atmosfera del duello nella neve). La scena dove il lato oscuro sembra finalmente abbracciare completamente Ben è girata ottimamente, usufruendo anche di un bellissimo gioco di luci: dapprima chiare durante il dialogo con il padre, successivamente oscure e rosse al momento del parricidio.

La battaglia finale per la distruzione della morte nera è priva di mordente, si svolge in fretta e con una semplicità disarmante. Il motivo per cui è stata inserita questa base come minaccia mi è ancora ignoto. Ma la grande assente del film resta comunque la musica. A parte il bellissimo tema di Rey, udibile per pochi secondi in due ore e dieci di visione, non vi è nessun brano epico e coinvolgente. Gravissima mancanza per una saga che ci ha abituato a colonne sonore come “Duel of fates”, “Across the stars” “Battle of Heroes” e la “Marcia imperiale”. L’opera si regge moltissimo sull’interpretazione semplicistica di Daisy Ridley e su quella di Harrison Ford, non tanto per una indimenticabile performance di quest’ultimo, quanto per il suo rivederlo nei panni dell’adoratissimo Han, che pronunciando la frase “siamo a casa” al fianco di Chewbe, avrà fatto scendere ben più di una lacrima ai fan come me. Ma il suo resta un Han stanco, persino separato dall’amata Leia che al termine della vecchia trilogia era diventata il suo mondo, ormai un pallido ricordo da salutare prima dell’addio. 

Il film mantiene nella sua indipendenza un ottimo equilibrio di azione, avventura, esplorazione e umorismo. Si, una comicità piuttosto banale ma non infantile. Una scelta ideale dato che l’ultimo film della saga uscito al cinema nel 2005 era del tutto privo di ilarità, dovendo affidarsi ai canoni drammatici della trasformazione di Anakin in Vader. L’assenza di personaggi di spessore come Obi-Wan, Yoda e Palpatine si fa sentire, sublimandosi nell’intensa mancanza dell’assoluto cardine della saga: Anakin Skywalker/Lord Vader. I rimandi alla sua figura sono piuttosto evidenti ma non riescono ad attenuare il vuoto procurato dalla sua scomparsa. Il nuovo mito è Luke, l’ultimo degli Jedi. Ma elevare Luke a leggenda è una scelta capibile ma non profonda, poiché Luke stesso era un personaggio piuttosto semplice, il classico buono stereotipato perno della trilogia classica su cui ruotava la vicenda che vedeva comunque al culmine non lui ma ancora Vader. Se Luke viene elevato a Dio è perché forse tutto il resto è minuto.

“Il risveglio della forza” è comunque godibile e divertente. Ma lascia l’amara sensazione dell’occasione sprecata. La paura di osare è evidente e l’escamotage narrativo usato da Abrams dà l’impressione di aggirare l’ostacolo e di prender in giro lo spettatore meno attento. Mr. Fanservice compone una fan-fiction destinata a tenere calmo e sedato il fandom, realizzando un remake di “Una nuova speranza”: puro, semplice e ottimo intrattenimento. Non vi è neanche l’ombra di messaggi profondi o scelte autoriali. L’addio al progetto del creatore George Lucas, si nota inoltre nella totale mancanza di scenari fantastici e di ecosistemi variegati e splendidi. Ammiriamo sostanzialmente tre pianeti che richiamano ad altrettanti già visti. Nessuno stupore e nessuna immagine memorabile. Pecca piattissima considerando la potenza degli effetti visivi del cinema contemporaneo. In conclusione spero che nei prossimi capitoli si volti definitivamente pagina lasciando il passato alle spalle quanto basta.

Il film a livello tecnico resta un punto molto alto raggiunto dalla saga, ma a livello di trama, questo lungometraggio tocca il punto più basso di tutti i film dell’epopea della galassia lontana lontana...

Voto: 6/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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