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"Rey, Kylo Ren, Leila e Darth Sidious" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Attenzione pericolo SPOILER!!!!

Non ho intenzione di scrivere una vera recensione sul nono episodio della saga di “Star Wars”. Non riuscirei a farlo.

Per quest’ultimo capitolo, dubito valga veramente la pena di sprecare gocce d’inchiostro, seppur di inchiostro “virtuale” io stia parlando. Mi ero ripromesso di non spendere più alcuna frase per questa trilogia sequel, tanto il malumore e lo scontento avevano avuto la meglio nel mio animo. Con un pizzico di ingenuità, in tutti questi mesi, ho seguitato a ripetermi che i sequel non mi appartengono e che ciò che mostrano non può scalfire il ricordo della storia che ho amato perdutamente.

Cronologicamente parlando, “Star Wars”, per me, comincia con un bambino scoperto su Tatooine e termina molti anni dopo con la morte di quello stesso “bambino”, divenuto un uomo adulto, racchiuso in un elmo scuro.

Durante l’evolversi di questa storia, il “bambino” di cui faccio menzione si era tramutato in un terribile servitore del male, genuflesso ad un dolore che non avrebbe mai avuto fine. Il biondo dei suoi capelli era scomparso così come il candore del suo volto. Dall’episodio I all’episodio VI, di Anakin non è rimasto che un viso paonazzo, saturo di sofferenza. Quella faccia demolita dal patimento veniva osservata con dolcezza dal figlio Luke, poco prima che Anakin spirasse tra le sue braccia. Che splendido finale era quello!

Anakin Skywalker, il prescelto dei Jedi, era un personaggio torturato dal rimorso, ottenebrato, sconvolto tanto nel corpo quanto nello spirito. Un uomo che, nel periodo più buio della sua vita, quando aveva perso ogni speranza e si era, da tempo, allontanato dal bene, scopre d’essere un padre. Anakin era un eroe caduto, eternamente in conflitto con se stesso, che cercava di risorgere dalle tenebre. Darth Vader era il “malvagio”, ma anche il vero protagonista delle vicende. Un protagonista che otteneva la redenzione salvando il figlio dalla morte, sottraendolo allo strazio del “vero” antagonista, vale a dire l’Imperatore Palpatine. I fulmini scagliati dal tiranno all’indirizzo dell’inerme Luke riaccesero l’umanità mai del tutto sopita nel cuore del cavaliere jedi. Anakin tornò in sé, riemerse verso la luce. Uccidendo il “cattivo”, ovvero il Signore dei Sith, Anakin compì la profezia teorizzata dal creatore di questo racconto immortale, George Lucas. “Star Wars” finiva in tal modo. La storia era stata conclusa, non vi era altro da raccontare.

L’epilogo della saga era perfetto, talmente soddisfacente da non lasciare alcuno spiraglio. Qualunque cosa fosse stata imbastita per un “fantomatico” seguito, avrebbe assunto i toni della “forzatura”. E’ il destino delle grandi storie: hanno un inizio ed una fine, proseguirle quando esse hanno già mostrato tutto significa rischiare di rovinarle.

Tutto ciò che è stato prodotto dopo la fine dell’emozionantissimo “La vendetta dei sith”, non incontrando i miei favori, ho preferito abbandonarlo, ignorarlo, cosciente che avrebbe fatto felice qualcun altro.

Ad oggi, però, mi sento in dovere di scrivere qualche altra riga su questo strampalato proseguimento dell’esalogia ideata da Lucas, e per un motivo molto chiaro: il finale di “Star Wars: episodio IX” non può essere tralasciato, obliato, trascurato poiché inficia maledettamente l’arco narrativo dei capitoli precedenti, quello stesso arco narrativo sceneggiato in sei splendidi film, i quali materializzavano, sotto i nostri occhi, il fato di due cavalieri Jedi, Anakin e Luke Skywalker, ad oggi resi completamente inutili da una sciagurata prosecuzione firmata Walt Disney e Lucasfilm.

Riflettere sul “come” si siano sviluppati questi bizzarri sequel, colmi di una storia già vista e repleti di incongruenze e trame imbastite senza un’intenzione precisa, fa sorridere amaramente. Con pacatezza, cercherò di tirare le somme di questa “mirabolante” e “stupefacente” trilogia targata “Topolino”. Partiamo dall’inizio, “dall’originalissimo” e “audace” episodio VII. Il nuovo corso, infatti, comincia da lì.

E’ il 2015. I propositi sono ambiziosi, il marketing pervasivo. Il seguito de “Il ritorno dello jedi” viene pubblicizzato come l’evento cinematografico più importante degli ultimi dieci anni. La regia è stata affidata al noto J.J. Abrams. Con una ruffianeria per nulla celata, il cineasta dimostra di voler appagare e compiacere il pubblico di devoti, riportandolo a rivivere le identiche atmosfere della prima trilogia. Abrams plasma, così, un’opera filmica studiata a tavolino: stucchevole, prevedibile, scontatissima ed estremamente scimmiottata. L’impatto per molti è spiazzante: episodio VII non è un seguito, o per meglio dire è un seguito furbo e potenzialmente irrispettoso.

La trama introdotta dal settimo episodio della saga è un allucinante copia-incolla. Più che un sequel, J.J. Abrams confeziona un remake/reboot delle opere di George Lucas, non osando nulla e non compiendo nessuna innovazione stilistica e narrativa. Il sequel di un film che era terminato con la caduta dell’Impero Galattico e la vittoria dell’Alleanza Ribelle, non presenta alcunché di moderno, “inaspettato”, nuovo. L’ambientazione è la medesima, l’approccio è identico, i conflitti lo sono altrettanto, il canovaccio, inoltre, calca in tutto e per tutto quello di “Una nuova speranza”. Ne “Il risveglio della forza” non vengono mostrate le dinamiche di un universo evoluto, necessariamente cambiato in trenta e passa anni dall’ultima volta che noi tutti gli avevamo dato un’occhiata. Nessun contesto politico viene indagato, nessun aspetto sociale vagliato. Il tutto si presenta come se nulla fosse mai variato.

Il Primo Ordine (la copia mal fatta dell’Impero) viene rappresentato come l’organismo dominante, la “cellula” più forte di questa realtà incerta e indefinita. La Resistenza (che resiste non si sa a cosa visto che dovrebbe essere la milizia della Nuova Repubblica e, dunque, del sistema politico dominante) vanta un esercito risicato, abbozzato. Praticamente Abrams, pur di farci vivere le medesime guerre stellari della tanto adorata trilogia classica, ripropone, come in copia carbone, i medesimi conflitti battaglieri dei film precedenti, senza aggiungere nulla di nuovo, senza contestualizzarli. Ma non solo!

L’intera struttura del film fa il verso ai passi più importanti della trilogia originale, perseguendo un maldestro tentativo di rifacimento. Non si può parlare d’altro che di un’operazione retrò codarda e astuta. L’episodio VII è, a mio umile parere, l’anticinema!

Abrams fa proprio l’opposto di ciò che dovrebbe fare un regista, un autore, “accontentando” il pubblico con un mero rifacimento, senza mai tentare di sorprenderlo. Cosciente che la maggior parte dei fan aveva contestato a Lucas le troppe innovazioni stilistiche della trilogia Prequel, Abrams si nasconde dietro saldi scudi di fanservice, dando in pasto agli appassionati lo stesso film di quarant’anni fa. Così, J.J. inscena una continuazione che non è una vera continuazione per paura di subire le critiche che George Lucas incassò ai suoi tempi con episodio I, II e III, sinceri e cristallini esempi autoriali di rinnovo, di sperimentalismo, di ampliamento, di coraggio.

Per come la storia viene presentata in episodio VII, la lotta dei ribelli, di Luke, di Leia e di Han risulta essere stata del tutto vana. La Repubblica, rimessa in piedi col sangue e il sacrificio di eroi e combattenti nei tre film della trilogia originale, viene spazzata via in tre secondi netti dal “raggio di luna” scagliato da “Sailor Abrams”. Tutto viene riportato al punto di partenza, come se i film classici non avessero raggiunto alcuna meta. Non si è voluto parlare di qualcosa di nuovo, di diverso, si è voluto, invece, annullare il “vecchio” e copiarlo.

La pellicola, così facendo, fa regredire la crescita di alcuni personaggi storici. Ne è un esempio l’evoluzione di Han Solo che, da contrabbandiere solitario, testa calda, alla fine della trilogia originale era diventato leader della ribellione ed eroe altruista, temerario e senza macchia. In “Il risveglio della forza”, la progressione di Han viene completamente annullata. Han Solo, a settant’anni suonati, si rimette a fare le stesse cose che faceva quando era giovane e avventato. Si gingilla con questioni di poco conto, truffa alcune fazioni malavitose con Chewbacca, dimostrando di non aver perso per nulla il vizio. Il punto in cui era arrivato al termine di episodio VI è stato spazzato via. Han e Leia che, come ricordavamo, erano diventati una cosa sola, nell’episodio VII appaiono lontani, distanti, separati da un brutto risvolto. Abrams ha, così, mandato in frantumi una delle coppie più simboliche dell’universo di Star Wars. Leia, poi, in tutta la trilogia sequel si limiterà ad essere una comparsa stanca e assuefatta su un altrettanto fiacco sfondo.

Nel medesimo film, Luke pare essersi “smarrito”, ma per trovarlo viene consegnata alla Resistenza una mappa (?). Abrams ha poi la sfrontatezza di inserire la terza “Morte Nera” consecutiva che presenta lo stesso tallone d’Achille della prima.

Nel 2015 fu personalmente scioccante assistere al cinema a una tale e becera scopiazzatura del lavoro originale e artistico di Lucas. Da fan di lunga data mi sentii preso per i fondelli.

Nessuno dei personaggi proposti in questo nuovo corso ebbe l’abilità di “acchiapparmi”, di conquistami. Poe Dameron fungeva da “clone” difforme di Han Solo e Finn era del tutto privo di carisma. Rey, pur reggendo il peso della pellicola con un certo spessore, non fece altro che infastidirmi. Bella, intelligente, dolce, coraggiosa, forte, disinvolta, era tutto ciò che si poteva sperare contenuto in un solo corpo. Era troppo, a dire la verità. Rey era brava a duellare con la spada laser senza averne mai impugnata una, era capace di fare trucchi mentali jedi grazie ad una virtù incompresa, era, insomma, l’emblema del nuovo corso Disney: una donna praticamente perfetta sotto ogni aspetto, la degna depositaria dell’eredità disneyana di Mary Poppins.

Kylo Ren, colui che doveva fungere da antagonista della prima opera, sembrava sin da subito dilaniato da un conflitto interiore. Diviso tra luce e oscurità, Ben Solo era un buono che avrebbe voluto essere un cattivo (?). Un personaggio insicuro, complessato, che sognava d’essere forte come il nonno e seguire le sue orme verso il lato oscuro. Per tale ragione, Kylo Ren, nel primo lungometraggio di questo bislacco corso, compie il parricidio, per abbracciare definitivamente le tenebre. Anche questa mi sembrò una scelta narrativa ingiustificabile.

Evidentemente, Ben credeva che solo attraverso il male avrebbe potuto eguagliare il suo “mito”, raggiungere la potenza di Darth Vader. Una domanda, però, sorge spontanea: come è possibile che il fantasma di Anakin non si sia palesato dinanzi al nipote, indirizzandolo sulla retta via sin da subito? Kylo Ren voleva finire ciò che Darth Vader aveva iniziato, ma cos’era questo progetto rimasto incompiuto?

Bene, a trilogia conclusa, non si riesce a capire quale fosse questo arduo compito. Ben Solo si avvicina al male perché vorrebbe essere come suo nonno, eppure non sa che quello stesso nonno che venera assiduamente ha, per l’appunto, dato la sua vita per annientare il simbolo di quel male che lui, adesso, insegue furiosamente. Com’è possibile che nessuno gli abbia riferito della redenzione di Darth Vader?

Ma, ancor di più, come è concepibile che Anakin non sia mai intervenuto per vegliare sul destino di suo nipote? Non gli abbia mai parlato come un’eco? Incongruenze come queste rendono la trilogia disneyana piena di no-sense.

Nell’episodio 7, viene introdotto il misterioso Snoke, figura enigmatica che verrà eliminata senza uno straccio di presentazione nell’episodio successivo. Proprio così, ex abrupto, all’improvviso, esattamente come avrebbero immaginato gli sceneggiatori presenti nella serie tv “Boris”.

E, una volta nominatolo, giungiamo, dunque, al “rivoluzionario” e “dissacrante” episodio VIII.

Rian Johnson viene presentato al pubblico come il regista illuminato, il “Robespierre” di “Star Wars”. Johnson è pronto a ghigliottinare teste, a tagliare i ponti con il passato, a mozzare con una lama affilata le corde che legano i nostalgici al trascorso. Johnson pare essere categorico: bisogna accantonare il fanservice di J.J. Abrams. E’ ora di cambiare rotta. Purtroppo per lui, la rotta di navigazione di questi seguiti era ormai bella che indirizzata. L’episodio VII era il nucleo fondamentale di questa trilogia. Partendo in quel modo, con uno scenario che in toto sapeva di già visto, non c’era più niente da fare. E’, di fatto, impossibile apportare “migliorie” e schiette novità in un contesto platealmente ripetitivo come quello architettato da J.J. Abrams. L’errore di questa trilogia è a monte, e comincia proprio con il numero “7”.

Il risultato del lavoro “innovativo” di Johnson è una dissacrazione del concetto stesso di Forza. Johnson tratta e inscena la Forza Unificante come se fosse un potere da fumetto, prestato ad ogni necessità di sceneggiatura. Nella pellicola, allora, assistiamo, inermi, a momenti stralunati e balordi.

Rey e Kylo Ren cominciano a dialogare a distanza, come in una fantomatica “videochiamata” a carattere fantascientifico. I due parlano, si osservano, si toccano. Qualcosa di mai visto prima. Invero, in episodio V, Leila riesce a sentire Luke, ma come un’impercettibile sensazione. Nel caso di episodio VIII, la Forza abbatte ogni barriera, ogni dogma, ogni limite imposto tanto accuratamente in più di trent’anni di curata elaborazione dal creatore George Lucas, rendendo plausibili teletrasporti, sdoppiamenti, ologrammi a distanza. Il tutto senza uno straccio di spiegazione. Accade questo perché è così e basta!

Nel suddetto lungometraggio, Luke Skywalker viene trattato come un reietto, un vagabondo, un maestro che non ha compiuto nulla di tangibile nella sua esistenza. Luke non ha ricreato un nuovo ordine jedi, è fuggito dai pericoli, dagli obblighi. Colui che riusciva a intravedere il buono custodito nel corpo contorto e meccanico di suo padre è, oramai, un disilluso, un essere che ha dubitato di suo nipote per un semplice sentore, valutando, addirittura, l’idea di assassinarlo nel sonno. Qualcosa di aberrante e inspiegabile. Com’è possibile che un personaggio come Luke sia diventato quello che ci è stato mostrato? Un anacoreta sventurato, stanco, l’opposto di ciò che era sempre stato.

Johnson, poi, per tutto il film non fa che calcare la mano con l’ironia. Non vi è una singola scena che non sia stemperata da una battuta stupida, da un’ironia grossolana che affligge ogni dannato personaggio. Tutti cadono preda della febbre della comicità, persino Luke che in tre film interi non aveva mai palesato alcuna inclinazione comica. Lo “Star Wars” della Disney si adegua, così, allo stile Marvel in cui non si può prendere seriamente una singola scena che subito deve essere annacquata con una battuta.

Rian Johnson, reputato dagli estimatori di episodio VIII come “un grande innovatore”, si limita, per il resto, a riproporre la trama de “L’impero colpisce ancora”. Alcune sequenze sono, addirittura, identiche a quelle de “Il ritorno dello Jedi”, specialmente quella in cui Rey, accompagnata da Ben Solo, raggiunge Snoke. La stessa scena è possibile scorgerla, naturalmente, quando Darth Vader conduce Luke al cospetto dell’Imperatore. In questo caso, ancora una volta, non si tratta di semplici citazioni ma di vere e proprie riproposizioni, inscenate per mancanza di idee di fondo.

Un’intera parte del film, quella relativa a Poe e Finn, è completamente inutile ai fini della trama. Ogni evento che accade non porta, di fatto, a niente. Se l’episodio VII, col suo delirante citazionismo, aveva diviso il fandom tra chi si aspettava un vero seguito e chi, invece, si era accontentato del sicurissimo remake senza infamia e senza lode, episodio VIII genera una spaccatura ulteriore, senza precedenti.

Arriviamo, infine, ad episodio IX, la “degna” chiusura di questa improbabile trilogia.

Dopo le pesanti critiche ricevute da “Gli ultimi Jedi”, la Disney richiama Mr. Fanservice: J.J. Abrams.

Al cineasta più citazionista e scopiazzatore del globo terrestre non frega nulla di raccontare una storia, anche perché non è in grado di farlo se non attraverso l’ispirazione del cinema spielberghiano e lucasiano. Così, Abrams fa quello che, secondo lui, il pubblico vuole: annulla completamente l’episodio VIII. Sin dal primo frame, il compito di Abrams è quello di prendere le distanze dall’opera antecedente, correndo all’impazzata per tappare buchi, rattoppare tagli, ricucire strappi insanabili. Il tutto con un piglio imbarazzante, con la disperazione di chi non sa cosa diamine sta combinando. Abrams fa peggio di Johnson, e trasforma la Forza in un potere che sembra essere uscito da alcuni episodi di “Dragon Ball”.

Nel vano tentativo di rendere appetibile l’operazione, Abrams ha la brillante idea di resuscitare l’Imperatore Palpatine, rischiando di distruggere il meraviglioso arco narrativo che ha visto Anakin ascendere al suo ruolo di Prescelto e portare equilibrio nella Forza. Perpetrando ciò, Abrams tenta di cancellare, con una gomma immaginaria, l'operato del collega Johnson e rinnega tutta la mitologia di Guerre Stellari, imbrattando il lavoro stesso di George Lucas.

La trilogia disneyana di Star Wars credo sia l’unico esempio cinematografico di una trilogia in cui gli episodi si rinnegano tra loro. L’episodio 7 rinnega l’episodio 9, l’episodio 8 sconfessa il 7 e l’episodio 9 rigetta sia l’ottavo che il settimo. Ma non solo, quest’ultimo capitolo distrugge la narrazione dell’intera storia concepita nei sei film da Lucas.

Per quanto Abrams si sforzi a premere il piede sull’acceleratore e sommerga lo spettatore con scene d’azione, con battaglie e con nozioni frettolose, è ormai troppo tardi: i personaggi di questa trilogia sono piatti, sbiaditi, insulsi perché mai sviluppati con un’intenzione chiara e definita. A pochi importa veramente cosa possa accadere loro. Questi personaggi non sono mai evoluti, non sono mai stati resi interessanti o delineati in modo nitido. Sono pallide comparse, rese centrali in una trama inesistente, caratteristi infimi, imparagonabili rispetto a Luke, a Leila, a Han, ad Anakin a Padmé, a Obi-Wan, a Yoda, a Qui-Gon Jinn. Della maggior parte dei personaggi della trilogia sequel non resta neppure un briciolo, nessuna emozione particolare.  Ogni passo, ogni risvolto è telefonato, privo di pathos, blando, sciatto, ripetitivo, inguardabile ed inqualificabile.

La pellicola di Abrams tocca le più alte vette dell’imbarazzo quando rivela la reale origine di Rey. Un qualcosa di talmente ridicolo, osceno e difficilmente commentabile che sarebbe meglio glissare se non fosse una parte così fondamentale. Rey è… la nipote di Palpatine.

In parole povere, noi, gli spettatori, dovremmo immaginare che Palpatine abbia avuto una relazione con una donna e abbia avuto degli eredi, il che, di per sé, è già ostico da valutare senza scoppiare a ridere freneticamente. Quando, come, perché sarebbe accaduto questo?

A me, francamente, sembra di vivere in un grosso incubo. Questi sceneggiatori hanno veramente gettato sul tavolo la carta della “nipote”. Ma nemmeno in “Beautiful” è ammissibile un colpo di scena del genere. Siamo al ridicolo, al raschiamento del fondo del barile, siamo alla parodia.

Kylo Ren, l’unico personaggio che poteva sperare su uno sviluppo più accurato, compie, invece, l’ennesimo andirivieni della sua mal sfruttata presenza in questa trilogia. Da cattivo a buono, da buono a cattivo, e ancora da cattivo a buono, Ben Solo sceglie di tornare al Lato Chiaro in maniera sbrigativa, sciocca. Il figlio di Han e Leia finisce per svanire, non prima di aver baciato, in una delle scene più forzate di sempre, Rey. Una scelta, quest’ultima, realizzata senza alcuno scopo narrativo ma soltanto per far applaudire le ragazze presenti in sala, molto devote sui social all’hashtag “Reylo”. Ma che disagio!

Il nono capitolo della saga vede, come già accennato, la presenza di Palpatine. La morte di Darth Sidious costituiva il culmine della storia di George Lucas. Il suo ritorno, giustificato in maniera vergognosa, decreta “la fine” di ogni pretesa logica riservata a quest’ultima trilogia.

In trent’anni, Palpatine è rimasto nascosto non si sa dove, probabilmente tra la carta colorata di un uovo di Pasqua, ha mosso lui i fili del Primo Ordine (era tutto ponderato sin dall’inizio, come no!) e ha creato anche Snoke. Così, senza motivo. Ogni cosa abbozzata in questa trilogia è stata liquidata con delle spiegazioni che sembrano estrapolate da una fanfiction scritta a quattro mani durante qualche oretta di svago.

Palpatine verrà ucciso da Rey e ciò segnerà un confine netto da cui non si tornerà più indietro: gli Skywalker non hanno fatto nulla di veramente valevole in questo universo. E’ ciò che hanno deciso, con quest’ultimo episodio, l’accoppiata Disney/Lucasfilm. Gli Skywalker, dall’essere la famiglia più importante della galassia, sono stati ridotti ad essere vacue ed ingenue entità di passaggio. E’ Rey la vera fautrice degli eventi, è una Palpatine il vero perno della storia finale. Una Palpatine che sceglie di ribattezzarsi Skywalker. E’ questa la grande ascesa a cui abbiamo assistito: la dissoluzione dei veri Skywalker, l’annientamento di un leggendario lignaggio e la celebrazione di una Palpatine.

Al termine della trilogia disneyana, tirando le somme, gli storici protagonisti della saga, Anakin e Luke, non hanno compiuto niente di rilevante. Con questa scelta, la Disney/Lucasfilm ha annientato la profondità delle due trilogie precedenti.

Il sacrificio di Anakin è stato vanificato. L’intera storia della profezia, del Prescelto, è stata soppressa. Vi soddisfa un finale del genere? Com’è possibile? Che storia abbiamo visto fino a pochi anni fa, allora? Vi aggrada aver assistito al logorio e allo sgretolamento dei personaggi cardine della trilogia originale?

La saga di “Star Wars”, per come si è evoluta negli anni, è diventata la storia di Anakin Skywalker, dalla sua scoperta sino alla sua morte. Non si poteva prescindere da una tale verità. Con questa orribile trilogia, la Disney ha adombrato la figura di Darth Vader, rivelando di non aver minimamente compreso la maestosità del racconto di Lucas, un racconto fatto di fallimenti, di errori, di redenzione, incentrato sempre sulla figura di un eroe, di un caduto, di un marito e di un padre. Tutto nell’esalogia di Lucas si combinava perfettamente, era una storia amalgamata che faceva rima come una sola, lunga e meravigliosa poesia. Era la storia di un padre e di un figlio, di una famiglia, gli Skywalker, ad oggi completamente rovinata. Il finale di episodio VI è stato neutralizzato.

Era ciò che temevo e profetizzavo, preoccupato, nel novembre del 2015, quando l’ultima fatica della Lucasfilm era imminente e doveva ancora sbarcare al cinema. Com’è possibile farsi andare bene una roba del genere? Con questa trovata, l’intera storia della saga di Star Wars non ha più alcun senso. Difatti, non sono più gli Skywalker a riportare equilibrio nella Forza ma è… una Palpatine a farlo. E’ orribile! E’ indecente!

L’intera trilogia sequel non è stata diretta e coordinata da un vero narratore. Manca totalmente una visione univoca e d’insieme. Sembrano tutti film sconnessi, sconclusionati, che si rifiutano tra loro. Ogni lungometraggio è passato di mano in mano, da un’idea all’altra, senza seguire un pensiero di base. E’ qualcosa non soltanto di palese, ma di tremendamente oggettivo. Sin dal principio, nessuno aveva tracciato una strada da intraprendere, una direzione da seguire. Si è andati a tentoni, navigando a vista e prendendo come metro di giudizio il parere reazionario del fandom, direttamente dal web.  Abbiamo assistito a tre episodi fatti con cose buttate a casaccio, con discordanze,con repentini cambi di visione che annullano ogni tentativo di sospensione dell’incredulità. Ogni pellicola è stata cancellata e reinventata come se si trattasse di un progetto autonomo. Questa trilogia poggiava su sei film precedenti, tutti coordinati da un’unica presenza autoriale. L’esalogia di Lucas è stata barbaramente insozzata, deturpata.

Qual è stato il senso di questi tre episodi?

Questa è stata la trilogia del riciclo, del ricalco, della scopiazzatura, il simbolo della mancanza di idee, del cattivo modo di fare cinema, dell’improvvisazione, del riadattamento, del pessimo modo di allungare ed espandere una mitologia. Tutto è stato vigliaccamente rabberciato, arrangiato come si poteva, senza un benché minimo senso logico.  

In passato, fu aspramente criticato Lucas, un genio, un visionario, un autore, un vero artista per aver commesso errori umani ma sempre dettati dalla volontà di ammodernare, di esplorare un mondo vasto ma sempre armonico, unito da un filo conduttore e portante. Lucas, verso ogni suo film, verso ognuno dei suoi “figli”, ha sempre infuso guizzo, magia. Le sue opere erano pregne di meraviglia, di quello stupore che la Disney e Lucasfilm, nei riguardi di Star Wars, possono soltanto inseguire e agognare. Oggi, Lucas andrebbe rimpianto, richiamato a gran voce.

Lungi da me mancare di rispetto verso chi ha apprezzato quest’ultima trilogia.  Potete esserne fieri e orgogliosi. Sono veramente felice per voi, anzi vi invidio. Fatico, però, a capire cosa vi sia piaciuto in tre prodotti confusi, nebulosi, che si contraddicono tra loro e che annullano i precedenti sei film rendendoli vani. Cosa vi è piaciuto di una trilogia che sconfessa continuamente ciò che ha proposto essa stessa? Che copia e distrugge?

Non mi resta che aggrapparmi forte a quei sei lungometraggi, illudendomi che quanto sia accaduto recentemente si sia verificato in una realtà parallela. In fondo è proprio così che è andata: il vero finale è ancora lì, cristallizzato sulla luna boscosa di Endor.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Donne e madri

Chiome lunghe o corte ammantano i loro volti, occhi dei più variegati colori adornano i loro lineamenti. Esse hanno voci tanto diverse, talvolta fioche, smorzate, talvolta acute e calde.

Cos’è una madre?

Nel linguaggio corrente, non vi è una singola risposta che possa ottemperare, con esaustiva finitezza, ad un tale quesito. Le madri possiedono varie incarnazioni, configurazioni difformi, aspetti disparati e caratteri eterogenei. Stando ad una affermazione semplicistica, si suole definire madre una creatura di genere femminile che, dopo una gestazione, partorisce un figlio. E’ questa l’esplicitazione più disadorna, chiara, comune, della figura materna. Eppure, attorno alla sola parola “madre” vi è custodita una qualità ed una quantità di significati vari e sempre più articolati. Con il termine madre si può intendere “l’origine” e con la sua valenza ideale si è soliti manifestare la concezione, la nascita, la plasmabilità di un’idea, di un fenomeno, di un atto d’amore. Al vocabolo “madre” è, dunque, accomunato il pensiero stesso della vita, della formazione, della crescita. Se lo vuole, ogni donna, sin da ragazza, avrà la possibilità di diventare madre. Attenti però, solo se lo vuole davvero! Tengo a sottolineare quest’ultima esclamazione, poiché diventare madre dev’essere un desiderio, una volontà intrinseca, non deve mai essere un obbligo ma una scelta, un volere, e quindi un desiderio.

Parafrasando ciò che disse frate Guglielmo ne “Il nome della rosa” - Dio non avrebbe introdotto un essere così particolareggiato, splendido, come la donna in questo mondo senza dotarla di numerose virtù. Lo credo fermamente anch’io. La donna sono solito definirla primavera, poiché più di ogni altra creatura in essa è preservato il segreto della vita, del divenire, dell’amore. Portare in grembo una creatura, percepirne il senso, sentirla crescere dentro di sé, nutrirla, vivere in due è un’esperienza che soltanto le donne possono provare. 

Tuttavia, diventare madri non è e non deve mai essere una coercizione. Per molti anni, la società, il costume, il credo popolare hanno fatto sì che donna e madre continuassero ad essere un nesso inscindibile. Niente di più sbagliato! Essere donne e diventare madri sono due categorie separate che possono essere, se lo si vuole davvero, congiunte in un sol spazio. Basti pensare all’epoca dei tanti sovrani e delle loro rispettive consorti, l’era in cui ad una regina spettava l’arduo compito di generare un erede maschio che potesse succedere al trono una volta che il regnante avesse abdicato. Il potere della donna di generare la vita veniva ghermito dall’uomo, fatto proprio, come un artificio da utilizzare per il proprio fine, e la figura della donna veniva ridotta a sola dispensatrice di eredi.

Un tempo, molte fanciulle potevano essere riconosciute come donne solo se diventavano mamme, in caso contrario, di donna, agli occhi di una società arretrata e sciocca, avrebbero avuto soltanto una parvenza. Esse sarebbero rimaste eternamente incomplete e, in cuor loro, schiacciate da questo dogma imposto dalla tradizione, dalla consuetudine, si sarebbero sentite realmente tali. In quegli anni, prender marito e rimanere incinta erano passaggi obbligati della maturazione, impellenze da adempiere più che sogni da realizzare. Le prime manifestazioni del movimento femminista nella prima e, immediata, seconda metà del Novecento assunsero grande rilievo per rivendicare l’indipendenza della donna. Il corpo di una donna è straordinario per la sua possibilità di poter mutare, di adattarsi, per accogliere una nuova vita. Ciononostante, non si può in alcun modo ridurre la femminilità, il valore corporale di una donna, a mero strumento di fecondazione. Una donna può essere madre se lo vuole davvero ma non necessariamente, in quanto la sua femminilità e la sua importanza non possono in alcun modo dipendere da questo fattore.

Diventare madre non deve mai essere un’intimazione, un vincolo, un dovere ma un’aspirazione intimamente sentita. Oggi le donne, mediante i loro sacrifici e le loro lotte continuano a ricercare un’autonomia, rivendicando il loro diritto ad essere madri e la loro libertà nel caso in cui non vogliano esserlo. 

Madre, naturalmente, non è soltanto colei che partorisce ma colei che sceglie volontariamente di esserlo e, quindi, di crescere un figlio. Pertanto, la definizione ordinaria, usuale, con cui ho iniziato questo mio scritto non può essere quella definitiva. A tal proposito, vi è una nitida differenza tra il termine “madre” e “mamma”. “Mamma” è un sostantivo che possiede una valenza più profonda, affettiva. Potrei, or dunque, dire che “madre” è una figura astratta e generica, un’entità fisica che dà alla luce un figlio senza, necessariamente, creare un legame con lui. Mamma, al contrario, è un’essenza definita, che accoglie tra le sue braccia un figlio che può aver dato lei stessa alla luce o, in alternativa, adottato ma come se lo avesse davvero portato in grembo sin dal suo concepimento.

  • Mamme, tra religione e mitologia

Interrogandosi sull’esistenza o meno del Paradiso e di una vita ultraterrena, il grande filosofo partenopeo Luciano De Crescenzo confessò, intimamente, che se davvero dovesse esserci un “dopo”, esso dovrebbe cominciare con l’apparizione di una figura a noi molto cara. Alle porte del Paradiso, fece intendere il De Crescenzo, ognuno di noi dovrebbe vedere l’anima di una persona che abbiamo amato perdutamente nella nostra vita. A tal proposito, Luciano disse teneramente: “Mi piacerebbe rivedere mia madre…”. Le mamme, infatti, sono spesso annoverate tra i più grandi amori dei propri figli.

Quando si ragiona sulla figura della mamma, non si può prescindere dal citare Maria di Nazareth. Maria è madre e mamma al contempo, è il simbolo per antonomasia della sfera materna. Stando al credo cattolico, Ella era una ragazza vergine che, una notte, ricevette la visita dell’Arcangelo Gabriele, il quale le annunciò che sarebbe presto rimasta incinta. Maria esitò per un istante, sapendo che mai nessun uomo l’aveva sfiorata. Maria comprende, in quell’attimo, che il bambino che in Lei potrebbe incarnarsi possiede un’essenza divina. Ella accetta la richiesta del messaggero di Dio, sceglie volutamente di accogliere questa vita, rimarcando con tale accettazione il miracolo della nascita. Maria è una donna che acconsente a custodire nel proprio grembo una vita inattesa. Ella non aveva deciso d’essere madre sino ad allora ma, molto probabilmente, lo aveva sempre desiderato. La parola dell’Arcangelo più che una richiesta può sembrare, ad una lettura superficiale del racconto biblico, un’imposizione. Invero, Maria è stata scelta da Dio come la sola meritevole di dare alla luce il Dio fatto uomo. Maria è posta davanti ad una valutazione difficilissima: se accettare o meno una gravidanza che cambierà per sempre il proprio destino. Maria agisce come donna e anche come madre, decide secondo il suo volere, come una fanciulla libera, e acconsente di diventare madre. Maria accoglie così una vita misteriosa, trascendentale, e lo fa con la consapevolezza di voler essere madre di un Figlio così speciale.

Maria è una mamma che può crescere il proprio figlio ma che non potrà mai proteggerlo. Ella sa che Gesù è destinato a morire, e non può far altro che accettare, questa volta senza possibilità di scelta, il triste destino purificatore a cui andrà incontro il proprio discendente. Tutti noi idealizziamo Gesù come un uomo divino, un mortale che tende all’immortalità, di rado ci soffermiamo a riflettere che quel Dio che ha camminato sul suolo terrestre, secondo il narrato religioso, agli occhi di una madre era un erede fragile, indifeso, sofferente. Maria osservava Gesù come una madre qualunque che mira, felice, il proprio figlio. Ella vedeva in Lui la grandezza, la meraviglia, ma queste sue qualità non sostituivano mai la naturalezza di un figlio a cui Lei non avrebbe mai potuto evitare il dolore che, da adulto, Egli patirà. Quanta forza, quanta resistenza vi era nel cuore di Maria, la mamma che più di tutte dovette sopportare un destino già scritto.

Maria divenne madre tramite un’immacolata concezione. Questo tema mistico fu ripreso da George Lucas nella sua opera cinematografica fondamentale: “Star Wars”. Anakin Skywalker, il protagonista dell’esalogia di Lucas, nacque mediante un’immacolata concezione. La madre di Anakin, Shmi, restò incinta senza aver avuto alcun rapporto carnale. Anakin fu concepito dalla Forza, l’essenza immutabile che circonda e pervade l’intero universo, avvolgendo ogni essere vivente e garantendo la vita. La forza, ideata da Lucas, è paragonabile alla sostanza intangibile del Divino e il ruolo di Shmi Skywalker a quello della Madonna. Shmi ha portato in grembo Anakin, lo ha fatto nascere, senza mai spiegarsi cosa fosse accaduto. Ella fu scelta, senza alcuna annunciazione. Nessuno si recò dinanzi a lei per porla davanti ad una opzione. Shmi divenne madre senza poter vagliare l’opportunità di esserlo. Eppure, ella fu felice, come se la Forza, inconsciamente, sapesse che ella avrebbe voluto diventare madre. Anakin, pertanto, possiede tratti in comune con la figura di Cristo: come Lui, egli è considerato una sorta di Messia, di prescelto, di cui un’antica profezia ha anticipato la venuta molti secoli prima. Differentemente da Gesù, Anakin cederà alle tentazioni di “Satana”, il Signore Oscuro dei Sith Darth Sidious.

Anakin prova per sua madre un amore fortissimo. Per tutta la sua giovinezza, ella fu la sola donna che Anakin ebbe vicino, il suo unico legame d’affetto. Quando dovrà lasciarla, prigioniera della sua schiavitù, Anakin soffrirà tremendamente e non smetterà mai di ricordarla. Il distacco dalla madre e il dolore patito per la sua lontananza cominceranno a far emergere in Anakin sentimenti oscuri di rabbia. Il fato tragico a cui andrà incontro il giovane Skywalker è condizionato proprio dall’addio. La mamma, nella storia, rappresenta la prima ferita incurabile che farà avvicinare il cavaliere Jedi sull’orlo del Lato Oscuro.

Anakin, dopo aver lasciato la madre, si innamora istantaneamente di Padmé. L’amore provato per la genitrice viene adesso superato dall’amore che il protagonista proverà per la ragazza. Un amore, quest’ultimo, che mai svanirà e lo accompagnerà per tutta la crescita. L’affetto per la mamma e l’amore per la moglie sono le due sintesi su cui si fonda il sentimento umano del futuro Darth Vader, un sentimento che alberga nelle sue reminiscenze, occultato sotto la maschera nera e buia. L’amore che Anakin provò un tempo mai lo abbandonerà del tutto e riemergerà in lui nel momento in cui si scoprirà essere padre. Anakin, personaggio estremamente complesso e articolato, nel suo animo tormentato provò amore e affettuosità soltanto per due donne: Shmi e Padmé, la moglie che diverrà madre a sua volta. In punto di morte, Padmé userà le forze residue per mettere al mondo i suoi gemelli e dar loro un nome. Li sfiorerà a malapena, li guarderà con amore, poi si spegnerà tristemente nutrendo, però, la ferma speranza che nel cuore di Anakin vi sia ancora del buono. Saranno proprio quei piccoli, messi al mondo da una madre che mai potrà crescerli sebbene avesse tanto voluto farlo, a redimere il padre e a far riemergere lo spirito di Anakin dalle tenebre. Padmé è una donna che, vinta da un esito infausto, non ha potuto essere mamma per i suoi figli. Cionondimeno, dando loro la gioia della nascita, riuscirà a salvare la vita di Anakin prima che l’ombra cali sul suo volto pallido ed esangue.

La parola “mamma” coincide con “bontà”, con “affetto”, con “amore” e con “educazione”. La mamma protegge ad ogni costo il proprio figlio. La Mitologia Greca offre un’immagine evocativa di una mamma che si adopera per garantire l’incolumità del proprio pargoletto sin da quando questi ha aperto per la prima volta i suoi occhi al mondo. In un passo fondamentale di un racconto mitologico, Teti regge tra le sue braccia un batuffolo bianco appena nato. La dama generò quel bimbo dopo aver giaciuto con un mortale, conosciuto col nome di Peleo. La Nereide non poteva tollerare la natura semidivina del piccino, poiché egli, in virtù della sua mortalità, sarebbe stato vittima di dolore e, un giorno, di morte. Teti era una ninfa e non poteva sopportare l’idea che il proprio figlio potesse perire. Così lo raccolse e lo strinse a sé, conducendolo sino allo Stige, nelle cui acque avrebbe immerso il figlioletto. Reggendolo per un piede, Teti fece sì che la cristallinità del fiume avvolgesse il fragile corpo del piccino, così da renderlo invulnerabile ad eccezione del suo tallone, rimasto emerso dallo specchio d’acqua. Il gesto di Teti è estremamente simbolico per evocare l’amore di una mamma, colei che più di ogni altra creatura desidera la protezione sempiterna del proprio figlio.

Ma la mitologia vuol ricordarci anche che non tutte le madri possono provare affezione e premura nei riguardi della propria prole. Il volto tenebroso, distorto, ed insano di Medea evoca il male che può albergare nel cuore di una madre. Medea considera i propri figli delle creature di cui ella detiene il possesso. Medea valuta il parto come un legame indivisibile. I figli che sono stati messi al mondo hanno, nei confronti della loro madre, secondo il folle pensiero di Medea, un debito che nulla potrà mai ricompensare. Pertanto, la nobile reputa i propri discendenti una merce di sua proprietà, di cui ella potrà servirsi e, disfarsi, quando vorrà. La principessa di Colchide è un’assassina e testimonia l’immoralità ed il peccato di ogni genitrice che arreca dolore e morte alla propria creatura.

  • Le mamme nella Settima Arte

Essere mamme è un lavoro a tempo pieno, una “mansione” impegnativa, un’ambizione impossibile da attenuare.

Nel cinema d’animazione della Walt Disney, una mamma attendeva con impazienza la venuta del proprio piccoletto. Essa era tanto alta, grande e grigia. Giaceva rinchiusa tra gli esigui spazi di una gabbia, coperta soltanto da un drappo azzurro e da una cuffia rosa poggiata sulla sua fronte ampia. Costei non era una mamma come tutte le altre. Ad essere del tutto onesti, non era una mamma di un cucciolo d’uomo, bensì una mamma del regno animale. In “Dumbo”, classico disneyano del 1940, l’elefantessa aspetta l’arrivo del piccolo elefantino in una notte serena. D’improvviso, uno stormo di cicogne scende giù in picchiata. Le loro sagome in volo vengono illuminate dalle stelle che brillano nel cielo. L’elefantessa è una madre che ha scelto di esserlo, si sente pronta a diventarlo con tutte le sue forze eppure, il suo cucciolo tarda ad arrivare. Il dì seguente, una cicogna in colpevole ritardo porta un fagotto dalle larghe orecchie alla signora Jumbo. La nascita in “Dumbo” viene rappresentata come un avvenimento condizionato ad un determinato momento della vita, in cui gli stessi genitori si sentono pronti ad accogliere e allevare un figlio. Gli animali/genitori nella pellicola sono il più delle volte singole madri. La stessa signora Jumbo aspetta il proprio figlioletto, ma esso sembra tardare ad arrivare, rendendo ancor più unica la sua nascita, come un parto speciale e per questo difficilmente prevedibile. Dumbo non possiede un padre, come se si volesse sottintendere che anche le madri rimaste sole possano crescere con affidabili riscontri i propri figli, districandosi comunque tra il lavoro (qui rappresentato dal circo) e il ruolo affettivo ed educativo di “mamme”. La Signora Jumbo simboleggia ogni madre che ha scelto di divenire tale e che attende che il cielo risponda alle sue suppliche donandole quell’esserino.

In “Tarzan”, invece, pellicola del 1999, Kala, una gorilla che ha perduto il proprio cucciolo, rinviene nella giungla un piccolino che dorme in una culla. Essa desidera fortemente crescere un figlio e, trovando Tarzan, decide di allevarlo come sua madre. Kala apre le sue braccia ad un bambino che la stava cercando, invocandola con la dolcezza ed il fragore di un pianto. Tra Kala e Tarzan non vi è alcun legame di parentela, eppure i due sono ugualmente madre e figlio. E’ splendido notare come Kala sia un primate e Tarzan un essere umano. I primati sono proprio i parenti più stretti e somiglianti degli uomini. Sebbene abbiano aspetti diversi, Kala e Tarzan trovano nei loro sentimenti un modo per sentirsi vicini e simili. In particolare, i due si toccano le mani. Nonostante le “zampe” della gorilla siano più grosse di quelle del piccolo Tarzan, esse somigliano agli arti del piccolino. E’ questo il primo segno di come tra loro possa esserci una vicinanza assoluta se entrambi lo desiderano. Il personaggio di Kala personifica tutte le madri che educano e crescono un figlio che non hanno generato. Non è un semplice legame di sangue a garantire un rapporto, non è una parentela a fortificare una relazione, madre è soprattutto chi cresce un figlio. Lo stesso figlio considererà sempre sua madre come colei che lo ha accompagnato nella sua progressiva evoluzione.

La mamma, nella sua definizione più generica, può avere le fattezze di una educatrice, di una confidente, a volte, persino di un’amica. Nella serie televisiva “Gilmore Girls”, Lorelai è una donna libera, loquace, simpatica, schietta, ed una mamma amichevole, gentile e comprensiva. Ella sa essere infantile, persino puerile con la sua parlantina sciolta e ironica, ma autoritaria e giusta quando la situazione è solita richiederlo. Lorelai ha cresciuto Rory, avuta all’età di 16 anni, in maniera diametralmente opposta a come sua madre ha cresciuto lei stessa. Lorelai proveniva da una realtà benestante, fu educata per appartenere obbligatoriamente all’alta società. Da quel mondo che le tarpava le ali, facendola sentire prigioniera di un sentiero già tracciato, ella fuggì e decise di educare Rory con comprensione e dolcezza.

Tra Lorelai e sua figlia Rory esiste un rapporto unico, fatto di sintonie assolute, di passioni condivise, di parole pronunciate rapidissimamente, di umorismi particolari ed incomprensibili ai più. Lorelai è l’incarnazione della madre moderna. Ella ha dato vita ad una parte in cui la mamma non è più vista come un ruolo lontano, distaccato dalla figlia, bensì come una persona vicina, il cui compito non è solamente quello di educare con condiscendenza o con severità. Lorelai è per sua figlia Rory una confidente, una persona su cui poter contare e a cui poter raccontare ogni cosa.

Ma cos’è, allora, realmente una mamma? Mamma è Shmi che accoglie una vita e la genera con le sue sole forze? Mamma è Kala che adotta un cucciolo smarrito come proprio? La Mamma è un’amica? In realtà, mamma è un’idea, un pensiero, un desiderio, un nome pronunciato da labbra che si sfiorano due volte. “Mamma” è tante cose, non può essere compendiata sotto un’unica definizione.

E vi dirò di più, mamma non è neppure necessariamente una donna. Mamma è colei che ama i propri figli, che se ne prende cura giorno dopo giorno. Per tale ragione, il ruolo della madre coincide con quello del padre, e le vesti della mamma possono essere calzate pienamente anche dal papà. Questa verità ce la sussurrò sommessamente Robin Williams, quando, in “Mrs Doubtfire”, cominciò a valutare seriamente la possibilità di “travestirsi” da donna per poter continuare a stare vicino ai suoi figli. Robin continuo a borbottarci tale veridicità, non più cautamente, ma in maniera dirompente quando, nello stesso film, si truccò pesantemente il viso, e divenne un’anziana e permissiva governante. Pur di poter trascorrere le sue giornate con i suoi figli, Robin rinunciò alla sua veste paterna, e assunse i panni del “mammo”.

La seguente è la definizione più calzante: è l’amore che fa una mamma, non l’aspetto!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Gli ultimi Jedi" Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

ATTENZIONE PERICOLO SPOILER!!!!

  • Un amore cominciato nel 1977

Com’è che si dice? Ah, si! Ogni generazione ha la propria trilogia! Dal 1977 ad oggi, “Star Wars” ha attraversato con disinvoltura quarant’anni di cinema. Se un tempo l’uscita di “Star Wars” era un evento “centellinato”, oggi è, invece, un appuntamento quanto mai scontato, sistematico, direi annuale. Tra sequel, spin-off e altrettanti progetti in cantiere slegati dal filone principale, l’universo nato dalla fantasia di George Lucas tende perpetuamente ad espandersi, senza apparenti limiti circostanziali che possano riuscire a frenare un dipanarsi così sovrabbondante da risultare incontenibile. “Star Wars” ha perduto l’unicità di storia “iniziata” e “conclusa” in un arco narrativo prestabilito dal suo indimenticabile autore, ma non per questo ha smarrito lo smalto e l’eccezionalità del proprio richiamo. Sebbene “Guerre stellari” sia un evento non più raro, ma ripetuto a scadenza annuale, il fascino di questo universo fantascientifico continua a richiamare i fans con la stessa intensità di un tempo. Questo perché quando gli studi della Walt Disney hanno acquistato la Lucasfilm, ottenendo conseguentemente i diritti sul franchising di Star Wars, erano perfettamente consapevoli di ciò che stavano facendo, e quindi conoscevano fin troppo bene un dettame fondamentale: i cultori, gli appassionati, i ferventi sparsi per il mondo non hanno mai osato pronunciare la parola “fine” nei confronti di Star Wars. Nessuno ha davvero mai voglia di far calare il sipario su quel mondo fantastico. La stragrande maggioranza del pubblico vuol sempre nuove avventure, desidera nuove storie, agogna persino altrettante trilogie. Del resto, come scrivevo, ogni generazione ha - e avrà - la propria trilogia, in un apparente sviluppo illimitato che giungerà ad esplorare ogni angolo sperduto di quella galassia lontana lontana. Con i conseguenti rischi accettati di banalizzare il tutto, naturalmente. Un rischio accettato di buon grado dagli spettatori.

  • Amore personale

E’ un rapporto strano quello che unisce i fans di “Star Wars” alle varie opere cinematografiche. Un legame profondo, di amore puro, ma anche morboso, critico e straziante. Credetemi, ne so qualcosa. Sono uno di loro. Sono uno di voi, se chi legge queste mie parole sia anch’egli un fans della saga. Sono innamorato di “Star Wars” sin da bambino. “Star Wars” ha continuato ad accrescere questo mio sentimento, a far pulsare il mio cuore perdutamente infatuato di questa incredibile saga. Di “Star Wars”, ancor più delle sue astronavi, ancor più delle battaglie nello spazio, ancor più delle spade laser, ho amato la sua storia. Il cambiamento di un antagonista, tale Lord Darth Vader, la sua trasformazione da “cattivo” a vittima, e in egual modo ho subito l’incanto della sua storia passata, della sua ascesa, della sua successiva caduta al lato oscuro, fino alla sublimazione della sua espiazione finale. “Star Wars” era l’incredibile e straziante vita di un prescelto, Anakin Skywalker. Ho nutrito un’adorazione verso gli episodi IV-V-VI e ho sviluppato un affetto altrettanto profondo nei confronti degli episodi I-II e III, i quali esploravano un passato per raccontare ciò che mancava, come fossero tasselli risolutivi di un mosaico. Erano due trilogie complementari, che narravano un percorso iniziatico e giunto ad uno splendido finale. Perché chi sta componendo questi passi di recensione sa quanto “Star Wars” sia sentimento, e non ragionamento, sia emozione trasportante e non quantificabile. Ed è dunque totalmente con la sfera sentimentale che ho sempre guardato e giudicato l’epopea della galassia lontana lontana. Perché “Star Wars” è amore. Ma cos’è l’amore?

  • Salto nel vuoto

L’amore è felicità, gioia, appagamento, ma anche timore, preoccupazione, paura di soffrire e di restare feriti e irrimediabilmente delusi. Guardare un nuovo capitolo di “Star Wars” per un amante della saga equivale a precipitare in un vortice con un paracadute ben piantato sulla schiena pronto ad essere aperto. Si potranno avvertire, durante la caduta nel vuoto, emozioni indescrivibili, adrenaliniche, eccitanti, ma anche paure ansiogene, magari ingiustificate, dettate dall’amore incondizionato verso il film da noi tanto amato, e che possa, all’improvviso, non piacerci più o, peggio ancora, non suscitare più in noi le giuste emozioni. Sarebbe come se in un volo pindarico libero, vivo, autentico, ma impalpabile come il soffio del vento, d’un tratto il paracadute, chiamato in nostro soccorso, stenti a schiudersi, mentre precipitiamo giù nel gorgo più buio e più profondo.

Quando le luci in sala si spengono e lo schermo è ancora buio, prima che su esso appaia la scritta azzurra con l’usuale, evocativa frase “Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana…”, le emozioni di ogni singolo spettatore tendono ad accrescersi sempre più, fin quando la scritta gialla “Star Wars” non occupa l’intero schermo. Vedere “Star Wars” equivale a compiere un atto d’amore, un atto di fede, perché “Star Wars” può anche non essere un semplice film. Anzi, non lo è affatto!  “Star Wars”, per milioni di persone, come il sottoscritto, è un regno da visitare e viverci dentro, un mondo siffatto di realtà meravigliose, un universo da amare. Guardare un nuovo capitolo genera pertanto un turbinio d’emozioni nuove. Non è una semplice esperienza visiva, quanto più un’esperienza emotiva, vissuta mediante lo sguardo, il canale attraverso cui il sentimento suscitato dalle immagini di “Star Wars” giunge fino al cuore per farne accelerare i battiti.

Sin dall’attesissima uscita dell’episodio VII, “Il risveglio della forza”, primo sequel ufficiale de “Il ritorno dello Jedi”, la Lucasfilm ha incentrato le proprie rappresentazioni seguendo una sorta di venerazione rivolta alla trilogia classica. Ciò per tentare di soddisfare, con un effetto nostalgico studiato a tavolino, quante più persone si poteva. Star Wars” episodio VII, sebbene consacrato da uno straordinario successo economico, ha generato un’ulteriore falla, una discrepanza tra i fans, dividendo coloro che hanno apprezzato questa riproposizione, orchestrata ad arte con costanti “strizzatine d’occhio” al passato, degli eventi più significativi dell’episodio IV, riadattati per un sequel sotto le mentite spoglie di reboot/remake, e coloro che invece hanno detestato e detestano una simile scelta. “Il risveglio della forza” al sottoscritto non ha arrecato altro che delusione. Personalmente mi sentii preso in giro da quanto mi era stato proposto. Perché il cinema non può mai adagiarsi sulla riproposizione, su di “una scopiazzatura riadattata” come quella avanzata da “Il risveglio della forza”. In quanto arte, il cinema dovrebbe sempre ricercare la novità. Riproporre non è mai la strada, può essere soltanto una “comoda” scorciatoia.

La fiamma ardente dell’amore si era riaccesa in me con il coraggioso spin-off “Rogue One”, che ha alimentato nuovamente la mia speranza in merito al filone principale della saga.

  • “Gli ultimi Jedi”

A Rian Johnson è spettato dunque il compito di girare l’episodio VIII, “Gli ultimi Jedi”. Il regista statunitense non poteva più riporre le proprie sicurezze soltanto sull’effetto nostalgico, sapeva di dover osare. A quel punto, un interrogativo di natura artistica e di vitale importanza si sarà palesato nella sua mente: in che modo avrebbe dovuto osare? Johnson ha ereditato una storia indirizzata da J.J. Abrams, una narrazione poggiata su due scenari battaglieri che contrappongono il fronte del Primo Ordine e della Resistenza a seguito della distruzione della Repubblica. Le guerre stellari inscenate da Abrams sono le rivisitazioni, per nulla originali, delle precedenti battaglie tra Impero e Alleanza Ribelle.  Rian Johnson parte dalla suddetta guerra, e dall’estetica retrò volge lo sguardo al futuro, dimostrando di voler raccontare una storia nuova. Peccato, però, che tale storia non conduca a nulla e attinga palesemente da vicende di episodi precedenti.

“Gli ultimi Jedi” comincia con una spettacolare battaglia nello spazio tra Resistenza e Primo Ordine, e prosegue poi su di un’isola, dove ha trovato rifugio Luke Skywalker, raggiunto da Rey, desiderosa di divenire la sua allieva. Mark Hamill torna così fieramente ad indossare il mantello dell’eroico Luke. Il figlio di Anakin Skywalker è adesso un saggio maestro Jedi dalla folta barba grigia, a tratti misantropico, timoroso, furente e combattuto. Hamill ci dona un Luke diverso, certamente riconoscibile da tutti coloro che lo hanno ammirato nelle sue imprese di allora, eppure al contempo diverso, quasi irriconoscibile, se noi stessi ci soffermassimo a pensare a come ci saremmo aspettati di vederlo. A seguito dell’incontro tra Luke e la protagonista, si delinea una progressione che coinvolge a distanza le figure oppositrici di Rey e Kylo Ren, incarnanti la luce e l’oscurità.  Ciò che accade parallelamente alla vicende che coinvolgono Rey e il figlio di Leia, è la costante battaglia, fatta di estenuanti inseguimenti, tra il Primo Ordine e le forze della Resistenza. In particolare il percorso compiuto da Finn, Poe e Rose risulta tanto ricco d’avventure quanto fumoso e inutile ai fini della trama.

E’ alquanto evidente nonché apprezzabile il coraggio del regista nel voler voltare pagina, se non fosse che il suo film ecceda in un completo rovesciamento del credo nella forza. Pare, infatti, che Johnson basi il suo lungometraggio su di una struttura già ampiamente comprovata per poter soverchiare punti focali del mito di “Star Wars”. La mitologia di “Star Wars” viene sviscerata in questo ottavo episodio, il credo sulla forza unificatrice viene messo al vaglio e reinterpretato, facendo crollare ogni sorta di dogma che ritenevamo certo, inviolabile, sacro, incontestabile. Ma se “Gli ultimi Jedi” possiede il merito di osare e di cercare di virare la direzione del franchising verso una rotta nuova, finisce alla fine per rispecchiare uno stile che snatura “Star Wars”. Il credo religioso di una forza unificatrice riceve qui le influenze di un approccio diversificato, dalla natura inspiegabile. La forza viene inscenata secondo una nuova prospettiva, dando vita a situazioni che mai abbiamo visto nei precedenti film, secondo un atto che i puristi riterranno sacrilego. La forza per Johnson non è più solo comunicazione telepatica ma diviene anche fisica, in grado di unire mondi, luoghi e persone a distanza, i quali tentano di sfiorarsi, di osservarsi e addirittura di toccarsi, riuscendoci. Ma non solo, la forza diviene anche proiezione corporale che non conosce limiti, e pare d’essere diventata un potere da fumetto, in grado di far “fluttuare” una persona nello spazio. “Gli ultimi Jedi” si avvicina a Star Wars più che può, eppure, al contempo, cerca di allontanarsi e di molto, diventando un’opera che professa innovazione pur avvalendosi di una struttura narrativa estrapolata da vecchi contesti.

  • Ironia continua

Episodio VIII risente anch’esso di un evidente citazionismo disseminato a più riprese, e segue praticamente l’andatura de “L’Impero Colpisce Ancora”. Curioso come il regista tenti di dare una svolta alla saga, ma basi le sue scene su di un “rimodellamento” di quelle classiche. Anche in questo film un “padawan” bisognoso d’addestramento si reca da un maestro in esilio, affronta le reticenze del mentore e inizia un addestramento in cui subirà il richiamo del lato oscuro, emanato da una “caverna” buia dove alberga un’opprimente forza tetra. Ciò che svilisce, e di molto, “Gli ultimi Jedi” se confrontato a “L’impero colpisce ancora” sta nel fatto che l’episodio VIII non riesce a mantenere neppure minimamente l’impatto cupo, serioso e drammatico dell’episodio V. “Gli ultimi Jedi” è frequentemente martellato da un’ironia spicciola, a tratti demenziale, che mina qualunque sequenza in cui la tensione dovrebbe innalzarsi. Battute stupide, prese in giro infantili, trovate comiche ai limiti del grottesco si susseguono e finiscono per spegnere sul nascere qualsiasi alone di drammaticità. L’epicità non viene mai realmente raggiunta, nonostante spettacolari sequenze d’azione girate con maestria, perché ogni dialogo solenne, così come ogni momento tragico, viene smorzato da una comicità fuori luogo. “Gli ultimi Jedi” si adegua al nuovo corso del cinema “Marveliano” e di natura spiccatamente Disneyana, quel particolare espediente secondo cui si ha il timore che il pubblico possa prendere sul serio anche una singola scena. Che sia un momento d’amore, una confessione, una riflessione o un istante di grande impatto emotivo, il tutto deve essere sempre stemperato da una punta d’ironia. Sugli sfondi dell’Isola, ma anche sul Falcon durante le più intense sequenze di guerra spaziale, si palesano, con ritmata costanza e come dei molesti prodotti suggeriti per fini commerciali, gli invasivi Porg, come se volessero ricordare al pubblico di valutarne bene l’acquisto data la loro fragilità espressiva al termine della visione.

  • Storia e personaggi

L’intera trama del film non ha uno sviluppo accattivante, arenandosi nuovamente su di uno schema scenico già visto. Rey, dopo essersi sottoposta ad un addestramento abbozzato, raggiunge, infatti, Kylo Ren per tentare di convertirlo al lato chiaro dinanzi al leader supremo Snoke. La medesima situazione de “Il ritorno dello Jedi”, in cui Luke tentava di convincere il padre ad abbandonare l’oscurità per affrontare Sidious. Ancora il delirante citazionismo tipico del nuovo corso dei film di “Star Wars” non si presenta come semplice rimando, come “parte di una poesia che fa sempre rima”, ma assume i contorni di una situazione preminente. La dipartita del leader supremo Snoke, così come la caduta del Capitano Phasma, due personaggi particolarmente attesi e chiamati ad avere una figurazione chiara e ben definita, indicano come la sceneggiatura non abbia seguito una direzione autoriale prestabilita ma sia stata scritta accuratamente per eliminare ciò che non aveva funzionato nel precedente film e non aveva incontrato i favori del grande pubblico. Snoke non aveva convinto? E’ stato eliminato. Phasma si era dimostrata anonima? E’ stata annientata. Persino l’elmo di Ben Solo, ritenuto dai più ridicolo e inutile, è stato distrutto. Kylo Ren diviene il leader supremo per ascendere pienamente al ruolo di antagonista, ma allora perché presentarci una figura così sfuggente, avvolta nel mistero, come quella di Snoke per poi eliminarla in un modo tanto spiazzante quanto imbecille?! Tutti i dibattiti in merito ai possibili genitori di Rey vengono poi annullati di colpo da una semplice e perentoria affermazione: “non erano nessuno”. Come se la stessa Rey si rivolgesse agli spettatori e annunciasse loro che non devono aspettarsi nulla, e di smetterla di elaborare teorie dato che non c’era nulla da attendersi. E’ stata una rivelazione annunciata, come se il regista volesse scrollarsi di dosso quel fardello. Tutte le risposte che per i fans era lecito aspettarsi sono state elargite con disarmante semplicità. Ma a tal proposito, ciò che lascia ancor di più l’amaro in bocca è dato dal fatto che le risposte in merito ai quesiti più importanti sollevati dall’Episodio VII non sono state fornite, ma ancora una volta aggirate: cos’è il Primo Ordine? Da dove è sorto? Chi era Snoke e perché era al comando? Com’è possibile che la Repubblica se ne sia stata con le mani in mano mentre questo nemico si armava per distruggerla? Com’è accettabile che l’esercito di una Repubblica, nata trent’anni prima, sia “risicato” e debba essere chiamato “resistenza”? Ci si deve rendere conto che pur di farci rivivere le medesime guerre stellari della trilogia classica, gli autori hanno dato vita a una trama fotocopia della precedente, piena zeppa di incertezze. E il film di Johnson a livello di storia finisce per non farla proseguire oltre al punto in cui l’aveva presa.

L’ottavo capitolo della saga di “Star Wars” è un film imponente, pervaso da scene d’azione spettacolari, corposo, e di certo non in grado di annoiare. Non si può certo imputare all’opera di peccare di una coinvolgente bellezza visiva. Eppure mi è sembrato un film senza una vera e propria identità, un film privo di anima. Le vicende che si susseguono sembrano carenti di un senso logico, come se dovessero accadere perché lo prevede il copione. Pare inoltre che il lungometraggio, non riuscendo a raccontare una storia interessante, cerchi di colpire e frastornare lo spettatore meno attento con improvvisi colpi di scena riguardanti solamente la morte di alcuni personaggi. Ma a parte una dipartita qua e là, cosa ci ha voluto raccontare questo autore, se autore è stato?

“Gli ultimi Jedi” è altresì il primo film del canone principale di “Star Wars” a non avere un singolo duello con le spade laser. Il confronto tra Ben Solo e Luke Skywalker si consuma, infatti, con alcuni attacchi di scherma effettuati dalla furia cieca di Kylo Ren, schivati senza alcun contraccolpo da Luke. “Gli ultimi Jedi” è un film che non centra l’equilibrio tra mitologia e innovazione, preferisce, invero, valorizzare un mutamento insensato a scapito dell’arcano. A proposito di equilibrio, già, quello stesso equilibrio tanto ricercato da Luke in persona in quel suo indagare la forza che intreccia luce e tenebre. Come il film così i personaggi stanno alle loro evoluzioni, diventando figure schiette e nitide, e pertanto prive di equilibrio. Rey, Kylo, Finn e Poe sono i personaggi perfetti per una simile storia. Essi sono così cristallini nella loro personalità o troppo buoni da toccare l’ingenuità oppure troppo cattivi da rasentare l’efferatezza. Tali personaggi sono così abili e forti da risultare imbattibili: Poe a bordo di un Ala-X fronteggia senza problemi interi caccia stellari nemici, sebbene siano superiori di numero. Rey, ancora una volta con un addestramento primordiale, compie prodigi con una forza che gli antichi maestri non potrebbero neppure immaginare, e Kylo, nella sua scelta così votata a voler far parte a tutti i costi dell’oscurità, raggiunge ciò che tanto desiderava, ovvero lo status di leader supremo, così da far gongolare il suo smisurato ego. L’equilibrio nel conflitto tra bene e male ne “Gli ultimi Jedi” è un’illusione, esistono buoni e cattivi, ed entrambi, alla fine, non hanno alcuna sfumatura. I personaggi di “Star Wars” non sono più tratteggiati con i timori, le debolezze, i tormenti e l’umanità sofferente che Lucas sapeva infondere in loro. “Gli ultimi Jedi” si prefigge l’obiettivo di tagliare i ponti col passato, ridisegnando a proprio piacimento tutto ciò che in quarant’anni era stato scolpito su pietra. Le icone classiche vengono disfatte, persino R2-D2 giace sullo sfondo, immobile, silenzioso, e solo per pochi secondi, senza mai più comparire. E come lui, anche C-3PO, personaggio che assistette coi suoi stessi occhi alla caduta della Repubblica (prima di “perdere” le sue memorie) e alla vittoria dei ribelli sull’Impero, compare di rado, soltanto per essere schernito e invitato a fare silenzio da chiunque si trovi accanto a lui. Le presenze dello “Star Wars” di un tempo paiono oramai ingombranti. E’ ormai il robottino BB-8 l’unico a poter beneficiare dell’affetto dei più piccoli.

Il finale dell’episodio VIII è ulteriormente spiazzante per quel che concerne il destino di Luke, l’ultimo grande Jedi, il quale con un certo rammarico non resta mai davvero coinvolto nelle vicende. Luke si “perderà” d’improvviso, al termine di un’ultima apparizione, divenendo un tutt’uno con la forza su quell’isola che l’ha fattivamente separato dalla sorella, il suo affetto più caro. Era questo il degno tramonto che ci saremmo aspettati per un figlio dei due soli?

  • Conclusioni

“Star Wars” è ormai una vacca da mungere alla mercé della Disney. L’episodio VIII è, per me, semplicemente un’opera che reca il nome “Star Wars” ma che non sembra più “Star Wars”. Ciononostante è infinitamente superiore a “Il risveglio della forza”; non che fosse necessaria chissà quale impresa per riuscirci. Ma “Gli ultimi Jedi”, come il predecessore, non ha quel tocco di stupore, non possiede l’inconfondibile alone di magia che Lucas sapeva conferire alle sue opere, un misto di sorprese, meraviglia e umani errori. Lucas con la sua esalogia aveva plasmato la fantasia di una realtà immaginifica, e aveva sempre raccontato nuove storie che riuscissero a combaciare le une con le altre, come fossero tessere di uno stesso puzzle. Tutti i personaggi avevano personalità differenti, e coprivano un percorso fatto di fatiche, affanni e sacrifici, e stavano ben lontani dal raggiungere la vetta della perfezione e d’invincibilità. Le novità dei suoi racconti erano sempre accompagnate da un’accurata analisi sacra e priva d’incongruenze verso i concetti astratti della mitologia. Con Lucas ogni cosa era chiara e comprensibile, tutto all’insegna della medesima magia. Dall’episodio VII in poi, escluso Rogue One, “Star Wars” è stato prima copiato e poi asservito a proprio piacimento, senza una spiegazione logica. La continuità narrativa è stata piegata alla forzatura. “Gli ultimi Jedi” è stato nuovamente un balzo nel vuoto, ma le correnti ascensionali hanno reso la mia caduta molto più lunga e sofferta di quanto avrei mai creduto. Se mi soffermo con la mente a ripassare in sequenza le scene finali de “Il ritorno dello Jedi” non posso fare a meno di rivedere l’istante in cui Luke, Leila e Han restano vicini e felici al termine della più grande delle loro battaglie. Ad oggi cosa è rimasto di quel trio? Più nulla! Cosa è rimasto degli Skywalker, il cuore pulsante della saga di George Lucas? Niente! Han Solo, dopo essersi separato da Leila, è “caduto”, Luke è svanito e presto anche Leila ci lascerà. Viene da chiedersi, a posteriori, se la storia principale meritasse realmente una prosecuzione di tal tipo, in cui i più grandi eroi di un tempo sono stati eclissati come pallide ombre e le loro battaglie combattute e vinte hanno portato poi, trent’anni dopo, a conflitti del tutto identici.

Se i primi sei episodi erano la storia di Anakin Skywalker, della sua caduta nelle tenebre e della sua rinascita tra le braccia del figlio, questa nuova trilogia è la storia di chi? Dell’impeccabile in qualunque cosa faccia Rey? Dell’instabile e iracondo bamboccio Ben Solo? Di Finn che combatte per non concludere mai nulla, oltre alla trattazione di una trama, lasciatemelo dire, alquanto scialba? Cosa è rimasto al di là del rammarico di aver visto compromessa una storia scaturita dall’ingegno di un vero autore?

Mi rivolgo a te, lettore, che magari hai apprezzato quest’ultimo capitolo, e ti dico rispettosamente: ti invidio! A te, invece, lettore, che come me hai il cuore spezzato per non aver provato le emozioni di un tempo, ti dico, sommessamente, che ti sono vicino.

Io faccio un passo indietro. Per me, “Star Wars”, cronologicamente parlando, è “cominciato” con un bambino scoperto su Tatooine e si è concluso con dei festeggiamenti su Endor. Tutto ciò che è venuto dopo sono certo che farà felice qualcun altro.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Ho sempre creduto che la genialità del creatore di "Star Wars", George Lucas, fosse riscontrabile in un singolo, stupefacente momento: in punto di morte, il redento Anakin implora il figlio Luke di togliergli la maschera cosi da poterlo vedere una prima e ultima volta coi suoi veri occhi. Che volto possiede Anakin? Che si sia o no a conoscenza circa il triste fato cui il personaggio andò incontro sul pianeta Mustafar, ogni spettatore in quel preciso istante non riesce a immaginare cosa vedrà nel momento in cui la maschera cadrà al suolo.  Un uomo corrotto tanto nell'anima quanto nel fisico, capace di annientare con estrema crudeltà chiunque tenti anche solo di opporsi al suo volere, che viso potrà mai avere? Un aspetto sinistramente serioso, crudele e spietato diremmo a una prima, impulsiva risposta. Ed è qui che troviamo il colpo di genio di George Lucas.

In tutte le scene della trilogia classica, le fattezze fisiche di Vader erano dell’attore David Prowse, eccetto che nelle scene d’azione, le quali richiedevano i servigi e l’abilità da schermidore dello spadaccino Bob Anderson. La voce profonda e metallica del signore dei Sith era invece del premio Oscar James Earl Jones. Poco prima di girare (in gran segreto stando a quanto si vociferava) la scena in cui Vader toglieva la maschera, George Lucas, sotto suggerimento di Alec Guinness, contattò l’attore Sebastian Shaw che, sottoposto a un pesante trucco del viso, presterà il proprio volto al morente Anakin Skywalker. Prowse non perdonerà mai Lucas per quanto accaduto e la rottura con il già citato regista statunitense, dopo l’uscita nelle sale della pellicola, sarà inevitabile. Ma Sebastian Shaw si rivelerà una scelta eccezionale, in particolare per l’espressività che donerà al personaggio nei pochi ma intensi istanti in cui verrà inquadrato. Nei restanti attimi che ci separano dalla visione del viso di Vader non possiamo che domandarci che volto avrà il tetro padre di Luke; ma quando la maschera verrà rimossa rimarremo dolorosamente sorpresi. Anakin ha un viso tremendamente pallido  e drammaticamente sofferente.

Un volto che emana in sommessi e lamentosi frammenti d'esistenza la tragicità di una vita esiziale, colma d'affanni, raccontata dai suoi occhi deboli e stanchi, prossimi a chiudersi per sempre. Il “cattivo” per eccellenza si rivelerà un uomo distrutto, il quale, corrotto dall’Imperatore, non ha trovato altro che dolore e sconfitta sul proprio tragitto.
Ma il culmine dell’atto finale lo si avverte esaurientemente nello sguardo di Shaw, capace d’infondere quell’aria di serena soavità e di estrema benevolenza nei confronti del figlio, senza dubbio il solo ed ultimo affetto che gli sia rimasto. Forse in quel breve volgere d’occhi è racchiusa tutta l’apoteosi della mitologia di Star Wars!

Ciò che rende così emozionante e splendido “Il ritorno dello Jedi” è custodito nel volto tumefatto di Anakin Skywalker.  Uno dei personaggi più complessi della cinematografia fantascientifica si accomiatò regalandoci lo sguardo più dolce e rassicurante che si potesse sperare di mirare, ed è in tale lascito che si riassume l’intera genialità dell’autore. Lucas ci ingannò tutti, inscenando la più articolata delle fanfaluche, quella in cui il cattivo era il personaggio che più aveva sofferto, e poco prima che il sipario calasse su quell'anima genuflessa da un dilaniante conflitto tra luce e oscurità, ci fece comprendere che l’antagonista della sua storia altri non era che il protagonista.

Lord Vader, sul finire delle proprie vicissitudini, esternerà la restante umanità che teneva sopita in lui, riservandola e riversandola esclusivamente all'emotiva attenzione del figlio, scrutandolo per la prima e ultima volta con gli stessi occhi amorevoli che avrebbe un qualunque padre dinanzi alla propria creatura.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Anno: 1971, nei cinema statunitensi esce “L’uomo che fuggì dal futuro” (in lingua originale THX 1138) la prima pellicola diretta da George Lucas, quella che per prima mostrò le sue attitudini al genere fantascientifico e la sua abilità nel creare un mondo distopico e futuristico, perfettamente plausibile e comprensibile anche agli occhi di chi lo osserva con un certo “distacco emozionale”. Due anni dopo sarà la volta di “American Graffiti” in cui la malinconia per i trascorsi anni '50 e '60 si mischierà in un agglomerato nostalgico, sorretto magistralmente da una colonna sonora indimenticabile. Negli anni '80 proprio George Lucas ideerà il personaggio dell’archeologo Indiana Jones, affidando la regia all’amico Steven Spielberg, in una trilogia (negli anni duemila uscirà anche un quarto episodio) di grande successo. Delle opere del tutto diverse tra loro, eppure, accomunate da una comune origine: essere state partoriti dalla mente di un medesimo autore.
Ma chi è, davvero, George Lucas?

Per parlare appieno della sua figura dobbiamo trattare della sua creatura più complessa e famosa, ma per farlo, dobbiamo fare un balzo all’indietro e tornare al 1977.

“Star Wars” vide la luce anche grazie al successo del precedente “American Graffiti” che indusse i produttori a dar vita al progetto tanto desiderato da Lucas stesso. Il 1977 segnò l’inizio di una Space Opera che accompagnerà Lucas in una lavorazione impegnativa e indimenticabile per quasi trent’anni. A Star Wars (in seguito ribattezzato Episodio IV – Una nuova speranza) seguirono “L’impero colpisce ancora” e “Il ritorno dello Jedi” (futuri episodio V e VI). Il culto che si erse attorno a quella che oggi conosciamo con il nome di trilogia classica fu dettato, principalmente, dal potere evocativo e fantastico che l’opera riuscì ad emanare, meravigliando il mondo intero per gli innovativi effetti speciali, per la trama ricca di colpi di scena, e per le tematiche, semplici ma ugualmente complesse, nel mostrare lo scontro tra il bene al male, una ribellione a un’oppressione dittatoriale e il rapporto di rimorso e sofferenza del celebre personaggio di Darth Vader, dapprima antagonista della trilogia, in seguito assoluto protagonista della saga. Con l’enorme successo che ottenne il primo film in ordine di produzione, Lucas divenne milionario grazie soprattutto alle sue spiccate intuizioni di marketing, che gli permisero di fondare la LucasFilm, casa di produzione con cui poté, con i diritti d’autore, ottenere ogni ricavato possibile delle sue successive opere. Con la fondazione della Lucasfilm e della LucasArt, poté inoltre produrre una moltitudine di gadget e videogiochi legati all’universo di Star Wars, che spopolarono tra i collezionisti e gli amanti della saga, ampliando i ricavati dei suoi lavori.

La fine degli anni ‘90 e le migliorie avvenute nel settore degli effetti speciali, spinsero Lucas a riprendere la lavorazione sulla sua opera più celebre, avendo da sempre avuto in mente l’idea di esplorare la mitologia di Guerre Stellari e di mostrare ciò che era accaduto prima di Episodio IV:  gli anni della Repubblica e della sua successiva decadenza, i Jedi nel loro massimo splendore, l’ascesa dell’Imperatore Palpatine e, naturalmente, la caduta di Anakin Skywalker nell’oscurità. Cominciò così a lavorare alla stesura dei copioni che avrebbero formato la cosiddetta Trilogia Prequel, una serie di tre nuovi film che avrebbero delineato la tragedia di Darth Vader nella sua trasformazione. La nuova trilogia verrà interamente diretta da Lucas stesso, potendo vantare effetti speciali all’avanguardia, ben superiori ad ogni altra pellicola del periodo.
Gli episodi I-II e III non otterranno il plauso universale dei vecchi fan (che a mio modesto parere provavano aspettative fin troppo irragionevoli e irraggiungibili) pur creandone di nuovi, ma vanteranno invece enormi incassi ai botteghini, ottenendo anche un significativo apprezzamento de parte della critica per il terzo e, a quel tempo, conclusivo episodio della serie (Star Wars Episodio III - La vendetta dei Sith).


La nuova trilogia emanò, dal canto suo, suggestione visiva e potenza combattiva affascinando molti spettatori con i coreografici e spettacolari duelli con le spade laser. Le articolare dinamiche politiche che porteranno alla caduta della Repubblica e allo scoppio della Guerra dei Cloni saranno dei momenti decisivi per l’evolversi della storia che si riallaccerà, senza particolari incongruenze, alla trilogia classica. Da contrappunto romantico allo scenario battagliero, venne mostrata la tragica storia d’amore tra Anakin (Hayden Christensen) e Padmé (Natalie Portman) che portò allo straziante cambiamento del padre di Luke (Mark Hamill) e Leia (Carrie Fisher). Con la trilogia Prequel, Lucas amplificò la propria mitologia, inventando mondi nuovi, pianeti concepiti con un solo e vasto ecosistema e ricreando creature dall’aspetto variegato.  Al termine di un lavoro cominciato nel 1977 e terminato nel 2005, la storia completa della saga e rappresentata nella sua interezza tramite l’esalogia di Star Wars poté essere ritenuta una delle più emozionanti della storia del cinema.

Le spade laser, il credo religioso dettato dalla celebre frase “che la forza sia con te…”, i Jedi, il lato Oscuro e molto altro, sono caratteristiche peculiari della saga, ampiamente riconoscibili anche dal fan meno esperto; ma la maestria di Lucas e dei suoi collaboratori non si fermò a questo. La saga di Star Wars ebbe il merito di creare, lungo l’arco narrativo dei sei film, un universo capace di abbracciare i campi interpretativi più disparati.

La religione fu uno degli elementi principalmente trattati, alimentata dal credo in una forza unificatrice e rievocata dall’immacolata concezione di Anakin che rivisita la nascita del Cristo, una figura sacra, mistificata come fosse il messia di un ordine che cederà alle tentazioni di un diavolo portatore di morte (l’Imperatore).

La filosofia etica e morale fu un’altra strada che la Space-Opera decise di percorrere: il rapporto uomo – macchina tanto discusso nella figura di Vader, la morte e la resurrezione su Mustafar, il passaggio generazionale tra il padre e il figlio che spesso prenderà le pieghe di un destino comune che sembra gravare sul fato tanto del genitore quanto del discendente.

Ebbe una resa d'altrettanto spessore la sfera politica e storica, vivida con le sue molteplici sfaccettature dittatoriali e i passi di una rivoluzione agognata, inseguita e perpetrata da un popolo ribelle e democratico che si oppone al potere tirannico.

L’aspetto fiabesco di base fu quello maggiormente esaltato: l’eterna sfida tra il bene e il male, concetto che, per come verrà trattato, andrà ben oltre la più semplicistica dicotomia non palesando soltanto schieramenti tra due fazioni, ma analizzando il tormento interiore che dilania l’anima di Darth Vader. L’amore, il rimorso, l’affetto, l’attaccamento sono al centro del progetto, e rappresentano il cuore di Star Wars. Se questa saga ha raggiunto e mantenuto un tale successo per anni non dipende solo e certamente dalle battaglie nello spazio, ma sono i personaggi, le loro sofferenze, i loro amori e le loro speranze compiute o drammaticamente fallite, a rendere quest’opera così unica e impareggiabile.

George Lucas ha dedicato gran parte della sua vita all’universo di Star Wars, curando non soltanto l’esalogia cinematografica, ma anche una serie d’animazione in digitale, ben accolta dal pubblico e dalla critica, durata sei stagioni e ambientata tra il secondo e terzo film della serie, in piena guerra dei cloni. L’universo da lui creato non ha mai conosciuto limiti esplorando anche l’arte del fumetto e delle Graphic Novel.

Questo mondo fantascientifico è entrato talmente tanto nell’immaginario collettivo da venir interpretato (erroneamente) come un prodotto del popolo più che del suo creatore. Per anni i fan più morbosi hanno creduto di conoscere la saga di Star Wars meglio di chi l’ha plasmata, affermando di scindere le scelte narrative giuste da quelle sbagliate ben più di Lucas stesso. E’ questo pensiero purista che ha portato a critiche esagerate e ingiustificate impedendo a molti di apprezzare tutto ciò che veniva mostrato per ampliare la mitologia di un universo così vasto, vero e proprio elogio alla fantasia umana. La figura di Lucas da molti è stata sia venerata che offesa, rea di aver creato un mondo così penetrante da indurre i suoi stessi fan a non riuscire a discernere la gratitudine per ciò che possono amare, dall’attaccamento morboso a ciò che rappresenta per loro Guerre stellari. 

Star Wars è da ritenersi una mitologia amalgamata alla realtà intima di ogni singolo fan.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Comincerò in maniera sincera, esternando le mie personalissime difficoltà nel comporre questa recensione: credo sia difficile parlare in maniera definitiva del settimo episodio della saga di Star Wars. Perché è un film costruito a regola d’arte per rendere arduo un giudizio estetico. Il primo capitolo della trilogia sequel è stato realizzato con l’accenno continuo per rievocare l’emozione già vissuta. Ci si incammina su un binario già percorso per la paura di provare un viaggio diverso. Diventa di conseguenza ostica la scelta del metro di giudizio da adoperare, poiché giudicare qualcosa che ti rimanda a vecchie emozioni passate è una furberia mal celata. D’altronde l’originalità può essere soggetta ad apprezzamento o a disprezzo, ma la nostalgia a cosa può essere soggetta?
Lo considero un buon film, se lo si estrapola dal canone degli altri episodi risulta addirittura un gran bel film d’avventura e d’azione sci-fi. Il problema di fondo da analizzare nella stesura di una critica cinematografica a quest’opera è che non si può omettere il sottotitolo “Episodio VII”. Ed è questo il punto!

Ma nonostante il delirante citazionismo al passato e il molesto rimando nostalgico, il comparto tecnico, registico e interpretativo (tranne qualche caso) del film resta di buon livello. Star Wars VII è ancora Star Wars, ma è anche un’occasione persa. Mancata per la troppa paura. Sentimento preponderante che l‘ha reso ai miei occhi un film senza infamia e senza lode. Perché uso questa definizione? Perché credo sia quella più aderente al dato oggettivo. Il lungometraggio pur reggendosi su ritmi adrenalinici, pur intrattenendo lo spettatore e omaggiando il suo essere fan, non propone alcuno scenario innovativo interessante. Si limita allo stretto indispensabile. Non ricerca la lode ma non cade nell’infamia. Ricicla. Ricicla schemi, situazioni e idee già sfruttate; richiama e rimette in scena vecchi espedienti narrativi e in maniera neanche velata: al contrario. Abrams desidera infatti che lo spettatore sobbalzi sulla poltrona e urli: “Guardaaaa! E’ come quando…”. Il cineasta confeziona un pacchetto con una fatiscente carta regalo, che una volta strappata rivela un ulteriore involucro ancora bello e desiderabile, ma, e qui risiede il difficile giudizio da motivare, si tratta di un oggetto che già avevamo nella nostra collezione. Ed è un piccolo oggetto del tutto simile ad una precedente edizione, differendo soltanto in qualche dettaglio. Potrebbe essere il riassunto universale della critica al consumismo. Ma il cinema non è solo prodotto per il Box-Office. Il cinema è un’arte. Star Wars in particolare è pur sempre fantascienza (con una massiccia dose di fantasy), e la fantascienza dev’essere sempre l’esplorazione del mondo ignoto, non deve mai rimasticare il cibo già gustato poco prima.

Ma il film sopporta stoicamente l’epidemia nostalgica e cerca di curarla dosando l’eroismo femminile incarnato in Rey. Lei è il vero assoluto punto di forza del sequel de “Il ritorno dello Jedi”. Abbandonata su un pianeta desertico, nella perenne, rassegnata attesa di un padre e di una madre che non torneranno più. Si imbatte in un droide, che reca con sé un dato segreto: un frammento della mappa che può condurre a Luke Skywalker. Inizia il viaggio della nostra protagonista, l’avventura della nostra nuova compagna che irrimediabilmente dovremo imparare a conoscere in divenire, tra passato e futuro. Ma Rey domina la scena e l’intero film riuscendo a brillare pressoché in ogni fotogramma. Perché Rey riesce ottimamente in qualunque cosa, apparendo alle volte fin troppo perfetta. Ma si è risvegliata. La forza si è risvegliata in lei e la porta all’eccessiva capacità di ribalta.

La regia di Abrams si mantiene ad alti livelli per gran parte dell’opera. I primi cinquanta minuti scorrono con una velocità rispettabile, immergendoci immediatamente in un’atmosfera da film action sci-fi più che da film di Star Wars. Gli inseguimenti stellari a bordo di caccia Tie Fighter e la fantastica fuga di un Falcon abbandonato restano sequenze ad altissimo livello d’intrattenimento, dove la spettacolarizzazione dell’immagine si antepone alla spiegazione socio-politica di ciò che stiamo effettivamente vedendo. Sono passati trent’anni dalla morte dell’Imperatore e dalla caduta dell’Impero. Ma la prima ora non sembra mostrarci alcuna differenza. Né a livello politico né a livello conflittuale.

Ed è qui che si consuma la primissima nota dolente del film. Il conflitto che andremo a seguire e le fazioni per cui andremo a fare infantilmente il tifo riguardano un conflitto già visto. In due minuti netti la Repubblica, rimessa in piedi con il sangue e il sacrificio eroico della Ribellione in tre film, viene polverizzata. Il primo ordine, sorto dalle ceneri dell’Impero, rivitalizza la guerra opponendosi alla Resistenza, esercito risicato della Nuova Repubblica. Pur di farci vivere il medesimo conflitto della trilogia classica, Abrams spazza via ciò che si era compiuto in un finale strappalacrime, per rendere possibile una guerra reinterpretata in ugual modo negli anni 2016, con gli stessi mezzi usati trent’anni prima. E’ ancora Impero contro Alleanza. Sono ancora le medesime guerre stellari. E’ un allucinante copia-incolla. Questo punto fondamentale nega al film qualsivoglia giudizio lodevole per porlo nel girone “dell’ignavo autorevole” che non aggiunge niente di suo. Ed è un peccato. Perché ciò che si vede nell’arco del film poteva e doveva meritarsi un qualcosa di nuovo, in modo da poter ambire a un giudizio solare e incantato. Abrams si affida ad Episodio IV anche per il metodo di narrazione. Non spiega nulla. Non rimarca mai ciò che in trent’anni è successo. E’ così e basta. Ma questo andava bene nel cinema anni '70, dove la magia e la meraviglia soverchiavano la spiegazione razionale. Questo modo di raccontare, disseminando misteri per depistare l’attenzione, non funziona più. Perché la gente oggi è avvezza a questo genere cinematografico consolidato da anni. Il film di Abrams non sta al passo coi tempi, anche per quest’ultimo aspetto si affida alla nostalgia. E non è un caso che i fan, invece di dibattere su ciò che hanno effettivamente visto, abbiano piuttosto cominciato a discutere su ciò che ci si deve aspettare dai prossimi film per ottemperare alle lacune lasciate in sospeso da Abrams stesso, che in un seguito di un film del 1983 non rilascia alcuna spiegazione.

E’ l’intero film ad oscillare dal coinvolgimento emotivo verso ciò che di concreto vediamo, al rimando nostalgico che si concretizza in un continuo perpetrarsi di strizzatine d’occhio o battute telefonate. Il richiamo al parsec del Falcon, la scacchiera, i cannoni su cui sedeva Luke, Solo indebitato con alcune fazioni malavitose, la cantina di Maz Kanata che rimanda a quella di Mos Eisley, la stessa Kanata che riprende le parole di Yoda, Kylo Ren che sente Han come Vader risentiva la presenza di Obi-Wan sulla Death Star, il salvataggio della protagonista femminile sulla Morte Nera, la disattivazione degli scudi, l’accenno al compattatore di rifiuti, la distruzione della terza, TERZA Morte Nera che ancora una volta stava per annientare la sede dell’alleanza con Leia al suo interno e che ancora una volta possiede lo stesso punto debole delle precedenti. E quasi dimenticavo il droide con dei file segreti e il pianeta desertico. Davvero troppo! Quando poi persino la trama si sovrappone a quella già vissuta, il tutto diventa un assurdo gioco a chi ricorda più il passato.

Kylo Ren immobilizza e aumenta la tensione nello spettatore durante la prima metà del film, riuscendo a risultare credibilissimo nei panni del nuovo antagonista. La sua dote nella forza, la sua efferatezza si dimostrano caratteristiche intimidatorie e minacciose. Dalla seconda metà, con precisione, dalla scena in cui toglie la maschera, inizia il crollo totale del personaggio. Menziono la scena in questione che probabilmente è l’unica scena che trovo davvero girata male del film. Forse volutamente. Per rendere più incisiva la demarcazione tra il Kylo Ren del lato oscuro e il Ben Solo, ragazzo tormentato e instabile, del lato chiaro. Quando Rey è pronta a vedere il volto di Ren, le inquadrature dovrebbero creare il giusto pathos per una scena culminante come questa. Si limitano invece a due sequenze dove Driver rivela il proprio viso e non può far altro che interpretare la parte senza il minimo aiuto registico e musicale. Non vi è infatti nessun accompagnamento musicale degno di nota a una scena talmente divisoria. Una scena così importante viene lasciata ad un semplice “toglie e via”. Il cattivo non è più così minaccioso. Ma non per demeriti propri, quanto per scelte registiche troppo semplici prive di tensione emotiva. Kylo Ren comincia a inanellare fallimenti clamorosi, rivelando volutamente una natura fragile, isterica e tendente alla dualità schizofrenica. L’antagonista passa così dalla potenza iniziale al dramma del caduto fino a incarnare una patetica emulazione devota soltanto all’ammirazione di una leggenda, mai dimostrando una vocazione propria al lato oscuro, quanto un desiderio di farne parte a tutti i costi. Il nemico si fa compatire fin da subito. Non si porta dietro nessun alone di mistero. Dovrà formarsi, ma in questo film sarà destinato a subire cocenti sconfitte da parte di Rey che lo ferirà al volto dandogli solo in quel momento una degna motivazione per indossare un elmo scenografico (bellissima a tal proposito l’atmosfera del duello nella neve). La scena dove il lato oscuro sembra finalmente abbracciare completamente Ben è girata ottimamente, usufruendo anche di un bellissimo gioco di luci: dapprima chiare durante il dialogo con il padre, successivamente oscure e rosse al momento del parricidio.

La battaglia finale per la distruzione della morte nera è priva di mordente, si svolge in fretta e con una semplicità disarmante. Il motivo per cui è stata inserita questa base come minaccia mi è ancora ignoto. Ma la grande assente del film resta comunque la musica. A parte il bellissimo tema di Rey, udibile per pochi secondi in due ore e dieci di visione, non vi è nessun brano epico e coinvolgente. Gravissima mancanza per una saga che ci ha abituato a colonne sonore come “Duel of fates”, “Across the stars” “Battle of Heroes” e la “Marcia imperiale”. L’opera si regge moltissimo sull’interpretazione semplicistica di Daisy Ridley e su quella di Harrison Ford, non tanto per una indimenticabile performance di quest’ultimo, quanto per il suo rivederlo nei panni dell’adoratissimo Han, che pronunciando la frase “siamo a casa” al fianco di Chewbe, avrà fatto scendere ben più di una lacrima ai fan come me. Ma il suo resta un Han stanco, persino separato dall’amata Leia che al termine della vecchia trilogia era diventata il suo mondo, ormai un pallido ricordo da salutare prima dell’addio. 

Il film mantiene nella sua indipendenza un ottimo equilibrio di azione, avventura, esplorazione e umorismo. Si, una comicità piuttosto banale ma non infantile. Una scelta ideale dato che l’ultimo film della saga uscito al cinema nel 2005 era del tutto privo di ilarità, dovendo affidarsi ai canoni drammatici della trasformazione di Anakin in Vader. L’assenza di personaggi di spessore come Obi-Wan, Yoda e Palpatine si fa sentire, sublimandosi nell’intensa mancanza dell’assoluto cardine della saga: Anakin Skywalker/Lord Vader. I rimandi alla sua figura sono piuttosto evidenti ma non riescono ad attenuare il vuoto procurato dalla sua scomparsa. Il nuovo mito è Luke, l’ultimo degli Jedi. Ma elevare Luke a leggenda è una scelta capibile ma non profonda, poiché Luke stesso era un personaggio piuttosto semplice, il classico buono stereotipato perno della trilogia classica su cui ruotava la vicenda che vedeva comunque al culmine non lui ma ancora Vader. Se Luke viene elevato a Dio è perché forse tutto il resto è minuto.

“Il risveglio della forza” è comunque godibile e divertente. Ma lascia l’amara sensazione dell’occasione sprecata. La paura di osare è evidente e l’escamotage narrativo usato da Abrams dà l’impressione di aggirare l’ostacolo e di prender in giro lo spettatore meno attento. Mr. Fanservice compone una fan-fiction destinata a tenere calmo e sedato il fandom, realizzando un remake di “Una nuova speranza”: puro, semplice e ottimo intrattenimento. Non vi è neanche l’ombra di messaggi profondi o scelte autoriali. L’addio al progetto del creatore George Lucas, si nota inoltre nella totale mancanza di scenari fantastici e di ecosistemi variegati e splendidi. Ammiriamo sostanzialmente tre pianeti che richiamano ad altrettanti già visti. Nessuno stupore e nessuna immagine memorabile. Pecca piattissima considerando la potenza degli effetti visivi del cinema contemporaneo. In conclusione spero che nei prossimi capitoli si volti definitivamente pagina lasciando il passato alle spalle quanto basta.

Il film a livello tecnico resta un punto molto alto raggiunto dalla saga, ma a livello di trama, questo lungometraggio tocca il punto più basso di tutti i film dell’epopea della galassia lontana lontana...

Voto: 6/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Era solo un dettaglio. Il particolare di una trama a cui non davo poi chissà quale peso perché fin troppo concentrato sugli sviluppi successivi, legati proprio a quel piccolo accenno che un film di quasi quarant’anni fa “recitava” per voce diretta dei personaggi a partire già dalle primissime sequenze. “Dove sono i piani che avete rubato?” -  domandava con rabbia una figura avvolta in una nera armatura, e il volto coperto da una maschera da cui fuoriusciva con ritmi regolari un angoscioso respiro. Su questa “minuzia” si pone il lavoro del 2016, dello spin-off “Rogue One”: come sono stati rubati i piani della Morte Nera? Quella stessa stazione spaziale che in Episodio IV possedeva la capacità di distruggere un intero pianeta con un solo colpo. Su quella sfumatura che Lucas, al tempo, ridusse astutamente a un semplice rimando, si perpetra l’esplorazione del regista Gareth Edwards, che attinge al passato mantenendo costantemente un occhio vigile sul presente e su quell’imminente “futuro” che sarà per l’appunto il lascito conclusivo che dovrà inevitabilmente recare in sé questo film: essere l’anello di congiunzione con l’intro de “Una nuova speranza”.

“Rogue one” è un’opera autoconclusiva, consapevole fin dalla propria concezione di avere un solo colpo in canna, e che dovrà mirare alle passioni più profonde dei fan con la mano ferma di un infallibile cecchino. Avrà a disposizione una sola pallottola, non potrà permettersi di sbagliare o addirittura adagiarsi sugli allori e sperare di raccogliere quanto ha seminato in un prossimo sequel. Dopotutto, il seguito di tale lungometraggio esiste già dal 1977. L’arte di questo primo spin-off dell’universo di “Guerre stellari” è fuggevole, un artificio destinato a nascere e a morire in poco più di due ore. Ma “Rogue one” non teme la parola “fine”. Anela alla propria conclusione, perché come i suoi stessi protagonisti vive per ciò che lascerà e non per quello che dovrà fare e rifare più e più volte. Questo primo “volume” antologico su “Star Wars” espande la mitologia creata da George Lucas, ma non la intacca affatto, vuole soltanto allargarla e mostrare nuovi orizzonti paralleli al filone principale della storia degli Skywalker.

“Rogue one” si regge sull’emotiva espressività di Felicity Jones, la Jyn Erso protagonista della pellicola, una ragazza dalla fronte ampia e dalle labbra carnose, che hanno tenuto fissi i miei occhi sul quel suo parlato e su tutto ciò che ha voluto comunicarmi dall’inizio alla fine della sua storia. Jyn è la figlia di Galen Erso, un prigioniero dell’Impero Galattico costretto a costruire la Morte Nera, l’arma che assoggetterà definitivamente l’universo al volere di Palpatine e spazzerà via i resti della ribellione. Il film nel suo sviluppo finalmente torna a quel viaggio esplorativo, tanto amato da George Lucas, quello, dove i pianeti di questo fantastico cosmo vengono mostrati con continuità, e ognuno di essi reca sempre nel suo habitat un qualcosa di unico, di “distintivo”; oserei definire questo qualcosa come una “natura identificativa”, tipica della flora fittizia di “Star Wars”. La lente si focalizza sul clima teso e intollerabile di una dittatura distopica, che colpisce e schiaccia  la gente comune, che non lascia adito ad alcuna scintilla che potrebbe innescare un anelito di libertà e di democrazia. E’ incredibile a dirsi, ma ciò che secondo me è gravemente mancato in Episodio VII, sequel della storia principale, è invece stato prontamente riportato in auge in uno spin-off a sé stante. In un seguito ambientato trent’anni dopo gli eventi de “Il ritorno dello Jedi” mi sarei volutamente aspettato di comprendere le dinamiche della Repubblica e il clima disteso di una pace ritrovata dopo anni di interminabili conflitti. A noi tutti non è stato permesso, poiché ne "Il risveglio della forza" siamo stati immediatamente calati in una realtà fatta di rimandi e strizzatine d’occhio, con evidenti strascichi di un tempo che sembrava essersi fermato, come se nulla fosse cambiato. Una scelta che ad altri potrà essere piaciuta ma che a me ha lasciato un retrogusto piuttosto amaro. “Rogue one”, invece, ci riporta in un mondo che, rammentando la cronologia all’interno della saga, sappiamo di conoscere, ma che guardiamo con un occhio diverso, avvertendo sensazioni che non credevamo di poter rapportare con quel periodo di guerra spaziale. Il cineasta omaggia il passato, invitando a partecipare il Bail Organa visto in Episodio II e III, padre adottivo di Leia e grande amico di Obi-Wan Kenobi, ricordato dallo stesso Bail come un grande guerriero durante le guerre dei cloni. Il rimando all’ormai anziano cavaliere Jedi fa invece da preludio al prossimo futuro in cui Obi-Wan riceverà la richiesta d’aiuto, quale unica “speranza” della principessa che nasconde in R2-D2 i piani appena rubati da Jyn e il suo gruppo. Edwards, pur divertendosi anch’esso a disseminare “easter egg”, non dimentica mai di tenere il timone della propria nave fermo sulla rotta prestabilita: quella della novità, dell’approccio diverso, e per me assolutamente ben accetto.

I personaggi sanno di essere degli eroi di passaggio e non eccedono in caratterizzazioni orchestrate ad arte per piacere allo spettatore, si limitano, invece, a rispettare i canoni del loro volere, e ci riescono appieno. Si battono per un ideale, un futuro che non potranno vedere ma lo fanno per "noi". Sanno di non poter essere amati come gli eroi presenti nel resto dell’epopea di Star Wars ma gettano comunque il cuore oltre l’ostacolo, battendosi per rubare quei piani che saranno il fulcro della prima vittoria dei ribelli sull’Impero. “Rogue One” è un film di guerra, quella sporca, logorante, combattuta nelle “trincee sabbiose”, in cui i veicoli tanto cari a noi fans abbracciano la magnificenza degli sbalorditivi effetti speciali degli ultimi anni. Gli Ala-X volano tra le stelle fronteggiando i caccia stellari in scene d’azione mozzafiato, mentre sulla terra i nostri eroi cadono uno ad uno chiudendo i propri sguardi su quell’arma che avrebbe garantito la fine di ogni libertà, ma che grazie ad essi non avrà vita lunga, poiché Jyn sarà la prima portatrice di quella “nuova speranza” che Obi-Wan e i ribelli ricercheranno in Luke e Leia.

Le forze oppositrici sono ancora quelle più comuni, su un fronte il bene sull’altro il male, ma l’impronta umana che il regista dedica alla costruzione della morte nera non può che destare ulteriore interesse. Il padre della nostra protagonista è un uomo costretto a costruire un’arma portatrice di morte, e proprio per questo ha lasciato una falla, un “tallone d’Achille” che può essere sfruttato se i piani finiranno in mano ai ribelli. Viene fuori un’attenta analisi a ciò che è stato fatto prima e durante la costruzione di questa stazione da battaglia, creata non soltanto dai seguaci dell'Impero, ma anche da uomini fatti schiavi e pertanto inevitabilmente sofferenti. L’amata figlia di Galen riuscirà a rubare i già citati piani, chiamati con il nome in codice di “Stellina”, il soprannome affettuoso con cui Galen chiamava un tempo la sua piccola bambina, prima che venisse strappato da lei e portato via dalla sua dimora. Il rapporto d’amore e quel senso di mancanza tra Jyn e Galen potrebbe venire reinterpretato, a mio giudizio, in un riadattamento di un possibile rapporto mai mostrato sullo schermo tra Anakin e sua figlia Leia. Vader, nella trilogia classica, concentrò gran parte delle proprie attenzioni sul figlio Luke, venendo a conoscenza dell’esistenza della figlia soltanto pochi istanti prima di spirare; chissà se invece Anakin fosse riemerso dall’oscurità tra le braccia della figlia… Avremmo forse assistito ad una scena simile a quella che vediamo alla morte di Galen, spentosi tra le braccia di Jyn?!

Il momento conclusivo è quello alimentato dal maggior pathos, in cui Jyn brilla proprio come una stella, lasciandosi andare in riva al mare stretta in un abbraccio di commiato con un altro ribelle che si è battuto fianco a fianco a lei. La morte sopraggiungerà su queste due anime: le anime di un eroe e un’eroina di cui si saprà ben poco negli annali storici di quella galassia, ma da oggi l’eco delle loro gesta riecheggerà nei cuori di noi spettatori che abbiamo assistito al loro sacrificio.

“Rogue One” è il film che riporta addirittura “in vita” la figura del Grand Moff Tarkin, interpretato da Peter Cushing, morto da circa ventidue anni. Un effetto speciale stupefacente che non può che lasciarci sbigottiti da una parte ma intimoriti dall’altra, suscitando l’inquietante interrogativo su cosa e fino a che punto si potrà spingere la tecnologia moderna, capace di sostituire completamente gli attori in carne ed ossa. Non posso che reputarlo però un omaggio straordinario all’attore che recitò nel primo “Guerre stellari”, sbarcato al cinema in ordine di produzione. Persino Carrie Fisher ritrova le proprie giovani fattezze nella scena finale, tornando ad essere la principessa Leila (o Leia se preferite) con indosso il bianco vestito dell’Episodio IV.

Darth Vader dipinto di di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ma “Rogue One” verrà ricordato soprattutto perché è il film che dopo undici anni ha riportato sul grande schermo Darth Vader. La maestosità del personaggio cardine di “Star Wars” è plateale sin dal suo esordio in quest’ultima avventura: legato ad alcune apparecchiature e immerso nell’acqua temprante e rigeneratrice, con il corpo mutilato così come visto in Episodio III e il volto ferito e deturpato, velato soltanto dal vapore acqueo. Questa breve ma intensa scena è tratta da alcune tavole presenti nella letteratura a fumetti di “Star Wars”. Il suo respiro si ode sin da subito, per poi lasciare il posto al suo palesarsi nella sua interezza. Vader emerge dalla luce e avanza verso di noi con fare sinistro ma al contempo regale. Il prescelto dei Jedi e il signore oscuro dei Sith ritorna in un attacco battagliero finale, celato nel buio, quando il suo respiro fa da esordio al suo apparire, e l’accensione della sua rossa spada laser è il preludio di un epico combattimento che vedrà Vader, al massimo della potenza, fronteggiare un intero plotone di ribelli, che nulla potranno contro la sua cieca furia. La sola presenza di Vader, concentrata però in solo pochi minuti, accresce comunque a dismisura il valore emotivo del film in sé.

“Rogue One - A Star Wars story” mantiene quindi i principi secondo cui è stato creato: raccontare una storia; solo una e basta! Ma lo fa con un piglio tutto suo, con un proprio stile, ricercando un’originalità estetica, già partendo dai diversi titoli d’apertura. E’ un film che sa cosa vuole comunicare e non ha paura di farlo, non affidandosi continuamente al bieco fanservice. “Rogue One” ritrova il coraggio di osare, fonte inesauribile del successo di “Star Wars”; e lo fa con la sua protagonista, Jyn, che non sarà una luminosa stella come furono Anakin Skywalker/Darth Vader e Luke nelle passate trilogie, ma conquista comunque un posto d’onore nel cielo stellato della galassia lontana lontana pur restando soltanto una stellina, magari anche splendente e luminosa. Ma proprio perché così unica e rara sarà sempre facile scorgerla nel firmamento sconfinato: mi basterà solamente alzare lo sguardo per riconoscerla.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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