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Martin Brody (Roy Scheider) sostava da qualche minuto, insieme al biologo marino Matt Hooper (Richard Dreyfuss), nella casa del rude cacciatore di squali Quint (Robert Shaw). Erano in atto gli ultimi preparativi per la partenza. I tre si apprestavano, infatti, a salpare dal molo più vicino con l’imbarcazione denominata “Orca”. La caccia al grande squalo bianco che, nelle ultime settimane, aveva seminato il panico tra le spiagge dell’isola di Amity, stava per avere inizio. Da giorni, Brody si era battuto per convincere il sindaco Larry Vaughn (Murray Hamilton) a chiudere le spiagge, riuscendo nel suo intento solamente quando lo squalo aveva già mietuto diverse vittime tra i bagnanti. Vaughn non ne voleva sapere, la stagione turistica estiva rappresentava la fonte economica primaria per il sostentamento della cittadina balneare.

Uno dei tanti battibecchi tra Brody e il sindaco della ridente località, sul fatto d’interdire o no le spiagge ai numerosi turisti, avviene proprio su di una zattera, in cui il primo cittadino, ironia della sorte, indossa una giacca con chiari riferimenti marinareschi, tante piccole ancore stilizzate. Un che di simbolico, in quanto il sindaco, sin da subito, si dimostrerà uomo ancorato alle proprie ferme volontà, arroccato sulle proprie convinzioni come fosse un ormeggio, saldo e inamovibile come una bitta.

Brody dava l’idea d’esser teso, quasi intimorito a ridosso della partenza. Fin da bambino, egli provava una paralizzante paura per il mare. La talassofobia è irrazionale, ma Brody non può fare a meno d’avvertirla come una morsa che gli divora lo stomaco. Il mare custodisce un mondo misterioso, e nelle giornate ventose, esso si mostra agitato, inquieto, e i suoi cavalloni gonfi e tumultuosi esacerbano nell’animo del protagonista la paura di affogare. Brody nell’intraprendere quest’avventura in mare combatte anche contro se stesso, contro una paura atavica incarnatasi nella grande “bocca” dello squalo bianco.

Hooper, dal canto suo, adora il mare e tutto ciò che ruota attorno ad esso. L’universo marino, costituito da una variegata flora e fauna, da sempre incanta i suoi sensi e seduce le sue attenzioni. Quando non era che un ragazzino, durante una battuta di pesca, Hooper si imbatté in uno squalo che tentò di ingurgitare il natante sul quale navigava, partendo dai remi per poi proseguire con gli scalmi. La peripezia non lo turbò, anzi fece nascere in lui una curiosità di carattere scientifico, che sfociò poi verso lo studio del comportamento di questi straordinari animali.

Le pareti dell’abitazione di Quint “brulicavano” di resti scheletrici di pescecani. Grandi fauci schiuse campeggiavano caoticamente ovunque gli occhi del poliziotto e del biologo marino posassero lo sguardo. Dagli angoli e nei pressi di una scala di legno che conduce al piano superiore, reti da pesca annodate e palamiti aggrovigliati spuntavano come bislacche suppellettili. Non era certo un arredamento ospitale quello, piuttosto un tripudio scenografico di trionfali “predazioni”. Quell’uomo aveva affrontato dozzine di squali appartenenti alle razze più disparate e li aveva uccisi tutti, collezionando poi ciò che restava di loro. Su di un tavolino posto vicino ad una finestra che si affaccia sul mare, era possibile intravedere le copertine colorate di alcuni libri. In particolare, un piccolo tomo giaceva aperto su di un gradino della scala. Quint era un assiduo lettore? Che libri erano quelli conservati negli spazi liberi della sua dimora?  Volumi dedicati esclusivamente alla pesca?

Sovente mi domando se questo solitario, arcigno e caratterialmente instabile cacciatore, adattato nell’opera filmica dalla fantasia immaginifica di Steven Spielberg, durante tutta la sua vita, abbia mai letto “Moby Dick”.  Di certo, Quint avrà conosciuto la storia scritta da Herman Melville, e forse avrà avvertito, in cuor suo, una sorta di vicinanza empatica nei confronti del protagonista di un classico della letteratura americana.

Quint somiglia al Capitano Achab, colui che condusse un’esistenza amara, nutrendosi soltanto con l’algido sapore della vendetta. Achab visse nell’ossessione di stanare e uccidere l’immensa balena bianca che gli strappò, a morsi, la gamba, riducendola brandelli di carne morta. Mutilato nel corpo e distolto nello spirito, Achab non poteva neppure reggersi in piedi fintanto che non si piantò una protesi ricavata dalla mascella di un vecchio capodoglio che gli permise di proseguire la sua disperata ed estenuante caccia. Achab non dimentica il passato, sopravvive prostrato ad un trascorso che non può cancellare. Similmente al Capitano, Quint ha tentato di obliare la parte più sconcertante del proprio vissuto, senza mai venirne a capo.

Il Capitano Achab e Moby Dick

 

Una notte, mentre l’Orca manteneva la posizione, attendendo la comparsa dello squalo, Brody, Hooper e Quint si intrattenevano a consumare un frugale pasto in cabina, evocando ricordi andati e ferite del passato mai del tutto rimarginatesi. Le cicatrici possono narrare un avvenuto doloroso, talvolta perseguitante. Tra tutte le lacerazioni subite e mantenute dal rigido e insondabile cacciatore, ce n’è una che lo tormenta più delle altre. I segni sulla sua epidermide vecchia e rugosa sono evidenti e testimoniano il tentativo dell’uomo di rimuovere il tatuaggio che indicava la sua appartenenza all’equipaggio dell’USS Indianapolis. Quint comincia così a raccontare la propria triste disavventura.

L’imponente incrociatore della marina statunitense passò alla storia per le vicende legate al suo tragico inabissamento. Utilizzato dall’esercito americano per il rischioso e segretissimo trasporto dell’involucro di uranio della prima bomba atomica, l’incrociatore fu colpito da due siluri sganciati dal sommergibile giapponese I-58, i quali devastarono la fiancata della nave. Finirono in mare 900 persone e lì rimasero, in balie delle onde, per una settimana, senza cibo e con esigue scorte d’acqua. Alcuni dei naufraghi impazzirono, si spensero per disidratazione, molti altri, invece, vennero divorati dagli squali. Attirati dalla tremenda deflagrazione, ma anche dal movimento dell’acqua provocato dalle tante braccia e gambe dei poveri marinai che a stento tentavano di mantenersi a galla, arrivarono squali da ogni dove e infestarono quel braccio di mare per giorni e giorni, azzannando e staccando arti. La sceneggiatura del film, per voce dello stesso Quint, dà dell’accaduto storico questa confessione:

“E insomma, quella prima mattina perdemmo cento uomini. Non so quanti fossero, mille squali forse, mangiavano in media sei uomini ogni ora… A metà del quinto giorno un Lockheed Ventura ci avvistò, passò a bassa quota e ci vide. Era un pilota giovane, molto più giovane del signor Hooper. Comunque ci avvistò e venne a guardare. Tre ore dopo arrivò finalmente un nave appoggio che cominciò a raccoglierci. E vi giuro che quello fu il momento in cui ebbi più paura. Mentre aspettavo il mio turno. Non mi metterò mai più un salvagente addosso. Insomma, eravamo finiti in mare in più di mille, ne uscimmo in trecentosedici, gli altri li avevano mangiati gli squali. Era il 29 giugno del '45.”

La Corazzata Indianapolis

 

Quint ha vissuto un’esperienza traumatica che ne ha compromesso l’equilibrio mentale. In quelle acque, egli aveva osservato la morte dritta negli occhi, in quel suo viso scarnificato, ed essa aveva assunto le fattezze del muso di uno squalo assassino. L’alone nero della morte si era incarnato per lui nell’epidermide grigia e lattiginosa di un predatore infallibile abitatore degli abissi marini, la falce sanguinolenta della triste mietitrice si era configurata in quei denti affilati e la presa gelida della morte nella pinna dorsale che affiorava dallo specchio dell’acqua come un sinistro preannuncio della fine. Quint si era rassegnato a morire, ma quando la nave soccorso giunse a salvare i pochi sopravvissuti egli avvertì la più grande delle paure. La speranza di sopravvivere si era riaccesa in lui, e il timore di poter soccombere proprio quando era a pochi attimi dalla salvezza, lo aveva impietrito. Nulla sa essere più confortante e, al contempo, più genuflettente della speranza di poter vivere quando si è così vicini alla dipartita. Quint prova odio, repulsione, rabbia e livore nei riguardi degli squali. Egli dà loro la caccia con volontà di rivalsa, come se volesse vendicarsi di ciò che ha vissuto. Predare il grande squalo bianco è per lui l’equivalente del cacciare lo smisurato “capodoglio” bramato dal capitano Achab, un atto “venatorio” autodistruttivo.

I tre personaggi del thriller si rapportano al regno acquatico in maniera differente, Brody con irragionevole terrore, Hooper con una curiosità guidata dalla logica e Quint con un’acredine relegata nella propria intimità.

Lo squalo filmato da Spielberg non è un predatore come un altro. Esso convoglia in sé una forma primordiale di violenza. Nell’opera filmica l’uomo, cacciatore posto al culmine della catena alimentare, si confronta con il Carcharodon carcharias, superpredatore degli oceani. In tal caso, chi è il predatore e chi la preda? Chi dà la caccia e chi è il cacciato? Nel lungometraggio di Spielberg questi quesiti permangono nell’incertezza, sino a non ottenere mai una risposta esaustiva. Più volte, nel corso della battuta di pesca, i tre uomini si chiedono se ognuno di essi ha mai veduto uno squalo simile, fornendo, di tutta risposta, un’affermazione negativa. Nulla è come lo squalo bianco che si aggira tra quei marosi, poiché esso non è un carnivoro comune ma un demone emerso dagli abissi, un animale raffigurante le torbide e oscure paure provenienti da un fondale sconosciuto. L’uomo è un essere che vive sulla Terra, il mare per lui non è che uno spazio vitale apparentemente estraneo, che può comunque essere esplorato. La superficie d’acqua salata è un fallace portale di vana consistenza, e sotto di esso esiste un “regno” scrutabile, previa immersione, popolato da forme di vita eterogenee, bellissime e, a volte, anche pericolose.  Lo squalo bianco del film è una creatura famelica, bestiale, cruenta, persino malvagia, forte come le correnti oceaniche e magnificente come un enorme cetaceo bianco, poiché questo squalo convoglia in sé un’avversione recondita, elusiva, soprannaturale e giunta dall’ignoto.

Il Pequod di Achab era una baleniera vecchia e inusitata, di minute dimensioni, forse inadatta per affrontare un colosso dalla pelle chiazzata come Moby Dick. Anche l’Orca, l’imbarcazione di Quint, non era grande a sufficienza per sostenere la lotta contro l’enorme squalo bianco. Tali limiti non fermeranno i propositi dei due capitani di questi differenti, seppur a tratti simili, “racconti”. Accecato dall’odio, Quint vuole scovare il grande pesce e affrontarlo in solitudine. Brody e Hooper, come fossero Ismaele e Queequeg, i due marinai imbarcatisi nella Pequod, assistono inermi alla furia autolesionista di Quint, che troverà la morte finendo tra le gigantesche fauci dello squalo, il quale ne farà un solo boccone dopo aver affondato la barca. Spetterà a Brody annientare quell’essere. Egli ci riuscirà perché il suo animo non era animato dal mero desiderio di vendetta, ma dalla forza di superare la propria paura.

L’avrò visto tante di quelle volte d’aver rinunciato a tenere il conto. Del resto, è una consuetudine gradita, un appuntamento ciclico. In un continuo susseguirsi di serate estive dal caldo insopportabile, ho guardato e riguardato “Lo squalo”, e di rado da solo.  Se porgo l’orecchio sento ancora bofonchiare alle mie spalle i familiari, come se bisbigliassero nel buio della stanza con voce sempre più sommessa. I loro sussurri lasciavano fluire frasi che, ironicamente, si sarebbero ripetute nel tempo, ogni qual volta avrei riguardato il cult di Spielberg con loro. “Dai, è troppo grosso” – sibilava qualcuno osservando il grande squalo bianco risalire dalle profondità marine. “Ma per favore, si vede che è finto” -  mormorava qualcun altro.

Non è cambiato nulla col passare delle stagioni. I commenti che ascolto, restando in silenzio e con un accenno di sorriso, sono sempre i medesimi. E’ ciò che, ai miei occhi, rende ancor più speciale questa pellicola, quel suo fare da garante al consumarsi di un rito spiccatamente famigliare, prevedibile, dolce come una tradizione. “Jaws” possiede un che di prezioso, di raro, tanto da rilasciare un’emozione affabulante che lo rende incomparabile. E’ per tale ragione che, tra affettuosi mugugni e simpatici borbottii, nessuno dei miei familiari ha mai distolto lo sguardo dal film, neppure per un singolo istante, e tutti loro continuano ad amare il film come se lo vedessero per la prima volta. “Lo squalo” continua, a quarant’anni di distanza, ad impressionare, sia pure con un animatronic “difettoso”, “problematico”, “artificiosamente fasullo”, “enfatizzato” ma non per questo meno iconico e terrificante.

Dal 1975 ad oggi, quel predatore marino, immortalato dal cineasta statunitense, seguita a nuotare tra i fluttui, facendo emergere la sua pinna dorsale oltre il pelo dell’acqua come manifestazione di una paura affiorata dagli abissi, come una montagna di neve che soffia, o uno scoglio aguzzo e colmo d’inquietante grigiore.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Wade Watts/ Parzival" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il logo della “Warner Bros”, gradualmente, si dissolve sino a scomparire del tutto dallo schermo, e le luci della sala cedono il passo al buio. Nel momento in cui i titoli d’apertura si materializzano, una musica riecheggia nell’aria. La musica di “Ready Player One” risuona con compassata “cadenza”, come se non volesse farsi udire in un ritmato crescendo. Non si appresta neppure a far “rintoccare” le eteree melodie, prodotte a volume basso, come a non voler dare l’idea di provenire da una zona remota, dalla quale, man mano ci si porti vicino si riesce a sentire, nel ritmo coinvolgente, al massimo del proprio suono. La musica, in “Ready Player One”, si propaga con un’intensità tale da coinvolgere istantaneamente lo spettatore. Il brano in questione è una canzone molto celebre: si tratta di “Jump”, uno dei maggiori successi dei Van Halen.

Quando “Ready Player One” inizia a mostrarsi in tutta la sua crescente spettacolarità, sarebbe opportuno lavorare di fantasia. Con un po’ d’immaginazione, ci si può trovare a teatro, nel momento in cui, con il sipario appena alzatosi, il coro dal Golfo Mistico si accinge ad “intonare” il primo tema musicale dell’Opera. La musica, si sa, quando dà il via al proprio scorrere ha, tra i suoi intenti, niente affatto celati, il desiderio d’introdurre rapidamente alle atmosfere del film tutti coloro che siedono in platea. Se la colonna sonora riesce a catturare in maniera immantinente le attenzioni degli spettatori il gioco è fatto. Continuando, ancora per poco, a immaginare d’essere a teatro, potremmo considerare “Jump” come una sorta di prologo decantato. Non soltanto per il valore nostalgico della canzone in sé, che naturalmente ci rimanda agli anni ’80, ma anche perché tale canzone ha nel titolo il profondo significato di “Ready Player One”. “Jump” recita l’estratto del ritornello, “Salta!” noi potremmo ribattere nella nostra lingua. E’ proprio nel coraggio di compiere l’azione del “saltare” che si cela la didascalica morale del lungometraggio di Steven Spielberg, tratto dal romanzo di Ernest Cline.

Accompagnato dal pezzo dei Van Halen, il film comincia, seguendo il protagonista, Wade Watts, mentre viene giù da un alto palazzo con l’ausilio di una fune. Tutto intorno a Wade appare avvilente. Il protagonista è circondato da scenari consunti, caotici, come se la città fosse diventata un enorme agglomerato di rifiuti, un gigantesco ricettacolo di resti d’auto sozzi. Nel lento procedere di Wade per toccare terra, notiamo come tutte le persone, confinate nelle loro case, siano immerse in una realtà virtuale giocabile mediante un visore e dei guanti aptici. Anche Wade sta per raggiungere la sua postazione preferita per varcare i confini di OASIS. Le strade e le vie sono sormontate da palazzi dall’aspetto fatiscente. Le scenografie riscontrabili in “Ready Player One” rimandano alle ambientazioni che avvolgevano il piccolo robottino Wall-E, il quale svolgeva, in solitudine e da 500 anni, l’attività di “spazzino della Terra”. Spielberg ci conduce nel 2045, in un futuro dispotico in cui la sovrappopolazione e l’inquinamento hanno depauperato la natura e reso angusta la vita sul nostro pianeta. Le grandi metropoli sono decadute e la realtà circostante non offre che un paesaggio avvizzito dall’avidità umana.

La sola via di fuga è costituita da OASIS, il mondo virtuale partorito dal visionario James Halliday. Alla sua morte, come lascito, Halliday ha dato il via a tre difficilissime sfide per poter recuperare altrettante chiavi. Chi vincerà le sfide, le quali per essere aggiudicate necessitano la risoluzione di enigmi riguardanti sempre una parte importante della vita di Halliday, erediterà OASIS, e con esso il valore economico della creazione, nonché l’assoluto controllo.

Parzival guida sempre la DeLorean. Potete leggere di più su “Ritorno al futurocliccando qui.

 

Ready Player One” è un immenso buffet traboccante di squisite prelibatezze da assaporare con gli occhi, ad ogni battito di ciglia. I nostri sguardi famelici vengono così saziati dalle continue sequenze d’immagini che scorrono come succulente portate servite a ritmi frenetici, e cucinate da uno chef di prima grandezza, che risponde al nome di Steven Spielberg. Il regista vuol render satolli gli stomaci voraci di tutti coloro che traggono appetito dalla meraviglia della fantascienza. Il lungometraggio è una poesia tradotta in un tripudio d’immagini, declamata attraverso un eccezionale utilizzo degli effetti speciali e, attentamente, parafrasata con “figure retoriche” personificate in “avatar” che sfilano, come fossero su di un’immensa passerella. Spielberg è riuscito a catturare e a racchiudere nel palmo della propria mano l’essenza del romanzo, infondergli in essa il proprio inconfondibile tocco. “Ready Player One” è un madrigale alla cultura popolare degli anni ’80 ma non si limita a tributare con malinconia, ma trasporta il passato e lo mescola al presente degli spettatori e al futuro stesso dei protagonisti della storia, generando una soluzione unica, come un affresco universale.

Cosa, alla fin fine, non rende tangibilmente visibile Spielberg nel suo film?! Egli traspone di tutto: il Tirannosauro, King Kong, Alien, la DeLorean di Ritorno al futuro, Joker, Harley Quinn, Batman, Batgirl, Robocop, persino sua maestà, il Gigante di ferro. Cosa si potrebbe dire, senza lasciarsi influenzare dalla sfera emotiva, su un film in cui vi è una lunga scena in cui combatte Gundam, fiancheggiato da quel Gigante buono concepito dalla mente di Brad Bird, contro il terrificante MechaGodzilla? E cos’altro si potrebbe aggiungere su un film che rilegge, sempre rispettando il proprio stile, il cult “Shining”, facendo sì che i propri personaggi vengano trasportati all’interno dello spaventoso “set” di Stanley Kubrick in una sequenza sbalorditiva? E’ arduo poter commentare, con giudiziosa razionalità, l’emozione pura emessa dallo stupore visivo dell’opera di Spielberg.

Il Gigante di ferro, protagonista dell’omonimo capolavoro d’animazione, riveste in “Ready Player One”, naturalmente, un ruolo eroico e audace. Potete leggere di più sul film “The Iron Giant” cliccando qui.

 

Ready Player One” possiede la forza indomita della natura selvaggia de “Lo squalo” e di quella preistorica di “Jurassic Park”. L’ultima pellicola di fantascienza di Spielberg fa filtrare, nei propri personaggi principali, quello stesso anelito di rivalsa che esortava i dinosauri a spezzare le catene imposte dagli uomini. Ancora, il film è permeato da quel senso d’adrenalinica avventura che la tetralogia di Indiana Jones ha sempre fatto emergere con impareggiabile maestria. La pellicola ha, altresì, nella bontà dei due protagonisti, Wade e Samantha, la dolcezza fiabesca di “E.T.”, e nel loro amore, la vena sognante di “Hook – Capitan Uncino”.  “Ready Player One” è, a mio parere, la quintessenza tributaria del cinema Spielberghiano, perché riesce a coniugare la magnificenza di quel tipo di sogno che Spielberg ci ha da sempre regalato, e per mezzo del quale trasformiamo, ogniqualvolta vogliamo, la quotidianità in una fantastica avventura, fatta di una impalpabile magia che tende sempre al lieto fine.

In “Ready Player One” Spielberg non cita e dissemina solamente, egli plasma una storia semplice ma avvincente, genuina ma al contempo capace di rilasciare un messaggio da apprendere. “Ready Player One” è un film vecchio stile. Pur potendo fregiarsi di un’estetica che non ha paragoni, e una narrazione calata in un contesto avveniristico, ricorda le pellicole di un tempo, con quel particolare taglio che soltanto Spielberg sapeva e sa dare. Si tratta di un’opera che mi ha riscaldato il cuore nell’egual maniera di come facevano i film che vedevo da bambino, quelli impressi sul nastro di una videocassetta. “Ready Player One” ha conservato la bellezza incontaminata di un film generato negli anni ’80 e ’90, quel genere di pellicole in cui gli eroi, giovani e avventurosi, salvavano il mondo, fronteggiando forze apparentemente incontrastabili e, spesso, incarnate negli adulti. Era proprio la genuinità della narrazione, la spontaneità dei personaggi e quel loro spingersi oltre, al di là delle limitazioni che venivano loro imposte da terzi, a farmi adorare questo genere di film. “Ready Player One” è un film imperdibile, un luna park compendiato tra i limiti scenici di una macchina da presa, un diamante da custodire gelosamente e da rimirare quasi con devozione.

Parzival così come appare con il travestimento alla “Clark Kent”. In “Ready Player One” i protagonisti citano la seguente frase di Lex Luthor, tratta da “Superman” del 1978: “Signorina Teschmacher, alcuni possono leggere Guerra e pace e pensare che sia solamente un libro d'avventure; altri leggono gli ingredienti su una cartina di chewing-gum e scoprono i segreti dell'universo.” Potete leggere di più su Superman cliccando qui.

Wade è un orfano, ha perduto il padre e la madre quando non era che un bambino, e convive con l’ingenua zia e la di lei ultima conquista, vale a dire un uomo rozzo e violento. Il protagonista di questa storia non ha amici, eccetto quelli che ha conosciuto nella realtà virtuale, senza però averli mai incontrati personalmente: tra questi il suo migliore amico, Aech. Anche per Wade il gioco virtuale rappresenta una via di fuga, un modo per estraniarsi dal deprimente mondo che lo avviluppa. Padroneggiando il proprio Avatar, che risponde al nome di Parzival (riferimento al cavaliere medievale dell’omonimo testo), Wade si immerge nella realtà virtuale di OASIS, conoscendola e rileggendola sempre come la sua sola casa. E’ anch’egli un esule che ricerca una mera possibilità di ergersi su di una società decaduta e egoistica. Se per Wade la realtà è un afoso e soffocante deserto, OASIS è l’incarnazione olografica e virtuale di un’oasi sorta su verdi radure, bagnata da acque limpide e cristalline e circondata da palme che si levano alte, attenuando, con il loro possente fusto e le loro fronde, i cocenti raggi del sole, facendo sì che si generi sul terreno un’ombra in grado di rinvigorire il corpo e ristorare il cuore.

Tutti vogliono fuggire dalla “verità” che appare sotto i loro occhi, e tutti anelano solamente a trasferire la loro coscienza in una divertente illusione. In OASIS, Wade incontrerà altri amici, dapprima li conoscerà soltanto coi loro avatar, ma in seguito li vedrà per come sono realmente. Tutti loro formeranno una squadra per conquistare le tre chiavi ma, soprattutto, per salvare OASIS dalle perfide angherie e dagli oscuri voleri del losco Nolan Sorrento, massimo dirigente della multinazionale IOI.

E’ proprio in quel mondo irreale, eppure così vivibile e al contempo così fantasticamente intellegibile, che Wade conosce la ragazza di cui si innamorerà, la quale risponde al nome fittizio di Art3mis. Parzival dichiarerà ad Art3mis il proprio amore, ma lei lo rifiuterà perché intimorita dal fatto che nella vita reale non si sono mai incontrati. Art3mis, il cui vero nome è Samantha, è una ragazza bellissima, ma timorosa nel mostrarsi per com’è realmente dinanzi a Wade. Ella ha sulla faccia una voglia che le contorna l’occhio destro e si protrae ancora, fino a occuparle un lato della fronte. “Sam”, come preferisce farsi chiamare, copre sovente quella parte del volto con una ciocca dei suoi capelli rossi. Quando Wade riuscirà finalmente ad incontrarla, ed entrambi non saranno più velati dall’illusione dei loro avatar, egli le accarezzerà il viso, spostandole delicatamente i capelli fin dietro l’orecchio, così da poterla vedere senza nulla che la nasconda. Wade non nota alcuna differenza, e seguita, come prima, a confessarle il suo amore. Questo perché nessun avatar, così come neppure una graziosa chioma di capelli rossi, può celare la bellezza ammirata con gli occhi di un cuore innamorato. E’ qui che si snocciola il primo significato di “Ready Player One”, l’importanza della realtà e del modo in cui percepiamo il fantastico. Wade non si era di certo innamorato di un avatar ma di ciò che l’avatar di Art3mis testimoniava, in verità, la personalità di Samantha. Una volta conosciutala, Wade può comprendere realmente quanto il vederla, il poterla sfiorare davvero con il tocco della sua mano siano possibilità superiori a qualsivoglia espediente tecnologico. Samantha afferma, inoltre, che col tempo tutti hanno dimenticato la delicatezza del vento, riscontrabile sull’epidermide quando esso soffia forte, o la dolcezza di un sole appena sorto che illumina tutto coi suoi raggi. “Rinchiudendosi” in OASIS, l’umanità ha perduto ciò che ancora può essere apprezzato nel vero mondo.

Questo verrà ulteriormente capito dai giocatori quando si appelleranno alle parole del creatore, Halliday. Egli ha vissuto tutta la sua vita nella paura, nel patologico timore, scovando un rifugio nei videogiochi e nelle proprie creazioni, fino a quando il tempo inesorabile non ha reclamato la sua esistenza. Halliday si era innamorato di una donna, Kira, ma non ebbe mai il coraggio di dichiararsi. Non fece il “salto”, quello stesso “salto” ripetuto dalla canzone con cui il film apriva il proprio corso. Ecco perché quel brano fungeva da prologo, perché anticipava il messaggio più importante: affrontare con ardore ciò che ci spaventa. Wade con Samantha compirà il suo primo salto quando balleranno con i loro avatar sospesi nel vuoto di una discoteca virtuale, e proprio danzando su quel suolo sospeso per aria egli le dirà di amarla. Infine, quando Wade trionferà, non cederà alla paura e adempirà il suo ultimo salto: baciare la donna di cui si è perdutamente invaghito. Acquisito il controllo di Oasis, Wade, con la sua squadra, ricorderà a tutti che la realtà virtuale è un regno di fantasticherie. Ma senza trascurare esso, dobbiamo anche tornare a prenderci cura della nostra Terra e della nostra unica realtà, che ha come assoluta ed ineguagliabile bellezza, l’essere…reale!

La fantasia, la speranza e l’immaginazione sono tutti elementi che giungono in nostro aiuto e con i quali dobbiamo reinterpretare la realtà che ci circonda, senza però sostituirla. Nulla può prendere il sopravvento sul reale…la limpidezza di un sogno da ammirare deve rendere migliore la vera realtà, mai capovolgerla. Ecco perché “Ready Player Oneè un tuffo compiuto da un trampolino posto ad una ragguardevole altezza; da lassù possiamo tuffarci in libertà, precipitare giù in un vortice apparentemente senza fine, fino a planare agevolmente a terra…su di un suolo soffice come una realtà fatta di sogni e verità.

Voto: 8,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Nel 1989, Spielberg si trovava tra le mani un bellissimo libro di fantascienza scritto da John Michael Crichton. E’ probabile che già dopo aver sfogliato poche pagine, il regista fosse rimasto folgorato dalla lettura, e covasse nelle sue fantasie l’idea di dar vita ai passi che stava mormorando tra sé e sé, oppure, chissà, forse a voce alta. In tale romanzo si narrava infatti l’avvincente storia di “Jurassic Park”. Fu in quel momento che un impeto emozionale fece sobbalzare il cuore del regista statunitense: non avrebbe mai potuto farsi scappare un soggetto del genere, lui e la Universal si assicurarono l’esclusiva di trasporre in arte filmica quel tomo. E nel 1993 sbarcò nei cinema  di tutto il mondo “Jurassic Park”. “Jurassic Park” narra la storia del paleontologo Alan Grant, della dottoressa ed esperta di flora preistorica Ellie Sattler e del matematico Ian Malcolm (Jeff Goldblum), invitati dal magnate John Hammond ( Sir Richard Attenborough) su Isla Nublar per visionare, in gran segreto, un nuovo parco a tema. Ciò che vedranno su quell’isola li lascerà esterrefatti…

Permettetemi l’indugio metaforico, ma credo che in quegli anni Steven Spielberg fosse uno sciamano. In alternativa uno stregone o più precisamente un mago, qualunque appellativo esistente potesse ritrarlo come un genio dotato di poteri sovrannaturali e pertanto capace di mutare la realtà apparente per puro diletto del suo pubblico. Questo perché Spielberg, con “Jurassic Park”, creò una magia, un’essenza ascetica di stupore e meraviglia. Sedersi comodamente in poltrona e rimirare per la prima volta le sequenze di “Jurassic Park” vuol dire varcare la soglia di un mondo onirico, fatto d’incanto e pericolo. Sin dalle primissime sequenze del lungometraggio, tutti noi, acuti spettatori, ci troviamo a sussultare, insieme ai protagonisti, a bordo di un elicottero smosso dalle correnti ascensionali che gravano sul velivolo durante l’atterraggio su Isla Nublar. Perché ciò che ha dell’incredibile in “Jurassic Park” è la capacità di poter interagire con la progressiva scoperta dell’ignoto che i nostri personaggi compiranno di lì a breve. Il mistero che "avvolge" l'isola verrà presto svelato in tutta la sua maestosità. Lo spettatore si trova a identificarsi, senza neppure accorgersene, nel professor Alan Grant e nella dottoressa Ellie Sattler, in particolar modo quando ambedue, volgendo lo sguardo verso una verde radura, resteranno per pochi ma intensi secondi piacevolmente sbigottiti. Spielberg non palesa nell'immediato ciò che stanno realmente ammirando, stupiti e sconvolti, i due personaggi. Egli vuole, invece, che il suo pubblico si domandi, con insistenza, cosa stiano realmente guardando i due protagonisti. Il regista usufruisce dell'immaginazione, la evoca astrattamente ponendo la sua camera sui volti attoniti di Alan ed Ellie. La suspense, anche quella più tersa, basata non sulla tensione emotiva dello spavento ma sull’attesa della meraviglia, è resa splendidamente da Spielberg, il quale, ancora una volta, si dimostra un maestro nel far concepire le cose al proprio pubblico ancor prima di mostrargliele completamente. Lo aveva fatto con “Lo squalo”, dopotutto, e lo rifarà con “Jurassic Park”. Ne “Lo squalo”, a causa di un costante malfunzionamento dell’animale robotico, Spielberg dovette limitare le apparizioni del gigantesco predatore dei mari. Con una maestria innata nel montaggio, Spielberg dosò le inquadrature sull’animale, ma nessuno notò affatto quanto lo squalo poco compariva sulla scena, poiché la sua “presenza” in prossimità della barca veniva perennemente mistificata. In egual maniera, Spielberg farà con “Jurassic Park”, fin dalla primissima sequenza in cui compariranno i dinosauri. Sono “soltanto” sedici i minuti in cui saranno presenti tali, incredibili, creature in due ore di proiezione, eppure, è come se il loro manifestarsi fosse sempre preminente.

Sam Neill e Laura Dern

Spielberg, come scrivevo, con l’arte della “magia”, del vedo-non vedo, crea una splendida illusione, concretizzatasi sul volto di Alan e Ellie, che, dopo attimi di smarrimento, cedono le loro attenzioni, lasciando il posto all’inquadratura totale di ciò che stanno realmente guardando: dalla vegetazione avanza un Brachiosauro, alto 9 metri, che giunge in prossimità di un albero per cibarsi.

E’ una delle scene più magiche e delicatamente stupefacenti della storia del cinema. Spielberg ci mostra che sì, è possibile, e che sì, ce l’ha fatta! Ha portato in vita i dinosauri attraverso un lavoro di ricostruzione digitalizzata. “Jurassic Park” fu, infatti, il primo film della storia del cinema a fare ampio uso della CGI, combinata con un sapiente utilizzo di Animatronics. Il fiero avanzare del Brachiosauro è la prima, splendida e completa sequenza in CGI che possiamo godere nel mondo della settima arte. E’ la più pura delle meraviglie ciò che Alan ed Ellie, insieme al matematico Ian Malcolm e al direttore Hammond, avvertono in queste primissime immagini del Parco.

Con “Jurassic Park” Spielberg riabbracciò il genere fantascientifico, dopo aver sperimentato quello prettamente fantastico con il precedente “Hook – Capitan Uncino” e poco prima dello storico e drammatico “Schindler’s List” che frutterà al cineasta il premio Oscar alla regia. “Jurassic Park” è un’opera di sopravvivenza, una caduta vertiginosa nel gorgo vorticoso e rimbombante della vita, concepita in senso lato e filosofico, ma vivido e intellegibile, e al contempo esistenzialista, che indaga, attraverso la sua azione al cardiopalma e dietro i suoi incredibili effetti speciali, religione, scienza e umanità.  “Jurassic Park” fantastica su cose scientificamente credibili, ma non si limita soltanto a narrare semplicemente l'esistenza dei dinosauri in un dato parco a tema, richiedendo espressamente al suo pubblico la sospensione dell’incredulità. L'opera cerca, invece, d’offrire una chiave di lettura scientificamente credibile e intellettualmente soddisfacente. Ecco che nel passo successivo, dopo aver portato in scena la quintessenza dell’imponenza giurassica, il film mostra, mediante un simpatico e didascalico filmato introduttivo in laboratorio come gli scienziati del Jurassic Park siano riusciti a riportare in vita creature vissute milioni e milioni di anni or sono. Le zanzare pungevano i dinosauri succhiando loro il sangue, nell’esatto modo in cui lo fanno oggi, e accadeva anche, di tanto in tanto, che una zanzara restava imprigionata nella resina, divenuta poi fossile, comunemente nota come ambra. Ritrovando, negli scavi, quest’ambra, ed estrapolando il sangue contenuto nell’animale, gli scienziati sono riusciti ad ottenere i filamenti di base del DNA di dinosauro, completando poi il ciclo con quello dei rospi. Tutti gli esemplari di dinosauri furono infine clonati in laboratorio come femmine, onde evitare la riproduzione della specie senza il controllo dei supervisori del Jurassic Park.

Gli scienziati protagonisti del film, sebbene sopraffatti dallo stupore, esprimono quasi immediatamente le loro perplessità. Ciò che nei laboratori del Jurassic Park si sta compiendo suscita inquietanti quesiti etici e morali. La natura ha selezionato i dinosauri per l’estinzione, ma nei laboratori del “Jurassic Park” l’uomo si sta beffando di Dio, ergendosi al di sopra del suo volere. Flore, ipoteticamente invivibili, vengono ricreate con la medesima leggerezza delle faune antidiluviane più indomite. Ma non è solo la clonazione l’aberrante “stregoneria” scientifica che sta avvenendo al “Jurassic Park”, anche il raccapricciante tentativo di porre un veto, un controllo totale della vita degli animali, riportati alla luce in una realtà fin troppo estraniante rispetto a quella in cui avrebbero dovuto vivere. Ed essi vengono, altresì, controllati onde evitare che i loro istinti di conservazione prendano il sopravvento e li spingano a riprodursi per la salvaguardia della specie. Sono tutte femmine i dinosauri del parco, incapaci pertanto di scegliere, impossibilitati ad adempiere ai loro istinti, soggiogati dall’uomo che crede di porre sotto il proprio dominio un’esistenza forte che gli si rivolterà contro. I dinosauri divengono animali alla mercé dello spettacolo attrattivo, brevettato e, per questo, prossimo alla vendita: il parco aprirà i battenti tra un anno esatto e, nelle intenzioni di John Hammond, tutte le persone del mondo dovranno avere il privilegio di poter ammirare queste straordinarie creature.

Gli scienziati partecipano a una sorta di safari, a bordo di un‘auto che segue un percorso su una rotta prestabilita. Ai tre scienziati si uniranno Tim e Alexis Murphy, i nipoti di Hammond. Se i dinosauri erbivori vengono mantenuti liberi in verdi praterie perché domi e dal temperamento innocuo, così non può essere per i carnivori dell’isola. Hammond ammette con disarmante leggerezza di possedere predatori implacabili del Cretaceo e del Giurassico come il Dilofosauro (nel film rappresentato come velenoso e dotato di una sorta di guinzaglio di pelle intorno al collo) e i terribili Velociraptor, carnivori rapidi, socialmente attivi e intelligentissimi. Questi predatori vengono contenuti all’interno di ampi recinti elettrificati. Durante il breve giro turistico, gli scienziati non riescono a scrutare neppure un dinosauro, poiché essi tendono a mimetizzarsi tra la fitta vegetazione. Spielberg aumenta la suspense, “trascinando” i suoi spettatori nell’attesa estenuante che comincia a diventare sempre più insostenibile. Il regista sa che il sipario dovrà essere alzato a tempo debito, e specialmente con l’accurata preparazione scenica e musicale. Così il percorso dell’auto viene interrotto da un violento temporale che si è abbattuto sull’isola, e le macchine terminano il proprio tragitto dinanzi al recinto del Tirannosauro.  Quando il sistema di sicurezza del parco verrà disattivato e il violento temporale causerà il totale black out del sistema operativo, le recinzioni non saranno più elettrificate e ciò causerà la fuoriuscita dei dinosauri.

Il verso del Tirannosauro venne creato combinando i versi di un elefante, una tigre e un alligatore.

Un frastuono, ritmato con sinistra costanza, si ode in lontananza. L’acqua contenuta all’interno di un bicchiere subisce le influenze di un simile rumore, che reca con sé il passo di una gigantesca presenza. Il liquido contenuto all'interno del piccolo recipiente sembra ricreare delle figure geometriche ben distinte: dei cerchi concentrici che si aprono e si chiudono con ritmo regolare. Essi sono prodotti dall'effetto di un qualcosa che sembra essere sempre più vicino. La terra trema, il Tirannosauro sta arrivando. Quei cerchi nell'acqua li nota con timore il piccolo Tim, prima che la camera inquadri un artiglio fuoriuscire dalla vegetazione, e afferrare i cavi per scoprire poi che l’erogazione della corrente elettrica era stata interrotta.

Quella che preannuncia l’arrivo sul bordo della recinzione del Tirannosauro è una delle scene più intense e cariche di suspense della storia del cinema, girata magistralmente da uno Spielberg senza eguali, che riesce a generare l’attesa semplicemente non mostrando nulla, catturando l’attenzione degli spettatori con un rumore indefinito e un bicchiere d’acqua posto sul cruscotto di un’auto.

Da questo momento comincia una vera e propria lotta per la sopravvivenza, in cui Alan Grant si farà carico di Alex e Tim per portarli in salvo, attraverso un’estenuante fuga nella vastità del parco, ormai privo di protezione. La natura riesce dunque a liberarsi al giogo restrittivo dell’uomo e a scatenarsi con tutta la sua furia.

Alan è un paleontologo e ha un difficile rapporto con i bambini, che proprio non riesce a sopportare. L’esperienza di “Jurassic Park” sarà da una parte traumatica per lui, ma gli permetterà di rivalutare un istinto paterno, riservato a Tim ed Alex, che credeva di non poter realmente provare. Durante il loro viaggio, Alan si imbatte nei resti di alcune uova schiusesi, e ipotizza che il DNA dei dinosauri, mischiato con quello dei rospi, ha trovato il modo per poter replicare l’esistenza: i rospi australiani, infatti, se si trovano in un branco di elementi monosessuali, possono mutare il loro sesso per garantire la riproduzione; è ciò che sta avvenendo ai dinosauri. Alan comprende così che Ian aveva ragione, e che la vita trova sempre il modo per riuscire a primeggiare.

Nel frattempo, Hammond colloquia con Ellie mentre i due si trovano al sicuro all’interno del centro operativo del parco. Hammond, amareggiato per ciò che è accaduto, rinarra alla dottoressa lo spettacolo delle Pulci che aveva messo in scena per racimolare i primi, modesti introiti della sua carriera. Il Circo delle Pulci era un sogno, la finestra sull’ignoto, su ciò che poteva essere interpretato come vero anche se non lo era. Hammond era un uomo visionario, e col suo Jurassic Park voleva rendere l’impossibile possibile, l’invisibile visibile. Non poté realmente tener conto dei rischi perché nell’ineluttabilità dei sogni i pericoli non sono perscrutabili. Ma ora la realtà è differente, quelle forze incontrollabili si sono destate, e quel sogno nebuloso si è tramutato in un incubo.

L’attacco dei Velociraptor nella cucina è una delle tante scene del film entrate nell'immaginario collettivo.

“Jurassic Park” fu proprio una giostra stupefacente e orrorifica che Steven Spielberg, molto caritatevolmente, ci donò. Un Luna Park dalle meraviglie intense e fatali. Con quest’opera, Spielberg abbatté il muro che delimitava i confini dell’avventura sfrenata, unendola alla riflessione profonda e significativa. “Jurassic Park” vinse tre premi Oscar e divenne alla sua uscita il film di maggior successo della storia della settima arte. Era un’esperienza stimolante e ispiratrice, una pietra miliare della cinematografia fantascientifica, perché con “Jurassic Park” ci siamo invaghiti di un mondo che non potevamo in altro modo conoscere. Con questo lungometraggio tutti noi abbiamo provato l’emozione di professarci paleontologi coraggiosi, “dinomaniaci” incalliti, e amanti di una preistoria viva e avvertibile. “Jurassic Park” è un esempio di come ci si possa innamorare non solo di un film ma di un modo di fare film, e raccontare una storia. Come in uno spettacolo di magia, conservando l’innocenza di quell’esatto stupore, sappiamo che è tutto finto, eppure, non possiamo che restare incantati dinanzi alle sfilate in cui si avvicendano in tutta la loro imponenza questi animali riportati magicamente in vita.

“Jurassic Park” è una grossa e sbalorditiva illusione, una visione onirica, da cui non vorremmo altrimenti svegliarci, se non arrivassero i titoli di coda a scuoterci, a darci un inaspettato “buongiorno”.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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