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"Charlot" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

La redazione era in fermento. Tutti i giornalisti erano stati convocati, e con una certa urgenza. “Presto, muovetevi!” - Esortava il fotoreporter Jimmy Olsen. “Il capo vi sta aspettando, ed è rabbioso come sempre…” – Suppongo avrebbe concluso.

In fondo, nell’ampio ufficio, accanto alla finestra rimasta semiaperta, il direttore Perry White masticava nervosamente il suo sigaro. Teneva le braccia distese dietro la schiena, le mani congiunte, movendosi in maniera concitata davanti alla propria scrivania, sulla quale era stato riversato maldestramente un cumulo di fogli di carta. Perry si arrestò d’un tratto e fulminò con lo sguardo i reporter. Il loro giornale era in ritardo. In enorme ritardo.

I principali quotidiani di Metropolis avevano già sbattuto il personaggio del momento in prima pagina, l’uomo che, la sera prima, era stato visto volare con le braccia tese verso il cielo. Questa misteriosa figura affiorò dalla strada - spiccando il volo dall’asfalto grigio - e si diresse sino alla sommità di un edificio. Lungo il tragitto, l’uomo salvò la giornalista Lois Lane tenendola fra le braccia, per poi fermare con una singola e decisa presa di mano un elicottero che, perso il controllo, stava per precipitare nel vuoto.

Ne parlavano tutti i giornali, e il Daily Planet non era da meno.

Vola!” - Titolò il Post.

Guarda mamma, senza fili!” – osò il News.

Il Times esordì: “Bomba blu in picchiata su Metropolis”.

L’uomo dal mantello color del cielo sbalordisce la città.” – Tuonò infine il Planet.

Era l’avvenimento del secolo, la storia che ogni direttore di giornale sognava di raccontare. Perry lo sapeva, e per questo era su tutte le furie. Il Planet, come già detto, era in ritardo sulla tabella di marcia poiché si era semplicemente limitato a riportare la notizia di questo sorprendente avvistamento e non aveva fatto altro. Nulla di più. Nessuna aggiunta a quell’informazione, nessun dettaglio carpito da quella stupefacente figura che sorvolò i grattacieli del centro urbano. Perry non poteva tollerarlo. Le cose sarebbero dovute cambiare quel mattino stesso, e anche con gran premura.

White ammonì i suoi dipendenti. “Scovate l’uomo che sa volare!”. Voleva sapere chi fosse, conoscere il suo nome, ghermire la più impercettibile delle minuzie. “Chi era?”, “Dove abitava?”, “Da dove era venuto?”, “Cosa significa quella S che porta sul petto?”. I giornalisti dovevano cercare e sondare, pattugliare le strade, interrogare i testimoni che avevano assistito a quel salvataggio tanto sbalorditivo. Mentre White motivava i suoi cronisti, in un angolo sperduto della stanza Lois Lane leggeva un biglietto fattole recapitare in forma anonima.

Clark Kent e Lois Lane in una scena di "Superman". Potete leggere di più sul film cliccando qui.

Stasera alle 20:00 a casa sua. Speranzosamente, un amico”. Lois sorrise. L’uomo che sapeva volare si era messo in contatto, concedendole un appuntamento. Sul lato opposto della sala, ritto dinanzi alla porta, il timido Clark Kent, dietro i suoi occhialoni, indagava l’espressione di Lois, guardandola candidamente per poi distogliere l’attenzione.

Quella sera l’uomo dalla grande “S” sul petto planò sul balcone di casa Lane, guadagnando il terreno con i suoi stivali rossi. Esitò per qualche secondo sul cornicione, standosene diritto su esso. Costui era alto, con un ricciolo bruno che gli scendeva sulla fronte. Racchiuso in un costume azzurro, sormontato da un mantello rosso, il misterioso visitatore scese giù dal davanzale, avanzò verso la padrona di casa e si sedette a pochi passi da lei. L’intervista poteva dunque cominciare. Lois aprì il suo taccuino, e fece seguire un meticoloso e quasi sfacciato interrogatorio volto ad estorcere con le buone le tante verità custodite dal viandante figlio della volta celeste.

Superman aveva scelto lei, proprio lei, la celebre penna di Lois Lane per esporsi al mondo, per svelare a tutti i lettori giusto qualcuno dei suoi molteplici segreti.

Quando la conversazione stava per concludersi Superman porse la mano a Lois, invitandola a volare con lui. La giornalista non se lo fece ripetere due volte. Emozionata e, forse, un pizzico spaventata, la cronista mosse il braccio verso il suo accompagnatore, lasciando che l’eroe la sollevasse come fosse una piuma sospinta da un refolo. Stretta tra le braccia dell’uomo che le aveva salvato la vita, la donna librò oltre l’uscio, salì in alto, così in alto che le parve di poter toccare le stelle. Lambì le nuvole, le trafisse con il suo corpo, accorgendosi della tenue consistenza di cui erano fatte. I due continuarono a volare per molto tempo, mirando da lassù la città viva e palpitante nel pieno della notte, con tutte le sue luci che brillavano nel buio. Lois seguirà il suo eroe per l’aere, volgendo lo sguardo, di tanto in tanto, verso di lui e scrutandolo con soavità ma anche con la sua proverbiale curiosità di giornalista, mentre egli non smetterà di tenerla sempre per mano. (Un'altra coppia di innamorati volò, insieme, da una stella ad un'altra. Vi stanno aspettando qui.)

In quegli attimi, tra una planata sul mare e una salita verso il pallido chiarore della luna tondeggiante, Lois cominciò a chiedersi se Superman potesse leggerle il pensiero. Chi poteva dirlo? Forse avrebbe potuto, ma Lois non ne era certa. Dopotutto, quel superuomo che aveva accanto riusciva a prevalere sulla forza di gravità, a soffiare folate gelide dai suoi polmoni, a sollevare un’auto senza versare neppure una goccia di sudore. Perché, dunque, se era in grado di fare tutto questo non avrebbe potuto leggerle anche la mente?

Puoi leggermi il pensiero?” – Si domandava Lois in cuor suo. Fra tutti i suoi poteri, le sue straordinarie facoltà - il volo, la forza erculea, la velocità, la vista che dissolveva ogni ombra e schiariva l’oscurità - Superman era in grado di sfogliare l’io interiore di una donna innamorata? No, invero non poteva. La mente resta un luogo intimo, personale, segreto, inaccessibile. Neppure l’Uomo d’Acciaio può addentrarsi in una simile dimensione.

Lois, in quei frangenti, meditava. Le emozioni che scaturivano dal suo cuore si erano mescolate alle idee del suo cervello. Riusciva a pensare solamente all’amore, a quanto si era innamorata di Superman. Le sarebbe piaciuto che l’eroe dalla grande “S” fosse capace di perscrutare oltre la fronte. Così facendo, si sarebbe accorto immediatamente di quanto forte e vivo fosse il sentimento della donna. Non sarebbero servite confessioni, bisbigli, mormorii pronunciati con mal celato imbarazzo, con il rossore sulle guance. Sarebbe bastata una rapida lettura...

Già! Se solo la persona da noi amata potesse leggere nella nostra mente! Capirebbe tutto in un lampo. Avvertirebbe la forza del nostro sentimento, la sua purezza, che a volte le parole non riescono a descrivere appieno. Quanto vorremmo che ciò avvenisse per davvero!

Anche un altro personaggio, in una storia diversa da quella fino ad ora narrata, avrebbe tanto desiderato che la sua amata potesse farsi strada nella sua psiche. Sono certo che lo avrebbe voluto.

Questo personaggio era un vagabondo che visse all’inizio del Novecento. Quando la donna che amava gli sfiorò il bracciò e lo guardò negli occhi, egli mostrò i denti, sghignazzando tra il timido e l’impacciato. Chi lo sa, forse fu proprio allora, in quel momento, che egli si chiese realmente se ella potesse leggere nella sua mente. In tal caso sarebbe stato più facile, per lui, trasmetterle tutto ciò che provava laggiù, in fondo al petto.

Il vagabondo non era solito parlare. Le parole non facevano per lui. Egli preferiva comunicare con l’arte dei gesti e dei silenzi, con le occhiate e le movenze. La sua voce era difficile d’ascoltare e veniva soffocata dal suono della musica, il contrappunto di grazia e delicatezza che scandiva ogni suo passo, ogni suo cenno.

Charlot, così si chiamava questo vagabondo, nell’attimo in cui s’imbatté nuovamente nella sua adorata restò immobile a guardarle il volto. Ella lo scrutava curiosa, sgomenta, del resto era la prima volta che lo vedeva, anche se si conoscevano da tempo. Come dite? Vi state chiedendo com’è possibile che quella era la prima volta che lei lo vedeva se già si conoscevano? Perdonatemi, avete proprio ragione. È meglio fare un passo indietro, e riannodare alcuni fili pendenti del discorso.

Tutto ha principio in un giorno di festa.

In una piazza cittadina si sta svolgendo una cerimonia di inaugurazione. Un nuovo monumento, per la precisione un’imponente statua di marmo sta per essere svelata a tutti i convenuti. La scultura appare coperta da un ampio drappo di velluto. Una volta rimosso, la statua si mostra ai presenti in tutta la sua solennità. Si tratta di una raffigurazione scultorea della dea Giustizia. Tutti i presenti applaudono festanti, incantati dalla bellezza di quell’opera d’arte. Di colpo si interrompono, cessano nel loro battito chiassoso. Essi si accorgono che un individuo con addosso degli abiti consunti dorme rannicchiato ai piedi della statua, abbracciando il suo bastone con la stessa innocenza con cui un bambino abbraccia il suo orsacchiotto. Charlot si era appisolato proprio lì la sera prima, probabilmente trovando rifugio dal freddo sotto quell’ampio drappo che nascondeva la scultura da occhi indiscreti. La moltitudine emette un grido all’unisono: “Via da lì!”. Il goffo vagabondo si sveglia di soprassalto, e viene scacciato dalla folla inferocita. Così scivola lungo le gambe della dea, apre un passaggio fra le dita e fugge in strada, voltando le spalle ai cittadini inferociti. Dopotutto, Charlot non può trovare riparo nell’accoglienza della società dei tempi moderni che proprio non vuole un tipo come lui. Le persone che “adorano” quella scultura appena “issata” non sono dei “giusti”, bensì dei prepotenti che non esitano a scacciare il debole tramutandolo in reietto, che, pertanto, mai potrà trovare ristoro e uguaglianza dinanzi ad una giustizia terrena che, di fatto, è ingiusta per sua natura.

Vagabondando di qua e di là, Charlot giunge all’angolo di una strada dove incontra una giovane donna che vende dei fiori. La fanciulla gliene offre uno, raccogliendolo dalla sua cesta. Charlot lo accetta, restando ammaliato da quella dolce visione incarnata dalle fattezze della ragazza. Osservandola attentamente, Charlot si accorge che la donna è cieca. Intenerito, il vagabondo vorrebbe acquistare tutti i fiori ma purtroppo possiede a malapena una moneta nelle tasche sdrucite dei suoi pantaloni smisuratamente larghi. La fanciulla lo ringrazia per la sua gentilezza e lo saluta. Ella ha appena scambiato Charlot per un nobiluomo, perché nel momento in cui lo sta salutando sente sbattere la portiera di un’auto di lusso, una Rolls-Royce. L’uomo con la bombetta sul capo se ne rende conto, così, per non deluderla, fa per andarsene di soppiatto. Nei giorni a seguire, il vagabondo incontrerà ancora e ancora la fanciulla e non disdegnerà di farle la corte.

I giorni passano, le serate scorrono, Charlot vive la frenesia della città scoprendone i molteplici aspetti. Dapprima si avvicina alle luci accecanti, sperimentando il furore delle notti brave, in coppia con un improbabile amico conosciuto per caso: un ricco ubriacone che si mostra amichevole solamente quando è sotto effetto dell’alcol. Questi trascina Charlot tra gli sfarzi del suo “palazzo”, mescolandolo fra la creme dei ricchi magnati. Il vagabondo, dopo aver assaporato l’ebrezza del mondo dei privilegiati, fa visita alla fioraia, saggiando l’altro lato della città, l’altra “luce scintillante” di essa. Perlomeno, “scintillante” per chi ha negli occhi la giusta sensibilità per notarla.

Il vagabondo passa così alla piacevolezza, alla quiete, alla serenità, ciò che più si addice al suo animo nobile ma squattrinato. Charlot si sente a suo agio ogniqualvolta incontra la sua innamorata, la fioraia cieca. Soffermandosi accanto a lei, l’uomo con la bombetta sente di avere finalmente trovato il proprio posto nel mondo, all’interno di una società che lo ha sempre ripudiato. Fra tutte le luci della città, Charlot si è invaghito della luce più fioca, tenue, debole: quella emanata da una giovane donna indigente, dolce e gentile.

Un giorno, Charlot ha l’opportunità di scortare la fanciulla fino alla sua dimora. In sella ad un bolide rimediato per caso, il vagabondo accompagna la fioraia sino alla porta di casa, non prima di averle comprato tutti i fiori che reca tre le braccia. Prima che la giovane salga i gradini della scala Charlot la chiama a sé, trattenendole la mano.

Potrò rivederla ancora?” – Domanda il vagabondo, sfiorando con le labbra i dorsi di lei.

Quando vuole, signore.” – Arrossisce la ragazza.

Come un moderno Romeo, Charlot corteggia la sua Giulietta standosene ai piedi della minuscola scalinata, mentre la fanciulla, non di certo una Capuleti ma una povera venditrice di petali profumati, ascolta il suo parlato, versi d’amore improvvisati e, proprio per questo, ancor più veri. La giovane fioraia non può vedere Charlot, può soltanto ascoltarlo. Ella si innamora delle sue parole laconiche, delle frasi che egli le sussurra all’orecchio, mentre se ne resta giù, al primo gradino della rampa. (Potete leggere di più su Romeo e Giulietta cliccando qui.)

Charlot, un po’ come Cyrano di Bergerac, non può contare sulla prestanza del suo fisico per conquistare l’amore della sua amata, può contare a malapena sulla forza delle sue brevi parole, sulla profondità dei suoi gesti e sul valore delle sue azioni. (Il Cyrano vi attende qui.)

Di giorno in giorno, Charlot si reca dalla sua amata. Ella è solita toccargli il braccio quando gli parla. Non potendo vedere, la fanciulla usa il senso del tatto per stabilire un punto d’incontro con il suo amato, per riconoscerlo, per sentirlo vicino. La giovane continua ingenuamente a credere che Charlot sia un nobiluomo, ma non è questo che la attrae. Ella, come confiderà alla nonna, sente che Charlot abbia in sé molto di più del banale denaro: è ciò che è, sono i suoi comportamenti a renderlo tanto speciale. Il vagabondo serba, infatti, un cuore d’oro ed è deciso a fare quanto è in suo potere per curare la cecità della fioraia e sostenerla nella sua vita di stenti.

Dopo una serie di bizzarre peripezie, l’uomo con la bombetta in testa entra in possesso di una grossa somma di denaro che offre alla sua compagna. Grazie a quel sostanzioso bottino, la fanciulla potrà pagare una costosa operazione agli occhi e saldare i debiti dell’affitto. Prima d’andar via, Charlot le promette che un giorno tornerà. Di lì a poco, il vagabondo verrà catturato dalle forze dell’ordine e sbattuto in prigione per un banalissimo equivoco. La circostanza della statua su cui si era addormentato all’inizio del film stava a presagire il destino a cui sarebbe andato incontro il vagabondo: un destino bieco, crudele, ingiusto.

Diversi mesi dopo, Charlot esce di galera e cammina tutto solo per le strade. Un gruppetto di ragazzini maleducati lo infastidisce, schernendolo. Malconcio, Charlot si volta e osserva la vetrina di un negozio. Fra i petali dei fiori, egli scorge un viso: quello della sua amata. Ne resta interdetto. La donna lo osserva meravigliata e attonita. Non lo riconosce, non può riconoscerlo. Charlot le sorride e poi, con sommo stupore, si rende conto che la donna ha acquistato la facoltà di vedere. Charlot è commosso, ma cerca di non mostrarlo. L’uomo con la bombetta fa per andarsene ma la dama, colpita da quell’indugiare di Charlot, esce dal negozio e lo raggiunge, offrendogli un fiore. Si erano conosciuti esattamente così. Un fiore li aveva legati nel buio e adesso un fiore li avvicinava nuovamente nel candido chiarore di uno sguardo ricambiato. Charlot non vuole fermarsi, dunque la giovane gli sfiora il braccio. La stoffa dell’abito del vagabondo viene immediatamente riconosciuta dalla fioraia.

“Sei tu!” – Sussurra.

Charlot annuisce, portandosi la mano alla bocca.

“Puoi vedere, adesso?” – Chiede.

“Sì, posso vederti ora.” – Risponde, quasi in lacrime.

Charlot non sa cosa dire. Non era mai stato bravo con le parole e in quel preciso momento, sopraffatto dalle emozioni, non riusciva a far effluire neppure un fremito sommesso, un alito di voce. Scelse di sorridere. Una singola nota, un verbo esternato dalla bocca sarebbe risultato superfluo. Nessuna frase avrebbe potuto esprimere la gioia di quel nuovo incontro. Charlot tacque. La donna lo guardò, come non era riuscita mai a fare. Contemplò le gote sporche, il baffetto a spazzola, gli occhi profondi. Lì si attardò, come una lettrice che indugia su una frase di un libro tanto bella da rapirla. Cosa fece la ragazza in quell’attimo, in quello sguardo prolungato, tanto intenso da sembrare eterno? Si mise a sfogliare le pagine celate al di là di un velo fatto di bianca epidermide?

No, la fioraia non poteva leggere nella mente di Charlot. Se avesse potuto, sarebbe stata travolta da un amore pronto a sfociare come un fiume in piena, che abbatte ogni argine. Ma non fu necessario. La fioraia, con la sua cecità, era già riuscita a vedere oltre la maschera di Charlot, dietro la sua flebile voce e i suoi gesti buffi e impacciati, arrivando fino al suo cuore e innamorandosene. Charlot aveva fatto lo stesso. Guardandola con i suoi occhi vispi e luminosi, si era innamorato di ciò che ella custodiva nel buio delle sue pupille gravi e spente, che egli avrebbe desiderato accendere sin dall’inizio.

…Quindi no, Lois, nessuno può leggere nel pensiero. Neppure Superman. Si può solamente raggiungere il cuore con la “vista”, sia essa quella di un superuomo, di un vagabondo, di una piccola fioraia cieca.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Lois e Clark" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Qualche anno addietro, lessi un’intervista di un grande attore e cantante di teatro, di cui preferisco non rivelare il nome, che mi colpì in modo particolare. Una serie di confidenze, talvolta derivate dall’ambiente lavorativo, talvolta dall’intimità dell’interprete, fuoriuscirono liberamente dal suo parlato e vennero minuziosamente riportate dal giornalista in un testo scritto. Ad un certo punto, l’intervistato rilasciò una dichiarazione che mi rimase perfettamente impressa. Dopo aver affrontato le più disparate questioni, i due interlocutori arrivarono a disquisire sulla morte. Non rammento il perché quella piacevole conversazione si spinse fin lì, ma, d’un tratto, si fece molto più seria e personale. 

L’attore scelse di “sbottonarsi” dinanzi al suo indiscreto confidente e ammise quella che era la sua paura più grande. Egli non temeva la morte. Ammise, invero, di paventare la malattia, l’arrivo improvviso di un corpo estraneo e maligno, di un ospite indesiderato che potesse condurlo alla sofferenza, alla perdita progressiva e consapevole delle proprie forze, del proprio futuro. Il solo pensiero di ammalarsi e di dover lottare contro un grave “male” gli arrecava un incontrollabile spavento. L’idea della morte veniva accettata serenamente dall’artista ma la malattia, la sofferenza, l’indebolimento no, non potevano essere in alcun modo tollerati.

Quando terminai la lettura, questa sua affermazione mi indusse a riflettere fugacemente. E’ tipico dell’essere umano temere la malattia, sia essa un cancro, il “male” per antonomasia che cerca di divorare la sua “vittima” dall’interno, debilitandone il vigore, la gioia di vivere, sia essa un morbo che affligge progressivamente chi ne soffre, sia essa un nuovo attacco virale che si palesa d’improvviso, sconvolgendo la tranquilla routine.

La morte è parte naturale della vita” - scrisse un saggio regista e sceneggiatore americano. Temerla fa parte dell’istinto vitale di ogni essere vivente. Tuttavia, essa è inevitabile. Tutti noi sappiamo di essere mortali. Or dunque, ciò di cui abbiamo realmente paura non è la morte, che immaginiamo come un evento lontano, ma la malattia nella sua astrattezza, nella sua immagine figurata, ovvero un qualcosa che possa arrecarci dolore, che possa distruggere il nostro presente, azzerare il nostro futuro, che possa cambiare ineluttabilmente la nostra quotidianità ed indurci ad una fine prematura. L’uomo ha terrore della malattia ancor più che della morte poiché la malattia può rappresentare l’anticamera della morte stessa.

Storicamente, la propagazione di un germe sconosciuto, di una nuova epidemia, getta scompiglio nell’animo umano. Il virus ricorda con sibillina ferocia, con quiete latente, con la sua invisibilità, col suo manifestarsi imprevisto e subitaneo la fragilità della vita umana, la cagionevolezza della nostra scorza vulnerabile.

Ma aver paura della caducità della vita non è una peculiarità di noi terrestri. Anche gli alieni possono paventare la possibilità di ammalarsi.

Anzi, ad essere del tutto onesti, noi uomini siamo alquanto fortunati. Sin da piccoli, sappiamo quanto delicato sia il nostro corpo. Alcuni alieni, invece, neppure riescono ad immaginarlo. Prendendo i nostri primi raffreddori, sopportando la prima di tante altre febbri, tollerando tutti quei virus seccanti che, da bambini, ci obbligano a restare a letto, cresciamo coscienti e consapevoli, rammentando sempre la nostra debolezza, la soggezione insita in noi nei confronti della malattia, sia essa lieve o fastidiosa. Questa consapevolezza che ci portiamo dietro sin dall’infanzia ci permette di apprezzare ancor di più la vita di tutti i giorni. Se non rammentassimo il dolore e se non sapessimo quanto può essere effimera la nostra esistenza non riusciremmo a goderne appieno.

Gli alieni, torno a ripeterlo, non possiedono, necessariamente, questa bizzarra “fortuna”.

"Superman, Christopher Reeve" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più sul film cliccando qui.

Superman, ad esempio, non si è mai ammalato. Non lo sapevate? Ebbene, il più grande supereroe della storia del fumetto, fino ad un imprecisato momento della sua maturità, neppure sapeva cosa si provasse a tossire o ad avere mal di gola. Beato lui, direte voi. Beh, sì e no!

Clark Kent crebbe a Smallville, nel Kansas. Nutrito dai caldi raggi del sole giallo della Terra, l’ultimo figlio di Krypton divenne forte, veloce, praticamente invulnerabile. La sua conformazione robusta e impenetrabile lo protesse fin dal momento in cui atterrò, di buon mattino, in un campo isolato, alle propaggini della fattoria dei Kent. Clark intuì fin da ragazzo che la salute dei terrestri è notevolmente diversa dalla sua, quanto mai precaria e facilmente attaccabile. Un giorno, rientrato da scuola, Clark si mise a chiacchierare con suo padre, il suo migliore amico, il suo mentore, il suo unico confidente.

Jonathan, alzando il capo verso la tersa volta celeste, pensò a voce alta: “Sei stato mandato qui per una ragione, figliolo. Lo capirai, quando sarai pronto!”. Non aveva dubitato neppure per un solo istante. Jonathan sapeva che suo figlio, quel piccino che piangeva, tutto solo, rannicchiato in un’astronave argentea, avvolto in una larga “coperta” azzurra, sarebbe diventato un simbolo di speranza. L’anziano fattore confidò in quell’immagine custodita nel suo cuore, ma non poté vederla compiersi. Il padre del futuro supereroe se ne andò proprio in quel pomeriggio tranquillo, poco dopo aver terminato quel significativo scambio di parole.

Un infarto piegò il pover’uomo sotto gli occhi attoniti di suo figlio. Clark, nonostante potesse contare su tutti i suoi innumerevoli poteri, non poté far niente per salvarlo. Lo capì quel giorno: dinanzi al dolore umano, all’imprevedibilità del fato, neppure Superman potrà mai nulla.

Nel celebre lungometraggio del 1978, Clark, per tutta la sua adolescenza, è rimasto insensibile al dolore fisico. Né il fuoco, né il gelo, nessun’arma poteva scalfire la sua epidermide dura come l’acciaio. In un’intervista concessa alla reporter Lois Lane, Superman lo riconobbe candidamente: “Fino ad oggi, non ho mai avvertito alcun dolore fisico”.

Provate a supporre di crescere senza accorgervi mai del benché minimo dolore. La nostra visione dell’esistenza, della realtà, cambierebbe completamente. Saremmo più audaci, più pronti, di certo più spavaldi. Se nulla può ferirci, nulla deve essere temuto. Chissà come si comporterebbero gli uomini se anche loro possedessero le facoltà dei kryptoniani. Eppure, sebbene questa abilità d’essere pressoché immortale sia invidiabile, essa nasconde anche una condizione limitante che porta Superman a non comprendere totalmente i pericoli legati alla sua sopravvivenza.

Nella pellicola del 1978, il Superman interpretato dal leggendario Christopher Reeve è convinto che nulla potrà mai annientarlo. Un giorno, però, scoprirà la triste realtà. Quando Lex Luthor lo metterà astutamente a contatto con la kryptonite, ultimo residuato del pianeta d’origine del supereroe, Superman sentirà sulla propria pelle una forma acuta e lancinante di dolore. E lo sentirà per la prima volta. La kryptonite, che riluce di verdi radiazioni, induce Clark a contrarsi, a genuflettersi al suolo. I suoi poteri non avranno più alcun valore, e la sua possanza verrà piegata.

L’invincibile Uomo d’Acciaio retrocederà, in un lampo, ad uno stadio inferiore. Egli avvertirà la paura di un bambino rimasto senza difese, di un infante che evince, di colpo, la debolezza di se stesso. La particolarità di tutto questo è che Superman scopre d’essere mortale da adulto, apprendendo un qualcosa che noi esseri umani diamo per scontato sin da fanciulli. Questo è un trauma psichico che turba l’Uomo del Domani, mutando inesorabilmente la sua percezione della vita stessa.

Reagire ad un dolore mai conosciuto, prendere consapevolezza della propria fragilità è estremamente più traumatico quando tutto ciò si manifesta d’improvviso, senza alcuna avvisaglia, distruggendo ogni certezza. Superman, in questa famosissima scena del film originale, incarna l’uomo comune, il mortale, colui che apprende, tristemente, che la morte può ghermirlo da un momento all’altro.

"Superman, Christopher Reeve" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più su Christopher Reeve cliccando qui.

Anche in “Batman V Superman”, l’eroe a cui Henry Cavill ha prestato il proprio volto crede fermamente d’essere inscalfibile. Nel feroce scontro con Batman, Superman inspirerà nei suoi polmoni un tipo di kryptonite, rielaborata da Bruce Wayne sotto forma di polvere invasiva per attenuare la potenza del guardiano di Metropolis. Notando di non essere più in grado di utilizzare i propri poteri e vedendo il sangue grondargli dalle ferite, Superman perderà ogni sicurezza. Il Crociato Incappucciato, in quanto essere umano, ha imparato ad accettare la propria mortalità, Superman, d’altro canto, non può farlo, poiché assuefatto, da sempre, alla propria invulnerabilità. Spiazzato dalla propria, improvvisa, gracilità, l’Uomo d’Acciaio cederà e verrà brutalmente sconfitto dal Cavaliere Oscuro. Osservando questa sequenza d’azione, è possibile dedurre quanto l’onnipotenza di Superman rappresenti, per lui, un dono ma anche un limite.

"Superman, Henry Cavill" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più su "Batman V Superman" cliccando qui.

Come ho già avuto modo di scrivere, Superman non si è mai ammalato. La sua densa struttura molecolare lo rende immune ad ogni forma virale presente sulla Terra. Superman è un rifugiato, un figlio adottato e allevato dal nostro pianeta. Conseguentemente, la sua immunità è soltanto circoscritta all’atmosfera e all’ambiente terrestre. Superman può, quindi, ammalarsi se viene a contatto con un virus proveniente da Krypton.

Ruota attorno a questa idea l’episodio che più preferisco della serie televisiva “Lois e Clark”.

In questa avvincente puntata, l’artigiano, una sorta di brillante scienziato votato al crimine, rinviene la navicella con cui il piccolo Superman è approdato sulla Terra, a seguito della distruzione del suo pianeta natale. Analizzando la struttura esterna dell’astronave, l’artigiano si accorge che una moltitudine di germi e batteri di Krypton permangono depositati e cristallizzati su di essa. L’uomo si adopera, allora, ad estrarre i germi, riuscendo a sintetizzare in laboratorio un virus letale.

In una specifica scena, l’artigiano rivela la composizione di questo agente patogeno. Esso possiede una colorazione verde, che richiama il colore della Kryptonite, ha l’aspetto di una ragnatela spessa e fittissima, con filamenti lunghi, sudici e attaccaticci che aderiscono alle superfici che aggrediscono per infettarle. Per gli uomini, tale virus risulta essere del tutto innocuo ma per un kryptoniano può rivelarsi mortale.

L’artigiano attira Superman in una trappola e, con una mossa astuta, fa in modo che il supereroe respiri il bacillo senza rendersene conto. Nei giorni seguenti, l’eroe dalla grande S, interpretato da Dean Cain, accusa i sintomi di una brutta influenza. Al Planet, mentre sta dialogando con Lois, Clark starnutisce. La donna, che è a conoscenza della vera identità dell’uomo, ne resta sorpresa, facendogli presente come lui non possa ammalarsi. Clark, preoccupato, non capisce cosa stia accadendo.

Tornando a casa, il giornalista seguita a sentirsi male. La sua fronte perlata di sudore e il calore promanato dal suo corpo preoccupano i genitori adottivi. Come comportarsi dinanzi ad una creatura extraterrestre entrata in contatto con una forma virale misteriosa, ignota, per cui non esiste alcun rimedio?

Qualche ora dopo, Clark, con indosso il suo costume, inizia a sentirsi debole, a tossire vistosamente sino a crollare al suolo, svenendo tra le braccia della sua Lois. Quell’essere onnipotente, quell’uomo così indistruttibile da essere riuscito a volare su, tra gli astri, sino a toccare il sole con il palmo della mano, giace adesso disteso su di un letto, immobile, sofferente.

Clark, stremato, borbotta qualcosa: “Dunque, è così che ci si sente quando si sta male?!”. Una domanda sommessa, ingenua, che gli esseri umani non possono affatto comprendere tanto facilmente. Noi terrestri, abituati da sempre a star male, propensi a conoscere la paura, a contrastare i batteri, a fare i conti con i virus, non possiamo che faticare nel comprendere cosa stia provando un uomo venuto da un altro mondo che, da adulto, scopre d’un tratto cos’è una malattia che si propaga su di sé.

La kryptonite, con cui Superman ha fatto i conti più volte in passato, genera un dolore profondamente diverso. Il minerale verde del pianeta Krypton emana irradiazioni esterne, che possono essere in qualche modo fronteggiate, evitate da Superman allontanandosi dal luogo in cui risiede questa pietra. Dal virus, invece, Superman non ha scampo. Esso si insinua in lui come un male interno, da cui non ci si può sottrarre.

Il virus comincia, allora, a consumare l’eroe e nessuna cura elaborata dalla medicina può sortire alcun effetto. Se fosse cresciuto sul suo pianeta d’origine, Kal-El si sarebbe ammalato sin da piccino, avrebbe sviluppato le proprie difese immunitarie, sarebbe venuto a contatto col dolore, con la malattia tipica di ogni essere appartenente a quel mondo. A Superman è stato negato questo consueto percorso di crescita. Egli si è trovato, suo malgrado, a vivere in un’altra realtà, ad assumere i panni di un “dio”, a ricevere il dono di un’immortalità illusoria che può essere annientata dall’arrivo di una malattia sconosciuta.

Ammalandosi, anche Superman, il dio sceso tra gli uomini, sperimenta la paura più grande: quella di morire lentamente, la paura di spegnersi gradualmente venendo martoriato da un germe nascosto, invisibile.

In un ultimo, disperato tentativo di salvare la vita all’uomo che ama, Lois chiede aiuto a suo padre, un medico rinomato. Il dottor Lane sottopone Clark ad un trattamento sperimentale rischiosissimo: lo espone per un periodo prolungato alle radiazioni della kryptonite. Il paladino di Metropolis viene volutamente condotto sino allo stremo, sino al punto di morte, con la speranza che il virus possa perdere resistenza e muoia a sua volta. La sola possibilità di vita viene riposta proprio nell’arrivare il più vicino possibile alla morte. In quella atroce agonia, Superman, stroncato dal patimento, entra in coma. Prima di addormentarsi, Clark implora Lois di vegliare sui suoi genitori, i quali, a suo dire, non avranno la forza di reagire al peggio. Dopo di che, l’uomo dà un bacio alla sua amata e in quell’attimo esala l’ultimo respiro da cosciente.

Il dottor Lane porta via la kryptonite dalla camera. Adesso, spetta soltanto a Superman riemergere dalle tenebre. Il giorno successivo, Clark riapre gli occhi e ode il grido di Lois. Recuperati i poteri, in un battito di ciglia, l’Uomo del Domani vola via e salva la sua futura sposa. 

"Lois e Clark" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Non era mai stato così vicino alla propria dipartita. Superman, un essere maturato con la certezza d’essere immortale, ha sfiorato, con la propria mano, la gelida presa della morte. Il dio si è, così, accomunato ad ogni altro uomo. Temendo la morte, l’eroe giunto dallo spazio ha ricordato quanto importante sia la vita.

Essa è sacra proprio perché non è eterna. Per certi versi, è proprio la morte a dare valore alla vita. “Morire non è nulla, non vivere è spaventoso” - scrisse un grande poeta e scrittore francese. Superman sarebbe stato d’accordo.

Volando nello spazio siderale, al sorgere di ogni alba, l’ultimo figlio di Krypton indugia costantemente sulle ultime parole pronunciate dal papà. E’ diventato ciò che Jonathan voleva che fosse? Che valore ha dato alla sua vita, Superman?

Ha scelto di dedicare la sua esistenza al bene comune, divenendo il simbolo di quella speranza radiosa che incita la razza umana a contrastare il male in ogni sua parvenza. 

Il figlio è divenuto ciò che il padre avrebbe voluto. E’ questa l’unica forma di immortalità a cui l’uomo terrestre può aspirare: vivere nei ricordi, nelle azioni, nei gesti dei suoi figli. Non esiste malattia, non esiste virus, che possa contrastare l’eredità trasmessa di padre in figlio.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters  

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"Wade Watts/ Parzival" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il logo della “Warner Bros”, gradualmente, si dissolve sino a scomparire del tutto dallo schermo, e le luci della sala cedono il passo al buio. Nel momento in cui i titoli d’apertura si materializzano, una musica riecheggia nell’aria. La musica di “Ready Player One” risuona con compassata “cadenza”, come se non volesse farsi udire in un ritmato crescendo. Non si appresta neppure a far “rintoccare” le eteree melodie, prodotte a volume basso, come a non voler dare l’idea di provenire da una zona remota, dalla quale, man mano ci si porti vicino si riesce a sentire, nel ritmo coinvolgente, al massimo del proprio suono. La musica, in “Ready Player One”, si propaga con un’intensità tale da coinvolgere istantaneamente lo spettatore. Il brano in questione è una canzone molto celebre: si tratta di “Jump”, uno dei maggiori successi dei Van Halen.

Quando “Ready Player One” inizia a mostrarsi in tutta la sua crescente spettacolarità, sarebbe opportuno lavorare di fantasia. Con un po’ d’immaginazione, ci si può trovare a teatro, nel momento in cui, con il sipario appena alzatosi, il coro dal Golfo Mistico si accinge ad “intonare” il primo tema musicale dell’Opera. La musica, si sa, quando dà il via al proprio scorrere ha, tra i suoi intenti, niente affatto celati, il desiderio d’introdurre rapidamente alle atmosfere del film tutti coloro che siedono in platea. Se la colonna sonora riesce a catturare in maniera immantinente le attenzioni degli spettatori il gioco è fatto. Continuando, ancora per poco, a immaginare d’essere a teatro, potremmo considerare “Jump” come una sorta di prologo decantato. Non soltanto per il valore nostalgico della canzone in sé, che naturalmente ci rimanda agli anni ’80, ma anche perché tale canzone ha nel titolo il profondo significato di “Ready Player One”. “Jump” recita l’estratto del ritornello, “Salta!” noi potremmo ribattere nella nostra lingua. E’ proprio nel coraggio di compiere l’azione del “saltare” che si cela la didascalica morale del lungometraggio di Steven Spielberg, tratto dal romanzo di Ernest Cline.

Accompagnato dal pezzo dei Van Halen, il film comincia, seguendo il protagonista, Wade Watts, mentre viene giù da un alto palazzo con l’ausilio di una fune. Tutto intorno a Wade appare avvilente. Il protagonista è circondato da scenari consunti, caotici, come se la città fosse diventata un enorme agglomerato di rifiuti, un gigantesco ricettacolo di resti d’auto sozzi. Nel lento procedere di Wade per toccare terra, notiamo come tutte le persone, confinate nelle loro case, siano immerse in una realtà virtuale giocabile mediante un visore e dei guanti aptici. Anche Wade sta per raggiungere la sua postazione preferita per varcare i confini di OASIS. Le strade e le vie sono sormontate da palazzi dall’aspetto fatiscente. Le scenografie riscontrabili in “Ready Player One” rimandano alle ambientazioni che avvolgevano il piccolo robottino Wall-E, il quale svolgeva, in solitudine e da 500 anni, l’attività di “spazzino della Terra”. Spielberg ci conduce nel 2045, in un futuro dispotico in cui la sovrappopolazione e l’inquinamento hanno depauperato la natura e reso angusta la vita sul nostro pianeta. Le grandi metropoli sono decadute e la realtà circostante non offre che un paesaggio avvizzito dall’avidità umana.

La sola via di fuga è costituita da OASIS, il mondo virtuale partorito dal visionario James Halliday. Alla sua morte, come lascito, Halliday ha dato il via a tre difficilissime sfide per poter recuperare altrettante chiavi. Chi vincerà le sfide, le quali per essere aggiudicate necessitano la risoluzione di enigmi riguardanti sempre una parte importante della vita di Halliday, erediterà OASIS, e con esso il valore economico della creazione, nonché l’assoluto controllo.

Parzival guida sempre la DeLorean. Potete leggere di più su “Ritorno al futurocliccando qui.

 

Ready Player One” è un immenso buffet traboccante di squisite prelibatezze da assaporare con gli occhi, ad ogni battito di ciglia. I nostri sguardi famelici vengono così saziati dalle continue sequenze d’immagini che scorrono come succulente portate servite a ritmi frenetici, e cucinate da uno chef di prima grandezza, che risponde al nome di Steven Spielberg. Il regista vuol render satolli gli stomaci voraci di tutti coloro che traggono appetito dalla meraviglia della fantascienza. Il lungometraggio è una poesia tradotta in un tripudio d’immagini, declamata attraverso un eccezionale utilizzo degli effetti speciali e, attentamente, parafrasata con “figure retoriche” personificate in “avatar” che sfilano, come fossero su di un’immensa passerella. Spielberg è riuscito a catturare e a racchiudere nel palmo della propria mano l’essenza del romanzo, infondergli in essa il proprio inconfondibile tocco. “Ready Player One” è un madrigale alla cultura popolare degli anni ’80 ma non si limita a tributare con malinconia, ma trasporta il passato e lo mescola al presente degli spettatori e al futuro stesso dei protagonisti della storia, generando una soluzione unica, come un affresco universale.

Cosa, alla fin fine, non rende tangibilmente visibile Spielberg nel suo film?! Egli traspone di tutto: il Tirannosauro, King Kong, Alien, la DeLorean di Ritorno al futuro, Joker, Harley Quinn, Batman, Batgirl, Robocop, persino sua maestà, il Gigante di ferro. Cosa si potrebbe dire, senza lasciarsi influenzare dalla sfera emotiva, su un film in cui vi è una lunga scena in cui combatte Gundam, fiancheggiato da quel Gigante buono concepito dalla mente di Brad Bird, contro il terrificante MechaGodzilla? E cos’altro si potrebbe aggiungere su un film che rilegge, sempre rispettando il proprio stile, il cult “Shining”, facendo sì che i propri personaggi vengano trasportati all’interno dello spaventoso “set” di Stanley Kubrick in una sequenza sbalorditiva? E’ arduo poter commentare, con giudiziosa razionalità, l’emozione pura emessa dallo stupore visivo dell’opera di Spielberg.

Il Gigante di ferro, protagonista dell’omonimo capolavoro d’animazione, riveste in “Ready Player One”, naturalmente, un ruolo eroico e audace. Potete leggere di più sul film “The Iron Giant” cliccando qui.

 

Ready Player One” possiede la forza indomita della natura selvaggia de “Lo squalo” e di quella preistorica di “Jurassic Park”. L’ultima pellicola di fantascienza di Spielberg fa filtrare, nei propri personaggi principali, quello stesso anelito di rivalsa che esortava i dinosauri a spezzare le catene imposte dagli uomini. Ancora, il film è permeato da quel senso d’adrenalinica avventura che la tetralogia di Indiana Jones ha sempre fatto emergere con impareggiabile maestria. La pellicola ha, altresì, nella bontà dei due protagonisti, Wade e Samantha, la dolcezza fiabesca di “E.T.”, e nel loro amore, la vena sognante di “Hook – Capitan Uncino”.  “Ready Player One” è, a mio parere, la quintessenza tributaria del cinema Spielberghiano, perché riesce a coniugare la magnificenza di quel tipo di sogno che Spielberg ci ha da sempre regalato, e per mezzo del quale trasformiamo, ogniqualvolta vogliamo, la quotidianità in una fantastica avventura, fatta di una impalpabile magia che tende sempre al lieto fine.

In “Ready Player One” Spielberg non cita e dissemina solamente, egli plasma una storia semplice ma avvincente, genuina ma al contempo capace di rilasciare un messaggio da apprendere. “Ready Player One” è un film vecchio stile. Pur potendo fregiarsi di un’estetica che non ha paragoni, e una narrazione calata in un contesto avveniristico, ricorda le pellicole di un tempo, con quel particolare taglio che soltanto Spielberg sapeva e sa dare. Si tratta di un’opera che mi ha riscaldato il cuore nell’egual maniera di come facevano i film che vedevo da bambino, quelli impressi sul nastro di una videocassetta. “Ready Player One” ha conservato la bellezza incontaminata di un film generato negli anni ’80 e ’90, quel genere di pellicole in cui gli eroi, giovani e avventurosi, salvavano il mondo, fronteggiando forze apparentemente incontrastabili e, spesso, incarnate negli adulti. Era proprio la genuinità della narrazione, la spontaneità dei personaggi e quel loro spingersi oltre, al di là delle limitazioni che venivano loro imposte da terzi, a farmi adorare questo genere di film. “Ready Player One” è un film imperdibile, un luna park compendiato tra i limiti scenici di una macchina da presa, un diamante da custodire gelosamente e da rimirare quasi con devozione.

Parzival così come appare con il travestimento alla “Clark Kent”. In “Ready Player One” i protagonisti citano la seguente frase di Lex Luthor, tratta da “Superman” del 1978: “Signorina Teschmacher, alcuni possono leggere Guerra e pace e pensare che sia solamente un libro d'avventure; altri leggono gli ingredienti su una cartina di chewing-gum e scoprono i segreti dell'universo.” Potete leggere di più su Superman cliccando qui.

Wade è un orfano, ha perduto il padre e la madre quando non era che un bambino, e convive con l’ingenua zia e la di lei ultima conquista, vale a dire un uomo rozzo e violento. Il protagonista di questa storia non ha amici, eccetto quelli che ha conosciuto nella realtà virtuale, senza però averli mai incontrati personalmente: tra questi il suo migliore amico, Aech. Anche per Wade il gioco virtuale rappresenta una via di fuga, un modo per estraniarsi dal deprimente mondo che lo avviluppa. Padroneggiando il proprio Avatar, che risponde al nome di Parzival (riferimento al cavaliere medievale dell’omonimo testo), Wade si immerge nella realtà virtuale di OASIS, conoscendola e rileggendola sempre come la sua sola casa. E’ anch’egli un esule che ricerca una mera possibilità di ergersi su di una società decaduta e egoistica. Se per Wade la realtà è un afoso e soffocante deserto, OASIS è l’incarnazione olografica e virtuale di un’oasi sorta su verdi radure, bagnata da acque limpide e cristalline e circondata da palme che si levano alte, attenuando, con il loro possente fusto e le loro fronde, i cocenti raggi del sole, facendo sì che si generi sul terreno un’ombra in grado di rinvigorire il corpo e ristorare il cuore.

Tutti vogliono fuggire dalla “verità” che appare sotto i loro occhi, e tutti anelano solamente a trasferire la loro coscienza in una divertente illusione. In OASIS, Wade incontrerà altri amici, dapprima li conoscerà soltanto coi loro avatar, ma in seguito li vedrà per come sono realmente. Tutti loro formeranno una squadra per conquistare le tre chiavi ma, soprattutto, per salvare OASIS dalle perfide angherie e dagli oscuri voleri del losco Nolan Sorrento, massimo dirigente della multinazionale IOI.

E’ proprio in quel mondo irreale, eppure così vivibile e al contempo così fantasticamente intellegibile, che Wade conosce la ragazza di cui si innamorerà, la quale risponde al nome fittizio di Art3mis. Parzival dichiarerà ad Art3mis il proprio amore, ma lei lo rifiuterà perché intimorita dal fatto che nella vita reale non si sono mai incontrati. Art3mis, il cui vero nome è Samantha, è una ragazza bellissima, ma timorosa nel mostrarsi per com’è realmente dinanzi a Wade. Ella ha sulla faccia una voglia che le contorna l’occhio destro e si protrae ancora, fino a occuparle un lato della fronte. “Sam”, come preferisce farsi chiamare, copre sovente quella parte del volto con una ciocca dei suoi capelli rossi. Quando Wade riuscirà finalmente ad incontrarla, ed entrambi non saranno più velati dall’illusione dei loro avatar, egli le accarezzerà il viso, spostandole delicatamente i capelli fin dietro l’orecchio, così da poterla vedere senza nulla che la nasconda. Wade non nota alcuna differenza, e seguita, come prima, a confessarle il suo amore. Questo perché nessun avatar, così come neppure una graziosa chioma di capelli rossi, può celare la bellezza ammirata con gli occhi di un cuore innamorato. E’ qui che si snocciola il primo significato di “Ready Player One”, l’importanza della realtà e del modo in cui percepiamo il fantastico. Wade non si era di certo innamorato di un avatar ma di ciò che l’avatar di Art3mis testimoniava, in verità, la personalità di Samantha. Una volta conosciutala, Wade può comprendere realmente quanto il vederla, il poterla sfiorare davvero con il tocco della sua mano siano possibilità superiori a qualsivoglia espediente tecnologico. Samantha afferma, inoltre, che col tempo tutti hanno dimenticato la delicatezza del vento, riscontrabile sull’epidermide quando esso soffia forte, o la dolcezza di un sole appena sorto che illumina tutto coi suoi raggi. “Rinchiudendosi” in OASIS, l’umanità ha perduto ciò che ancora può essere apprezzato nel vero mondo.

Questo verrà ulteriormente capito dai giocatori quando si appelleranno alle parole del creatore, Halliday. Egli ha vissuto tutta la sua vita nella paura, nel patologico timore, scovando un rifugio nei videogiochi e nelle proprie creazioni, fino a quando il tempo inesorabile non ha reclamato la sua esistenza. Halliday si era innamorato di una donna, Kira, ma non ebbe mai il coraggio di dichiararsi. Non fece il “salto”, quello stesso “salto” ripetuto dalla canzone con cui il film apriva il proprio corso. Ecco perché quel brano fungeva da prologo, perché anticipava il messaggio più importante: affrontare con ardore ciò che ci spaventa. Wade con Samantha compirà il suo primo salto quando balleranno con i loro avatar sospesi nel vuoto di una discoteca virtuale, e proprio danzando su quel suolo sospeso per aria egli le dirà di amarla. Infine, quando Wade trionferà, non cederà alla paura e adempirà il suo ultimo salto: baciare la donna di cui si è perdutamente invaghito. Acquisito il controllo di Oasis, Wade, con la sua squadra, ricorderà a tutti che la realtà virtuale è un regno di fantasticherie. Ma senza trascurare esso, dobbiamo anche tornare a prenderci cura della nostra Terra e della nostra unica realtà, che ha come assoluta ed ineguagliabile bellezza, l’essere…reale!

La fantasia, la speranza e l’immaginazione sono tutti elementi che giungono in nostro aiuto e con i quali dobbiamo reinterpretare la realtà che ci circonda, senza però sostituirla. Nulla può prendere il sopravvento sul reale…la limpidezza di un sogno da ammirare deve rendere migliore la vera realtà, mai capovolgerla. Ecco perché “Ready Player Oneè un tuffo compiuto da un trampolino posto ad una ragguardevole altezza; da lassù possiamo tuffarci in libertà, precipitare giù in un vortice apparentemente senza fine, fino a planare agevolmente a terra…su di un suolo soffice come una realtà fatta di sogni e verità.

Voto: 8,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Batman, Wonder Woman, Flash, Aquaman e Cyborg dipinti da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ai piedi dei due eroi sopravvissuti, Batman e Wonder Woman, giace il corpo senza vita di un superuomo. “Dio” è caduto dal cielo, Superman è morto! Al termine di un aspro conflitto che lo ha veduto vincitore e, al contempo, vittima sacrificale, i suoi resti inermi, privi di un qualsiasi anelito di vita giacciono a terra, in un suolo macchiato del suo stesso sangue. Superman non volerà più nel cielo, riposerà sottoterra. Fu questo l’ultimo atto di “Batman V Superman”. La grande “S”, quel simbolo idiomatico che in Kryptoniano significa “speranza”, impressa su di uno sfondo azzurro come il cielo senza nuvole, che solcava impavida il firmamento, scomparve per sempre dallo sguardo degli uomini. “Justice League” riprende da questo punto ben preciso nell’arco narrativo dell’universo cinematografico DC Comics, e ci mostra gli esiti conseguenziali di una morte così inaspettata. E’ un mondo in crisi, scosso dalla notizia della dipartita di un amico, di un paladino della giustizia, di un protettore invulnerabile. Batman intuisce che la Terra è oramai indifesa, esposta pericolosamente alle minacce di invasori senza scrupoli, pronti a discendere dalle remote regioni dell’universo, coscienti che Kal-El non veglia più sul pianeta da cui è stato adottato. Bruce decide di costituire una lega di giustizieri, composta da uomini con capacità straordinarie, noti come metaumani. E’ l’alba della Justice league.

(Attenzione pericolo spoiler!!!!)

“Justice League” sbarca al cinema con il gravoso compito di proseguire l’universo filmico DC Comics, più volte funestato da giudizi inclementi, e di portare, per la prima volta sul grande schermo, la lega della giustizia, la collaborazione tra i più grandi supereroi della storia del fumetto americano. Diretto per buona parte da Zack Snyder, poi sostituito alla regia da Joss Whedon, “Justice League” è sostanzialmente avvicinamento, conoscenza, fiducia e unione.

  • Paradisiaca unione, infernale disgiunzione

Il concetto di “comunanza” è il fulcro basilare della storia, e progredisce perpetuamente durante lo scorrere della visione. Sin dal palesarsi dell’antagonista, Steppenwolf, ricorre il tema dell’inscindibile unione, la quale genera una forza indissolubile.  Steppenwolf fu un’entità arcana, un guerriero imponente, dalla forza sovrumana, armato di una robusta e affilata ascia grondante sangue. Questo combattente era a capo di un infernale esercito di parademoni con cui intendeva schiavizzare la Terra e soggiogarla al proprio dominio distruttore. Sull’orlo del baratro, gli abitanti della Terra, qualunque spazio essi occupassero, sia il regno marino, che quello terrestre, e ancora il regno di Temishira, unirono le loro forze a difesa di un bene universale.  Steppenwolf venne combattuto e sconfitto da un immenso esercito, sorto dall’alleanza tra uomini, amazzoni e atlantidei. Fu l’ultima testimonianza storica di una inseparabile alleanza. Da quel giorno non si ebbe più alcuna intesa tra i viventi dei tre regni, e il mondo progredì nell’apatia e nel disinteresse generali. Con il trapasso di Superman, Steppenwolf fa ritorno dal suo esilio, deciso a terminare ciò che aveva lasciato incompiuto, e per farlo ha bisogno delle mitologiche tre scatole madri da cui fuoriesce un potere smisurato. Le tre scatole madri sono state volutamente separate e nascoste in epoca antica poiché, se rinvenute e messe assieme, potranno alimentare il potere di Steppenwolf fino a renderlo invincibile.

Batman illustrazione Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Anche in merito alle tre scatole madri, “Justice League” effettua un’analisi sul concetto di “unione”. Il potere in esse contenuto è smisurato, e per tale ragione, le scatole furono separate, onde evitare un ulteriore accrescimento di una forza già incontenibile. Unione e divisione, due parole appartenenti a significati diametralmente opposti ma che sono soggette alla medesima indagine nel film. Dal vincolo trittico tra le tre scatole madri fuoriesce un potere malvagio, dalla cooperazione tra i supereroi, invece, emerge una forza votata al bene. L’eterna lotta tra il bene e il male in “Justice League” assume i contorni di uno scontro tra la forza perentoria della lealtà e tra la disfatta apocalittica della divisione perpetrata da Steppenwolf. Lo scenario paradisiaco dell’alleanza tra i supereroi della Justice League si contrappone al fronte della disgiunzione infernale alimentata dall’oscurantismo di Steppenwolf. La stessa arma, padroneggiata con efferata maestria da Steppenwolf, possiede una sorta di allegoria del genere. L’ascia è un’arma divisoria, in grado di “spaccare”, di spezzare e divincolare un legame, di annientarlo con la violenta separazione di un taglio netto.

  • Viaggio conoscitivo

E’ un bisogno inevitabile per il bene della Terra quello che sospinge l’uomo-pipistrello e la principessa delle Amazzoni a reclamare i più grandi eroi del mondo. E’ giunto il momento per decretare la scesa in battaglia di Barry Allen/ Flash, di Arthur Curry/Aquaman e di Victor Stone/Cyborg. Quello che balza all’attenzione è che sono supereroi alle prime armi. “Justice League” non traspone le icone della DC Comics al massimo della loro potenza, li rende, in vero, supereroi più fragili, come fossero agli inizi del loro viaggio di adempimento.

Aquaman dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ciò che accade in epoca antica, si ripete, in un certo senso, in età contemporanea: non viene radunato un esercito quanto un manipolo di supereroi rappresentativi e pronti a credere nel bene. “Io ci credo” afferma con decisione Wonder Woman! La fedeltà, il crederci, la fiducia reciproca sono tutte caratteristiche fondamentali per l’insaldarsi di una relazione cooperativa. E’ così che la lega della giustizia si plasma sotto i nostri occhi, nella difficoltà di un’interazione tra sconosciuti. “Justice League” è un viaggio di comprensione e di amicizia. E’ un film introduttivo e al contempo formativo. Spetta ad un solo rappresentante della “casata” degli uomini riunire le forze della Justice League. In questo viaggio esplorativo, concernente l’interazione tra supereroi diversi tra loro, Batman assurge ai canoni dell’uomo mortale e sprovvisto di poteri, all’esponente virtuoso di un’umanità distaccata.

  • Umanità e ispirazione

Ben Affleck veste gli abiti di un Batman tormentato, come fosse fuoriuscito dalla tavolozza di un fumetto e siffatto in carne ed ossa tanto è il rimando estetico che dà la sua presenza scenica se confrontata alla controparte cartacea. L’interpretazione di Affleck verte sull’umanizzazione del cavaliere oscuro. Il mostrare con animo provato le ferite fisiche calca la fragilità del crociato incappucciato, soggetto, in quanto uomo, al dolore e a un maggiore rischio in battaglia. Bruce Wayne è un uomo apparentemente comune, che si erge rispettosamente sui suoi simili per selezionare un team di protettori, ma mai per elevarsi a loro guida, in quanto avverte di non essere sufficientemente ispiratore per gli uomini. Il Batman di Affleck si prefigge un compito, quello di ridare vita a Superman. L’uomo d’acciaio, a detta di Wayne, era molto più umano di lui.

La fragilità umana del Batman di Affleck è dualistica: da una parte ci mostra l’unicità di un eroe mancante di poteri ma, allo stesso tempo, l’insofferenza di un supereroe che confessa di non sentirsi parte integrante dell’umanità stessa. L’umanità di Batman reca in sé una caratteristica che evidenzia i disagi, le turpe, e gli incubi del cavaliere di Gotham, elementi disturbanti che gli impediscono d’essere un eroe ispiratore e solare come lo era Superman, extraterrestre ma molto più integrato nella vita quotidiana rispetto a Bruce Wayne.

L’ispirazione è un argomento caro alla pellicola della “Justice League”. E’ un mondo privo di figure ispiratrici quello a cui le scenografie urbane di “Justice League” danno vita. Non vi è più ispirazione nel votarsi a una causa altruistica, non vi è ispirazione nello sforzarsi di vedere una luce fioca che lampeggia nelle profondità di un’opprimente oscurità. Neppure Lois Lane trae ispirazione alcuna dai suoi sentimenti per approcciarsi alla scrittura, e per comporre un testo che possa ridare speranza ai lettori del Daily Planet. Il compito della Justice League è più oneroso di quanto possano credere: essi devono scuotere gli animi degli indifesi e restituire loro la speranza di un domani luminoso.

Justice League” è un film sui supereroi, intesi in senso classico, coloro i quali vengono forgiati nelle fiamme divampanti della speranza, e ha il merito di presentarci i protagonisti in un tempo dilatato.

  • Supereroi: diversità e analogie

In principio, i guerrieri della Justice League hanno in comune soltanto le loro sbalorditive capacità, ma devono comprendere le reciproche affinità per divenire una squadra. “Justice League” fa interagire personaggi provenienti da “realtà” ed esistenze diversificate. Per tale ragione, la pellicola crea un gruppo eterogeneo nelle cui differenze emergono i corrispondenti pregi. Ezra Miller ci regala un Flash allegro, giocoso ed inesperto. Veniamo a conoscenza della tragica storia della sua infanzia, ma ciò non ci impedisce di notare come Barry, sebbene patisca la solitudine, viva la sua vita con il sorriso e con la speranza ottimistica che un giorno tutto possa cambiare. Barry è in piena attività da pochi mesi, è una scia rossa invisibile e inafferrabile. A Flash è spettato l’impegno di far divertire il pubblico mediante una verve comica opportunamente sceneggiata per far sorridere ma non certo ridere. Barry, con la sua dialettica gioiosa, vuol solamente strappare un accenno di sorriso, non ha affatto l’intenzione di far ridere a crepapelle. E’ questa una chiave interpretativa dell’opera, la DC Comics, per quanto con “Justice League” abbia sacrificato l’atmosfera cupa e drammatica dei precedenti lungometraggi, non tramuta se stessa. Mantiene una serietà limite e l’alterna ad alcuni momenti più spensierati ma mai costanti o esagerati, fino ad ottenere un ritmato equilibrio tra toni gravi e divertimento.

Il Barry Allen di Ezra Miller è un ragazzo timido, introverso e insicuro, e la sua interpretazione flirta col pubblico perché ci dona l’illusione che anche una persona apparentemente impacciata possa nascondere un potere fantastico che imparerà a dominare. Per come è sceneggiato, il suo potere è un dono non una maledizione. L’esatto contrario di Cyborg. Cyborg vive la sua nuova vita come se dovesse pagare il prezzo di una resurrezione incorporea. E’, infatti, risorto dalla morte per rivivere con una veste robotica, cibernetica ed eroica. Anche Aquaman è insoddisfatto, risente del peso della sua investitura da Re di Atlantide, e si unisce alla lega con più di qualche remora. L’Aquaman di Momoa è un eroe indomito e indomabile, schietto e possente, ma dietro la sua scorza coriacea e cinica nasconde l’orgoglio nell’essere sovrano di un reame acquatico e di far parte di una compagine di eroi.

Solitudine, malcontento, frustrazione, voglia di cercare il proprio posto in un mondo che necessita di eroi, sono solo una parte degli stati d’animo e dei desideri che accomunano i supereroi della lega della giustizia. Nei loro caratteri diversi sono riscontrabili più similitudini di quanto parrebbe superficialmente. Persino l’evento religioso e sovrannaturale della resurrezione, vissuto da Cyborg, si verifica nuovamente con Superman, quando egli verrà riportato in vita dagli eroi della Justice League. Le vicende e le sensazioni emotive vissute dai supereroi finiscono per dipanare un analogo e ingarbugliato intreccio. “Justice League” è la progressione, nonché l’evoluzione intima, di un manipolo di eroi. Questi eroi, prima ancora di divenire una compagnia indivisibile, ritrovano la propria identità grazie al rapportarsi tra loro.

Ed è con Superman e Wonder Woman che la Justice League scova i suoi emblemi carnali, le ideologie personificate e ispiratrici che tanto stava ricercando. Clark e Diana vengono caricati di una virtù trascendentale, perché incarnano le fattezze del dio uomo e della dea donna. Il ritorno dell’ultimo figlio di Krypton rappresenta lo schiudersi di una nuova alba, avvenuto dopo un “crepuscolare tramonto” che aveva ceduto il passo alla notte più buia. Gal Gadot con la sua Wonder Woman illumina lo schermo con la delicatezza di un volto bellissimo, con la grazia, il coraggio e la benevolenza di un’icona elegante, elevandosi al rango di eroina-simbolo più sfavillante della Justice League.

  • Conclusioni

“Justice League” è un valente e piacevolissimo Cinecomic, che incespica soltanto in poche pecche. Discutibile e lacunosa è la caratterizzazione del cattivo di turno. L’antagonista Steppenwolf è privo di carisma, non ha intriganti motivazioni dietro il suo oscuro agire, se non quelle d’annientare l’Umanità. Egli risulta, pertanto, mortificato a discapito di un’attenzione dedicata, e più che ben eseguita, agli eroi protagonisti. Le due ore di visione scorrono via con rapidità, tuttavia, si avverte distintamente il taglio di alcune scene che avrebbero reso il film ancor più avvincente. Sarà lecito attendersi una versione estesa con l’uscita del formato Blu-ray.

Justice League” diverte ed emoziona con una storia lineare, con adrenaliniche scene d’azione ma soprattutto con un’ottima caratterizzazione dei personaggi. “Justice League” è un film che vuol rammentare l’importanza di credere negli eroi, e quanto essi siano importanti nel reggere sulle loro possenti spalle il peso della configurazione della speranza, di un’ispirazione che possa rincuorare l’animo timoroso degli uomini soli. Un fardello che può piegare il corpo di un solo supereroe, non se questi è supportato, nel reggere tale vincolo, da altrettanti supereroi. E’ questa la Justice League, la solida fratellanza che fa la differenza e ne costituisce la forza; è questa l’unione ispiratrice.

Justice League dipinta da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quella che ristora l’animo degli scrittori, come accade sul finale a Lois Lane, e li invita a comporre ancora un altro pezzo, le cui parole vengono intrise nell’inchiostro e scritte coi sentimenti.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Christopher Reeve non si limitava soltanto ad indossare dei grossi occhiali che contornavano gran parte del viso, ma trasformava abilmente il proprio aspetto con l’ausilio di un leggero ma efficace trucco, assieme ad una pettinatura che gli copriva parte della fronte. A differenza di ciò che in futuro faranno i suoi successori, Reeve, quando interpretava Clark Kent, cambiava anche modo di recitare, anteponendo al suo atteggiarsi sicuro, un’andatura dinoccolata, una gestualità buffa e un parlare timido e impacciato. Richard Donner, il regista dei primi due film che ebbero Reeve come protagonista, diceva spesso che l’attore interpretava un ruolo nel ruolo. La rappresentazione del dualismo Kent/Superman offerta da Reeve si sposa magnificamente con il commento che Umberto Eco fa nel suo saggio “Apocalittici e integrati” all’iconico personaggio nato dalla penna di Jerry Siegel e dalla matita di Joe Shuster. Superman è l’aspirazione a cui noi tutti aneliamo, Clark, invece, è per l’ultimo figlio di Krypton il suo desiderio di normalità e di integrazione in un mondo che inizialmente non gli appartiene.

Un’interpretazione così affascinante del personaggio fa leva sulla necessaria diversità che dev’essere mostrata tra le due personalità dell’eroe. Questa differenza mai (secondo il mio modesto parere) è stata realizzata sul grande e piccolo schermo, se non nella figura di Christopher Reeve. L’unico ad aver catturato i tratti gentili e garbati di un timido Clark, il solo ad aver ostentato con profonda naturalezza, l’onnipotenza del primo eroe dei fumetti.

Risale al 1973 l’inizio dell’amicizia tra Reeve e Robin Williams, quando entrambi studiavano alla Juilliard School. I due, tra gli studenti più meritevoli e apprezzati nell’ambito della recitazione dell’intero istituto, stringeranno un rapporto di sincera e leale amicizia, arrivando a fare una promessa: chiunque dei due avesse ottenuto fama e successo, avrebbe aiutato l’altro, se questi si fosse trovato in difficoltà economica.

Nel '77 fu portata all’attenzione di Reeve la notizia che si svolgevano dei provini per il ruolo di Superman. La lavorazione della pellicola stava catturando la curiosità dei critici per la presenza di due stelle del cinema come Marlon Brando e Gene Hackman. L’attore nativo di New York, fino a quel momento sconosciuto, aveva avuto una prima esperienza a teatro in un’opera dal titolo “A Metter of Gravity”, venendo scelto, dopo un’audizione, direttamente da Katherine Hepburn che lo volle nel ruolo di suo nipote. La foto di Reeve e il suo breve curriculum vennero spediti a Lynn Stalmaster, il direttore del casting, che mise inizialmente l’immagine dell’attore tra coloro che dovevano essere scartati. Una più accurata riflessione, che coinvolse anche il regista, portò a rivalutare la scelta e si decise di contattare il giovane Reeve per un breve incontro che si svolse allo Sherry Netherland hotel. Quando Reeve arrivò, il cineasta e la produttrice Ilya Salkind, rimasero impressionati dalla somiglianza e dal richiamo fisico che l’attore emanava. Decisero cosi di consegnarli un copione di 300 pagine e di invitarlo all’audizione. Reeve credeva di non avere molte possibilità ma quando salì sul piccolo palcoscenico utilizzato per i provini, la sua altezza (193 cm) e l’imponenza che trasmetteva unita al modo di porsi convinsero immediatamente Donner, che di lui finirà per dire “E’ Superman, l’abbiamo trovato!” Il resto, come spesso si dice, è storia nota. Il film sull’eroe DC Comics sarà acclamato dal pubblico e dalla critica conquistando anche ai premi Oscar una statuetta nella categoria dei migliori effetti speciali.

Dopo un successo cosi planetario, la realizzazione di un sequel fu un processo del tutto conseguenziale e più che scontato, tenendo presente che molte delle scene del secondo film furono girate nello stesso periodo di lavorazione del primo. “Superman II” uscirà nel 1980 e sarà uno dei pochi casi dove un seguito batterà addirittura “l’originale”, sia in chiave economica che critica. E’ il periodo d’oro di Christopher Reeve che accoglierà il successo e la gloria insieme all’amico di un tempo, Robin Williams, anche lui ormai una stella affermata e pronta ad illuminare le platee e le sale cinematografiche. La figura di Reeve comincerà ad essere indissolubilmente legata a quella dell’Uomo d’acciaio. Reeve tornerà ad indossare il mantello rosso in altri due film, qualitativamente inferiori ai primi due, ma sorretti senza dubbio dalla sue sempre ottime performance. Nel terzo, in particolare, lo vediamo dilettarsi in una duplice versione dell’eroe: una burbera e vendicativa pronta irrimediabilmente a scontrarsi contro l’animo buono e altruista dell'"umano" Clark.

In quegli anni Reeve saprà spaziare abilmente anche in altre pellicole, dimostrando una versatilità che avrebbe fatto di lui un attore completo, capace di calarsi nei ruoli più disparati. Lo vediamo, infatti, nei panni del protagonista Jonatahan Fischer nell’acclamato “Street Smart” al fianco di Morgan Freeman, e in quelli di Jack Lewis nel capolavoro “Quel che resta del giorno” accanto ad Anthony Hopkins e Emma Thompson. L’anno precedente, nel 1992, è tra gli straordinari protagonisti dell’esilarante commedia “Rumori fuori scena” film che porta sullo schermo l’opera di Michael Frayn, appartenente al genere del Teatro nel teatro.

Superman/ Christopher Reeve disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Tre anni dopo, Il 27 maggio 1995, nel corso di una gara a cavallo a Charlottesville, Christopher Reeve cade brutalmente da cavallo, riportando lo spostamento di due vertebre cervicali. Reeve rimase paralizzato dal collo in giù perdendo l’uso di tutti gli arti. Da allora e per tutto il resto della sua vita rimarrà costretto a vivere su una sedia a rotelle e collegato a un respiratore artificiale. Quando la notizia si spargerà, accorrerà all’ospedale anche il suo fraterno amico, Robin Williams. Erano arrivati entrambi al successo, ma quel patto di un tempo, dettato dai più puri sentimenti di amicizia stava per concretizzarsi in uno scenario purtroppo ancor più drammatico di quello che poteva essere rappresentato dalla difficoltà economica: Robin Williams coprirà gran parte delle spese per garantire all’amico l’uso di una macchina che gli permetta di vivere il più possibile.

Il destino fece una violenta breccia rompendo lo specchio tra la finzione e la verità e distruggendo l’immaginario confine che separa il sogno del cinema con la dura realtà. Il fato così crudele spianò la strada a un esito beffardo e intollerabile. Reeve, che con tale spontaneità era riuscito ad incarnare le fattezze dell’uomo d’acciaio, venne prostrato e immobilizzato da una Kryptonite dilaniante che volle ricordare con estrema crudezza quanto la fantasia possa essere, a volte, spazzata via dall’asprezza della fatalità. L’uomo non era più un “Superuomo”, non era davvero invulnerabile come poteva così tangibilmente sembrare su quel nastro di pellicola. Il suo corpo non era realmente d’acciaio e le sue ossa furono pertanto come frantumate dalla violenza di un imprevedibile e maledetto incidente. La sua forza corporale era venuta meno, le sue gambe avevano ceduto: Superman non poteva più volare su nel cielo. L’imprevedibilità aveva annientato la sicura affidabilità di un sogno, il medesimo che a noi spettatori ci aveva oniricamente illuso che quell’attore fosse ben più di un interprete, ma un vero supereroe dalla robustezza inviolabile.

Dopo l’incidente, Christopher Reeve sarà in prima linea nella lotta sui diritti dei disabili e sulla ricerca per le cellule staminali. Se il suo corpo aveva ceduto, il suo cuore continuò invece a lottare. Con quella sua coraggiosa resistenza stava dimostrando quanto i canoni di quel personaggio continuavano ad appartenergli. Reeve si elevò così ad eroe imbattibile, a un simbolo di ricerca costante di felicità, del superamento di ogni forma di afflizione fisica ma soprattutto mentale. Nel 1998, nonostante le sue condizioni, Reeve offrirà una prova di assoluto spessore nel film per la televisione “La finestra sul cortile”, remake del capolavoro di Alfred Hitchcock, dove, nonostante la suspense registica non sarà paragonabile a quella del Maestro, la prova del protagonista verrà comunque elogiata universalmente fino a fargli ottenere una nomination al Golden Globe come Miglior attore. Tra il 1998 e il 2003 scriverà due libri, in cui racconterà la sua esperienza e il suo stato d’animo, cercando di incoraggiare chi sta vivendo situazioni analoghe e trasmettendo la sua voglia di vivere. Nel 2003 e nel 2004 sarà sul set della serie “Smallville” adattamento televisivo delle origini di Superman.

Il 10 ottobre del 2004, a soli 52 anni, si spegne al Norther Westchester Medical Center di New York lasciando la moglie Dana, il figlio Will, e i figli Matthew e Alexandra avuti da un precedente matrimonio con Gea Exton.

Quel giorno, il Superman di intere generazioni, smise di volare, col cuore e con la mente, per sempre.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere il nostro articolo "Superman - Credere che un uomo possa volare" cliccando qui.

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Il Superman di Christopher Reeve disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Tra le pagine di un fumetto i supereroi videro la luce e conobbero la vivezza cromatica di una vita immaginaria. Clark Kent, Bruce Wayne, Diana Prince, Jay Garrick, le identità segrete dei più famosi eroi del mondo nacquero sulla carta, grazie al tocco di una matita. In quel tempo, sfogliando le pagine di un fumetto, i lettori di tutto il mondo potevano venire a contatto con i loro supereroi preferiti, scoprire i segreti, apprezzare i valori d’altruismo, generosi di uno spirito forte e magnanimo, nato per imporsi sui maligni e poggiare il proprio mantello come uno scudo protettivo, impenetrabile, sui corpi degli indifesi e dei meritevoli. I supereroi nacquero e vissero per svariati lustri tra le pagine fino a che, un giorno, balzarono via, fuoriuscirono dalla carta e conobbero la pellicola. Tutto, d'un tratto, cambiò. Si capì quel giorno, quando Superman volò sul grande schermo, che i supereroi potevano vivere in un altro spazio, ed ottenere il medesimo successo.

Oggi l’avventura supereroica è un’usanza abituale che trascende il formato cartaceo, un appuntamento consueto che trova nel cinema, ancor più che nei fumetti, terreno fertile per attecchire e fortificare l’amore dei fan. Questi ultimi anni sono stati quelli in cui il cinema supereroico è riuscito a ritagliarsi una porzione di spazio nelle scelte dei grandi produttori hollywoodiani. Ciò che oggi è una prassi consolidata, nota con un nome appositamente scelto come “Cinecomics”, un tempo non era una produzione così scontata. Trasporre un supereroe al cinema agli albori del genere era di certo un’impresa ben più complessa. Un’impresa, per l’appunto, cui solo un eroe poteva trarne un vasto successo. Un compito che doveva spettare al precursore, al più luminoso simbolo di speranza: Superman, l’antesignano eroe della storia dei fumetti, prossimo a divenire il primo supereroe ad apparire sul grande schermo in un'importante e costosa produzione.

In principio, al culmine di questo grande viaggio, Superman pativa una forma di cecità assoluta. Lui, il più potente tra gli eroi, colui che poteva scrutare ciò che appariva celato alla semplice vista umana, era cieco e impossibilitato a vedere quello che l’orizzonte gli riservava. Non conosceva casi precedenti al suo, sebbene il Batman interpretato dal mitico Adam West avesse già calcato il suolo del cinema qualche anno prima. In quel caso, però, si trattava di una produzione differente, per certi versi iconica, ma ironica e molto meno ambiziosa.

Superman doveva avanzare verso il percorso dell’approdo alla settima arte senza poter contare su esempi già in precedenza verificatisi. Sulla sua figura, avvolta da un rosso mantello, gravava il peso d’inaugurare un genere. Quali spalle, se non quelle dell’uomo d’acciaio, potevano reggere tale arduo battesimo?

Così, Superman recuperò la sua vista prodigiosa e, sebbene non riuscisse a scrutare ciò che il futuro gli avrebbe riservato, avanzò con coraggio per aprire la strada ai suoi successori. Un po’ come accadde nel mondo del fumetto quando, sulla copertina di un albo, sollevò in aria un’auto con a bordo una banda di malfattori. In quel caso, egli fu il primo supereroe a comparire su carta stampata. Con l’ardore di chi è animato dalla fiamma della giustizia, Superman varcò i limiti del grande schermo e da opera cartacea divenne arte filmica.

Ad indicare la via all’ultimo figlio di Krypton fu Richard Donner, il regista del film, che immortalò su camera la forza e il volo del supereroe per antonomasia. “Superman” del 1978 fu il padre dei film sui supereroi, il capostipite di un nuovo modo di narrare il cinema fantastico. In “Superman” sono riscontrabili, per la prima volta, quei classici espedienti narrativi che verranno adoperati in tutte le successive trasposizioni di genere. E’ ben apprezzabile in “Superman” un’esemplare linearità. Il film scorre secondo un'accurata organizzazione. Esso è strutturato, diviso, in celle che compongono lo sviluppo della storia. Dalla fanciullezza alla giovinezza dell’eroe, la prima "cella", si passa alla sua maturità, giungendo alla sua ascesa come supereroe, proseguendo verso il suo incontro con la donna amata e terminando con lo scontro con l’acerrimo rivale. Tutti metodi perpetuati per la prima volta e con tale maestria da venire presi come esempio da seguire.

“Superman” fu altresì il principale kolossal supereroico a fregiarsi di un cast stellare, consuetudine tipica delle lavorazioni contemporanee: a impersonare il padre biologico di Kal-El fu, infatti, Marlon Brando e a vestire i panni del genio criminale di Lex Luthor fu invece Gene Hackman. Inoltre, per la parte del padre adottivo del giovane Clark venne scelto Glenn Ford. Tuttavia, non venne mantenuta la medesima metodologia di scelta per scritturare l’attore per il ruolo più importante: quello di Superman. Donner voleva, per l’appunto, un interprete sconosciuto, in modo che il pubblico, osservando l’agire dell’attore, non lo rammentasse in qualche altro film e lo paragonasse a nessun altro ruolo. A dar vita al supereroe fu Christopher Reeve che, a seguito dell'immensa prova e dell’incredibile somiglianza in merito ai connotati fisici e alle sfumature caratteriali del ruolo conosciuto, venne considerato all’unanimità più che un interprete di Superman, il vero Superman. Per tale ragione, Donner era solito affermare Christopher Reeve non interpretava Superman, era Superman”.

“Superman” narra la storia dell’ultima testimonianza vivente di una stirpe aliena. Sul pianeta Krypton, lo scienziato Jor-El tiene un disperato colloquio con le autorità di spicco del pianeta, informandole che, secondo i suoi studi, il pianeta è destinato all’autodistruzione. Jor-El esorta i governati ad abbandonare il pianeta ma gli altri scienziati obiettano che Krypton sta solamente cambiando la propria orbita. Il parere allarmista di Jor-El viene pertanto accantonato. Il grande scienziato, però, sa che ciò che afferma è vero e sebbene sia condannato a restare sul pianeta decide con la propria consorte Lara di salvare il loro unico figlio appena nato, Kal-El.  Il giorno previsto da Jor-El giunge come un’infausta apocalisse e in quella notte drammatica, il suolo comincia a franare sotto i piedi dei Kryptoniani. Poco prima che il culmine del disastro possa risucchiare la casata degli El, Jor-El e Lara depongono il loro bambino a bordo di una piccola astronave, indirizzando il suo corso, mediante il pilota automatico, verso la Terra. L’astronave parte per la rotta stabilita quando il pianeta implode.

Ciò che è assolutamente toccante nella sequenza introduttiva di “Superman” è il legame inscenato a parole e perdurato sebbene il distacco dello spazio profondo separi il figlio vivo dai genitori scomparsi. Poco prima di lasciarlo andare, il padre si commiata dal figlio declamando un toccante elogio amorevole nei confronti della propria prole. Secondo il parere di Jor-El, il padre diverrà figlio e il figlio diverrà padre, come se l’ultimo pensiero dello scienziato fosse destinato alla grandezza che compirà sulla Terrà il proprio figlio, una volta raggiunta l’età adulta, quella di un futuro padre. La meraviglia dell’affetto paterno trova la propria sublimazione durante il lungo viaggio che Kal-El compie addormentato e cullato all’interno dell’astronave. La voce del padre, replicata mediante una registrazione infinita, espone quelle che saranno le glorie del piccolo infante, vale a dire tutti i poteri che Superman, in quanto Kryptoniano, erediterà una volta raggiunta la Terra. A questo va aggiunto un lungo excursus storico narrato dalla voce paterna sulla storia del pianeta d’origine di Superman e di ciò che fu la sua provenienza. E’ come se il papà volesse accompagnarlo in ogni suo attimo, durante un viaggio lungo anni e anni in cui il piccolo comincia anche a crescere, sonnecchiando. Il padre “aggira” l’ostacolo della morte, restando vicino al figlio durante la sua traversata verso la salvezza.

Una volta raggiunta la Terra, il piccino viene scoperto dai coniugi Kent, da sempre desiderosi di avere un bambino. Appena arrivato sul pianeta, come previsto dal padre biologico, il piccolo, a cui i nuovi genitori daranno il nome di Clark, mostra le sue abilità superumane. In quanto ultimo discendente di Krypton, Clark è dotato delle medesime qualità straordinarie e, una volta venuto a contatto con il sole della Terra, egli acquisisce i suoi poteri, che imparerà a padroneggiare con maestria. Egli è più veloce di un treno in corsa, è dotato di una forza sovrumana, un udito sviluppato all’inverosimile, può vedere attraverso gli oggetti, rilasciare un raggio termico dai suoi occhi, soffiare onde gelide e compiere salti prodigiosi. Clark è inoltre invulnerabile e apparentemente immortale, incapace di ferirsi, di ammalarsi e di provare dolore fisico: Superman è una sorta di dio sceso tra gli uomini.

A seguito della morte dell’adorato padre adottivo, Clark, tormentato dagli enigmi irrisolti circa la sua esistenza, scopre un cristallo verde e luminoso che lo guida fino all’Antartide. Una volta lanciato il cristallo sulla calotta, esso fa sorgere la Fortezza della Solitudine, una costruzione cristallina che replica la struttura architettonica del pianeta Krypton. Al suo interno, Clark rinviene dei cristalli in cui sono conservati i dati storici e culturali relativi al suo pianeta e, di conseguenza, alla sua origine.

Clark scopre così la sua vera discendenza e avrà modo di parlare con l’ologramma del padre Jor-El, il quale lo istruirà su ciò che dovrà essere. Quando compirà il proprio percorso formativo, Clark indosserà il costume della propria casata, con il simbolo di una grande “S” stampata sul petto, idioma Kryptoniano della speranza. Clark conclude la propria ascesa imparando l’ultimo e più prodigioso dei suoi poteri: la facoltà di poter volare.

Clark è pronto a divenire un paladino e a stabilirsi nella città di Metropolis, dopo essere diventato un giornalista al servizio dell’informazione presso il Daily Planet.

“Superman” è un’opera ordinata e scorrevole che ha saputo combinare sapientemente l’azione con l’ironia, l’avventura con l’emozione, la filosofia del personaggio con la sua verve più votata all’eroismo. In “Superman” si analizza per la prima volta la duplice identità uomo-eroe. Questa analisi meticolosa viene adempiuta per mezzo di una realistica interpretazione da parte del compianto Christopher Reeve che fece dell’uomo d’acciaio un ritratto naturale e umano, tanto schietto da avere la parvenza d’esser vero.

Nella sua prima apparizione pubblica, Superman vola con le braccia spianate e rivolte verso l’alto. Una salita scenica dalla terra al cielo, compiuta per raccogliere tra le sue braccia il corpo dell’amata Lois Lane, vittima di un incidente in elicottero che le stava costando la vita. Superman la regge per poi proseguire il suo volo con flemmatica assuefazione a ciò che ha dell’incredibile. Con tale calma, Superman allunga il suo braccio e afferra, in caduta vertiginosa, l’elicottero, fermandolo come fosse piuma al vento accolta tra le dita. In una tale naturalezza è riscontrabile la grandiosità del Superman di Christopher Reeve. Egli compie l’impossibile con la semplicità di chi riesce a dimostrare che tutto ciò sembra davvero possibile. Superman personifica il miracolo, e lo materializza dal vivo come fosse un’ovvietà.

Superman si innamora, istantaneamente, della reporter Lois Lane, la quale ricambia le sue attenzioni. L’amore che si sviluppa tra il supereroe e la giovane donna è un sentimento che assume un valore ancestrale nella sequenza in cui l'ultimo figlio di Krypton invita Lois a volare con lui. Quando Clark invoglia Lois a volteggiare su di una Metropolis addormentata, reggendola con le sue braccia, la donna corteggiata non comprende la vera identità dell’uomo che la sospinge nell’atto di librare. Nella rinomata sequenza in cui l’eroe dalla grande S, “cristallizzata” su uno sfondo azzurro come il cielo, invita Lois a volare, la meraviglia vissuta in quegli intensi momenti, in cui i due volavano a pochi metri dalla superficie del mare per poi giungere su in alto e disperdersi tra nuvole d’effimera consistenza, viene espressa dalle riflessioni intime della donna. Pensieri divenuti parole inespresse vocalmente. Superman, sebbene abbia un udito incredibile, non può sentire cosa Lois stia dicendo realmente. I pensieri della donna, sussurrati, vengono confessati agli spettatori, che divengono così i custodi delle sue sensazioni.

Superman dona alla donna amata la possibilità di sentire sulla propria pelle il tocco del vento, di contemplare la propria immagine riflessa nello specchio d’acqua nel mentre resta sospesa nel vuoto, con le braccia distese su di un letto di nuvole. Superman condivide con lei il suo potere più bello e lo fa per far sì che ella capisca cosa si possa sentire ad essere come lui: questo volo su nel cielo rappresenta l’avvicendamento tra due essenze vitali, riscontrabili nella presa di una mano e nel volo di un corpo. E’ l’essenza vitale della fantasia che permette di spiccare il volo e l’evento della realtà, oramai modificata dall’arrivo di Superman.

Lois ammira il grande Superman ma interagisce con riservatezza con Clark Kent. Un paradosso ben più profondo della semplicistica visione che vede Lois amare l’eroe misterioso e non l’uomo che le sta accanto. Reeve colse ogni sfaccettatura del personaggio, incarnando a dovere la controparte del supereroe, ovvero Clark Kent, mansueto e goffo giornalista che corteggia Lois Lane, innamorata però solamente di Superman e incapace di notare ciò che Clark cela sotto i suoi ingombranti occhiali.

Nel suo travestimento da umano, Superman espone pubblicamente il suo grande senso critico alla razza umana. Non me ne voglia Quentin Tarantino, ma per quanto affascinante la sua teoria sulla filosofia di Superman, espletata nel monologo finale di “Kill Bill Vol 2”, non posso condividerla totalmente. E’ vero che Superman è un eroe unico, poiché nato con le sue speciali capacità. Credo però che la sua controparte Clark Kent, con quel suo studiato camuffamento, più che rappresentare gli uomini codardi, inetti e incapaci di credere in se stessi, si faccia in verità beffa di chi gli sta accanto. Egli esprime in quel travestimento un’altra critica alla razza umana: la caratteristica deplorevole delle persone di essere superficiali. Superman sa che non lo riconosceranno, seppur usufruisca di un travestimento di poco conto, perché è nella natura umana ignorare il più debole, colui che appare “indifeso”. Clark non sembra, agli occhi di chi lo osserva quotidianamente, meritevole d’essere apprezzato, o ancor di più, conosciuto. Superman con Clark Kent assume le sembianze dell’uomo dimesso, schiacciato dai prepotenti, e sono proprio gli indifesi le persone che Superman difende col suo volere. Nella sua metamorfosi per mischiarsi agli uomini Superman diviene quel tipo di persona bisognosa del suo stesso aiuto. Inoltre, Superman sa che le persone badano soltanto alle apparenze e per tale ragione si beffa della loro arguzia: nessuno scruta a sufficienza il volto di Clark, nessuno apprezza quei suoi modi pacati, indagando la personalità del giornalista per vagliare se davvero nasconda ben più di quanto lasci intravedere. Nessuno dà peso a chi non si pone al centro della scena. Clark Kent, nel proprio isolamento, denuncia la superficialità dell’uomo generalista, incapace di avvicinare il prossimo, l’essere umano ipocrita, che predica uguaglianza e poi svilisce chi si dimostra educato e rispettoso. Nella propria contrapposizione, Superman si erge sugli uomini, ma al contempo si china per mimetizzarsi tra essi, cosciente dell’indifferenza che alberga nell’animo dei terrestri. Una delusione che avverte anche negli occhi della sua amata, fin quando ella non scoprirà, con stupore, che Superman e Clark non sono altro che la stessa persona.

Nel film sull’eroe dalla grande “S” sono raccontate e mostrate le imprese portentose di Superman: sequenze entrate nell’immaginario collettivo per chi ha amato il lungometraggio sul primo eroe DC Comics. Superman emana gloria e orgogliosa potenza durante il suo volo per deviare alcuni missili nucleari comandati dal malvagio Lex Luthor, come anche nel mentre ripara un binario ferroviario sostituendosi ad esso quando un treno procede sulle rotaie e “cammina” su di lui restandone indenne, e altresì quando scava, fino a calarsi nel sottosuolo terrestre per sollevare, con la sua forza pressoché illimitata, l’infuocata crosta di San Andreas. Scene realizzate con un uso sorprendente degli effetti speciali, che valsero il premio Oscar.

Superman compie queste gesta trasmettendo l’unicità del suo essere ma dando sempre l’idea di mantenere un atteggiamento umano. Il Superman di Reeve è un dio fatto uomo. Egli non fa sfoggio dei suoi poteri, li mette al servizio del bene universale, e lo fa con grazia, con quell’aura spontanea di un protettore. Il Superman di Reeve è il Superman della Golden Age, ma, seppur dotato di una possanza impareggiabile, egli si pone a un livello pari all’uomo. La semplicità con cui Superman attua le sue meraviglie fa intravedere come sotto l’invulnerabile alieno si nasconda lo spirito di un’umanità benevola. E’ questa la grandezza di Christopher Reeve, l’essere stato un dio con l’aspetto e il temperamento di un mortale, aver dato l’illusione che una persona simile a noi in tutto e per tutto potesse soverchiare qualunque legge fisica, aver inscenato la menzogna più arguta: farci credere che un uomo possa volare.

E lo ha fatto con disinvoltura, e genuinità. Il Superman di Reeve è fatto di purezza ottimistica. E’ questo ciò che rende Reeve il vero Superman, l’essere riuscito a cogliere l’essenza del personaggio: l’onnipotenza genuflessa volutamente al servizio di un ideale. Un ideale agognato e raggiunto per mezzo di un comportamento autentico.

Vi sono però due momenti nel film in cui l’invulnerabile Superman subisce l’arrendevolezza del fato umano, ed egli stesso intuisce, così, la propria somiglianza con la razza umana.  Negli attimi in cui avverte il dolore luttuoso della perdita di Lois, e nei momenti in cui si imbatterà nella Kryptonite, mortale residuato minerale del suo pianeta d’origine, Superman sperimenterà la mestizià dell'umana essenza. Nel secondo caso, Superman patirà per la prima volta un lancinante dolore fisico: va sottolineato che nel film del 1978, fino a quel momento, Superman credeva d’essere immortale. Vivere una vita senza la consapevolezza di ciò che possa arrecare del male è una particolarità che l’uomo comune non può in alcun modo conoscere. Superman, invece, comprenderà che anche lui potrà essere soggetto alla morte, come ogni altro essere vivente. Un dolore fisico destinato ad accomunarsi al dolore del cuore quando egli assisterà alla dipartita della sua amata. Un’agonia così straziante da necessitare l’ultimo prodigio del figlio di Krypton: il viaggio a ritroso nel tempo per sventare la catastrofe.

“Superman” perpetua con elementarità didascalica un’analisi all’animo umano di un uomo incarnatosi nel corpo e nello spirito di un dio. Un uomo che possiede la capacità di volare. E Superman volerà anche al termine della pellicola, quando, al sorgere del sole, l'Uomo d'Acciaio volerà verso la volta celeste a ricevere il caldo abbraccio di quei raggi.

E proseguirà il suo volo tra le disseminate stelle, sorridendo verso la camera: l’ultima espressione candida e solenne di una schiettezza umana.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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