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"Neytiri" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Un padre protegge la sua famiglia, è quello il suo scopo e non vi è nulla di più importante per lui. Jake Sully se lo ripeteva con costanza. Specialmente in quei giorni, quando la minaccia portata dalla gente del cielo si abbatté nuovamente sulla sua dimora.

Aveva vissuto degli anni sereni, felici, gioiosi. Con la compagna, Neytiri, Jake aveva creato una famiglia meravigliosa: quattro figli, due maschi e due femmine, erano divenuti il centro del suo mondo. Con loro trascorreva le giornate immerso nell’ecosistema di Pandora, dove si sentiva tutt’uno con la natura, con l’ambiente che lo avvolgeva, abbracciandolo come una madre amorevole. Jake volteggiava tra le montagne volanti di Pandora, correva fra i rami robusti, lassù, sugli alberi secolari delle foreste verdeggianti, pescava negli stagni e nei ruscelli con Neteyam, il suo primogenito e probabilmente il figlio con cui Jake riusciva a relazionarsi più facilmente, capendolo al volo e apprezzandolo per la sua pacatezza e il suo senso del dovere.

Fu un periodo di felicità, di pace, di spensieratezza assoluta e indimenticabile.

Poi arrivarono. Fecero ritorno.

Nel cielo balenò un chiarore abbagliante, che coprì il tenue e rasserenante riverbero delle stelle che adornavano l’arazzo di Pandora. Questa luce brillava minacciosa. Essa significava soltanto una cosa: astronavi in avvicinamento, che rallentavano prima di fiondarsi sul pianeta.

Una nuova invasione stava per cominciare. La gente del cielo era tornata per portare morte e annientamento.

Il fuoco avvampò ovunque, i boschi furono dati alle fiamme, le piante arse si disperdevano in polvere, gli animali raggiunti dalle lingue incandescenti divennero carcasse fumanti.

Neytiri urlò, colma di rabbia e di sofferenza. Gli uomini, che tutto distruggono, erano giunti ancora una volta nella sua casa, ne avevano violato la sacralità, profanato la bellezza. Come predoni, gli esseri umani erano decisi a strappare con la forza quello che volevano, a neutralizzare ciò che ostacolava il loro cammino.

Fra quegli invasori vi era un demone tornato dall’aldilà: il colonnello Miles Quaritch. Questi era morto, perlomeno così tutti credevano. Diversi anni addietro, il colonnello si era scontrato con Jake e Neytiri e i due lo avevano sconfitto, avevano annichilito le sue armi avanzate, il frutto della tecnologia messo al servizio della guerra e della morte, uccidendolo solo con arco e frecce.

Ma la coscienza di Quaritch era sopravvissuta, custodita su di un’unità meccanica, un sistema hard drive, ed era stata inserita nella mente di un Avatar. Quaritch era resuscitato, con la stessa coscienza di prima, il medesimo carattere, la stessa sete di sangue; ma aveva ora assunto l’aspetto dei suoi nemici, coloro che maggiormente odiava, i Na’vi.

Il colonnello era pronto a dare la caccia, a fare del male, ad uccidere coloro che adesso gli somigliavano, ma solamente nelle sembianze. Quaritch non era un Na’vi, era una riproduzione, un “clone”, un essere che replicava in tutto e per tutto le caratteristiche fisiche dei Na’vi ma non avrebbe mai potuto comprenderli. Dentro di lui pulsava l’odio, l’ira, la malvagità.

Anche Jake proveniva dalla gente del cielo, anch’egli inizialmente aveva ottenuto la fisionomia di un Na’vi attraverso l’ausilio del proprio Avatar ma non si era solamente soffermato a questo; egli si era indissolubilmente legato agli abitanti di Pandora. Dapprima aveva appreso la loro cultura, i loro usi e costumi, poi, entrando sempre più in contatto con la natura del pianeta, si innamorò di quel mondo. Jake aveva voltato le spalle alla razza umana, quella specie egoista, cruenta, che sovente devasta ciò che la circonda invece di prendersene cura. Jake si era perdutamente invaghito di Pandora, amava i suoi colori vivaci, i suoi luoghi che parevano plasmati da un sogno.

Era ciò che provava nel cuore a rendere Jake un Na’vi, ancor prima dell’aspetto che aveva ottenuto in principio con il suo Avatar e in seguito diventando a tutti gli effetti un membro degli Omaticaya.

Il nemico di Jake, Quaritch, sembrava ora simile allo stesso Jake esteriormente, ma quell’apparenza non era che un inganno, un espediente sfruttato dal colonnello per mimetizzarsi sul pianeta: dentro di lui albergava una oscurità profonda, del tutto priva di luce, che nulla avrebbe mai potuto dileguare.

Jake era un guerriero, come sua moglie Neytiri. Erano entrambi decisi a combattere, a difendere i propri villaggi. Ma quando Jake vide Quaritch minacciare i suoi figli con un coltello, qualcosa nello spirito indomito del protagonista cominciò a cambiare. Subentrò la paura, un timore paralizzante. Dopo che Jake riuscì a salvare la sua prole durante uno scontro a fuoco, questi decise di non lottare più, smise di “ribellarsi”, di attaccare.

Jake voleva fuggire. Voleva solamente proteggere la sua famiglia.

"Jake Sully" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Tenere al sicuro la propria compagna, i propri figli, era diventata per Jake la sola ragione di vita.

Neytiri non era cambiata, ella voleva seguitare a battersi, mossa da un tenace animo guerriero. Neytiri non voleva allontanarsi, volgere le spalle alla propria casa, nascondersi, assecondare un’esistenza da rifugiata eppure la donna comprese le ragioni di Jake; questi era terrorizzato all’idea che qualcosa di irreparabile potesse capitare ai suoi cari. Pertanto, Jake preferì dimenticare il suo trascorso di guerriero, di accantonare il suo passato di combattente.  

Jake guidò la sua famiglia verso una nuova meta, sulla costa orientale di Pandora, chiedendo ospitalità al clan della barriera corallina denominato Metkayina.

"Tonowari, la guida dei Metkayina" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

I Metkayina vivono a stretto contatto con l’acqua, in villaggi che sorgono nei pressi delle rive del mare. Gli Omaticaya, il clan da cui provengono Jake e Neytiri, conducono le loro esistenze in simbiosi con le piante e gli animali delle grandi foreste, i Metkayina invece vivono in reciproco beneficio con le distese marittime e lacustri, e con gli animali che sotto la superficie nuotano liberi e beati. I Metkayina hanno un aspetto diverso dagli Omaticaya: hanno una coda più grossa e spessa, come una pinna, e mani palmate, che permettono loro di nuotare più agevolmente.

Jake e gli altri devono dunque vincere i limiti dettati dal loro fisico per essere accettati pienamente. Per far parte della popolazione, essi dovranno imparare le abitudini dei Metkayina, il loro modo di vivere e soprattutto come entrare in contatto con l’acqua e gli esseri viventi che fanno parte di essa.

Il mare di Pandora è ovunque. Esso è un’entità sconfinata, una sostanza pura, incontaminata. Si presenta come un’immensa distesa azzurra che bagna le sponde della terra, come un manto limpido e cristallino. Esso è una porta da valicare, un passaggio che può essere filtrato, un mondo da esplorare, popolato da una flora stupefacente e da una fauna incredibile, da ambienti splendidi e misteriosi.

Il mare circonda, accoglie e nutre. Il mare elargisce i suoi doni e prende ciò che vuole. Il mare culla i suoi figli o ne reclama la loro vita. Esso va amato, rispettato, temuto come un universo a sé, una realtà repleta di splendori e insidie.

Per Jake e la sua famiglia intraprendere la “via dell’acqua” significa imboccare un percorso di rinascita, di riscoperta, di mutamento, di riadattamento di sé. Essi devono ampliare le proprie conoscenze, espandere i propri orizzonti, accantonare ciò che conoscevano della terraferma per arricchire la loro mente, il proprio spirito con il sapere che solo il mare può elargire

Nei giorni a seguire la famiglia Sully inizia le sue immersioni, interagisce con l’acqua, si confronta con le bellezze situate al di sotto dello specchio liquido, osserva l’incanto del microcosmo subacqueo.

Il figlio minore di Jake e Neytiri, Lo'ak, con cui Jake ha un rapporto complesso e travagliato, fatto di incomprensioni e incomunicabilità, fa amicizia con Payakan, un giovane Tulkun che ha una pinna laterale tagliata a metà, e porta sul corpo un arpione da cui non è riuscito a separarsi. Lo’ak libera il Tulkun dal proprio flagello ed esso gli è molto grato.

I Tulkun sono dei grandi cetacei dotati di intelligenza e di una vasta sfera emozionale. Sono creature pacifiche, non attaccano mai, neppure si difendono quando vengono cacciate e predate dai “balenieri” che bramano la sostanza nascosta in loro. I Metkayina considerano i Tulkun una sorta di famiglia spirituale con cui rapportarsi, comunicare e nuotare all’unisono in quel reame vergine e puro che è il mare.

Payakan è chiamato “il reietto”. Esso naviga solitario, escluso dal resto dei cetacei, poiché viene ritenuto un “assassino”, responsabile della morte di molti suoi simili. Lo’ak non si ferma alle apparenze, alle dicerie che circolano tra la popolazione indigena. Desidera scoprire cosa è accaduto nel passato di Payakan. Collegandosi mentalmente con l’animale, egli scopre che il Tulkun era stato inseguito dai cacciatori umani di cetacei, i quali avevano ucciso sua madre.

Payakan non riuscì a tollerare quel dolore, a sopportare quel gesto tanto crudele quanto ingiusto, così chiamò a sé altri Tulkun, capitanandoli ad una rivolta contro i balenieri. Questa azione andava contro i comportamenti della specie, la quale ha una natura sommessa e mansueta. Molti Tulkun perirono sotto le lance e gli arpioni dei balenieri. Payakan venne ferito e la sua pinna mutilata. Da allora fu scacciato via, reo di aver dato luogo ad un’azione violenta e vendicativa.

I Tulkun sono creature bonarie, docili, gentili, miti. Esse non riescono a concepire la violenza, la vendetta, né sembrano possedere un istinto di conservazione che dovrebbe spingerli ad offendere e colpire una insistente minaccia per difendere sé stessi e gli altri membri del loro branco. Quando vengono sorpresi dai balenieri, i Tulkun si limitano a continuare a nuotare, ad immergersi se riescono, senza reagire nei tragici frangenti in cui vengono catturati e uccisi.

Come già detto, Jake Sully era un combattente. Non indietreggiava mai dinanzi al pericolo, non si “immergeva” per eludere l’incursione di un rivale. La paura, tuttavia, aveva spezzato le sue resistenze, parte del suo ardore. Jake paventava la possibilità di perdere un componente della propria famiglia, e di conseguenza aveva optato per deporre le armi, per “arrendersi”, decidendo di nascondersi.

Jake vuole evitare a tutti i costi il pericolo, accetta remissivamente di starsene in disparte, celato, se questo può garantire la sopravvivenza dei propri affetti. Per gran parte della storia, Jake agisce come i Tulkun: sceglie di non muovere contro il nemico, di non prendere in esame alcuna forma di violenza. Egli vorrebbe vivere in pace, anche se ciò, purtroppo per lui, non è possibile. Come i Tulkun vengono braccati e colpiti, allo stesso modo anche Jake viene tallonato da un cacciatore che vuole il suo scalpo.

"Jake e Neytiri" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Il nemico di Jake è implacabile e non smetterà mai di dargli la caccia. Per i Tulkun, avere un atteggiamento “arrendevole” è un tratto comportamentale, tipico della loro specie, abituata, senza la presenza dell’uomo, a non temere alcun pericolo. Per Jake, invece, rinunciare a combattere è una scelta ponderata, influenzata da un profondo senso di protezione che avvolge il suo amore più grande, la sua famiglia. Egli sa che se sua moglie e i suoi figli dovessero combattere potrebbero cadere, perire. Jake preferisce non uscire allo scoperto, restare nell’ombra.

Ma durante il progredire della storia, Jake ricorderà che combattere per proteggere la propria famiglia, per difendere la propria casa, è alle volte necessario e ineluttabile. Payakan, in passato, quando cercò di rinvigorire lo spirito dei suoi simili, aveva tentato di far capire questo, anche se ciò gli era costato l’esilio.

In “Avatar – La via dell’acqua”, James Cameron inscena una tematica già trattata nel suo “Terminator”: scegliere se fuggire da un nemico oppure se affrontarlo a viso aperto, anche a costo di perdere qualcosa di estremamente prezioso.

Difendersi da un avversario crudele, violento e spietato è un atto necessario che ogni essere vivente può compiere. Questo concetto andava contro l’atteggiamento istintivo dei Tulkun che non conoscevano la violenza fino a che essa non gli è stata portata dall’essere umano. I Tulkun vivevano in pace, in serenità, vicini ai loro fratelli e alle loro sorelle della terraferma e dell’acqua, i Metkayina.

Fino a quando i balenieri non hanno generato la morte e il dolore, i Tulkun non avevano mai concepito azioni di rivalsa, desideri di vendetta. E nemmeno dopo lo fecero, essendo contro la loro natura. Solamente Payakan, che aveva sperimentato un dolore tanto grande da accendere in lui la fiamma della ribellione, aveva scelto consapevolmente di muovere contro un antagonista feroce e impietoso.

In “Terminator”, i protagonisti, Sarah e Kyle, fuggono per gran parte del tempo da colui che sta dando loro la caccia come un instancabile predatore: il cyborg T-800. Quest’ultimo non si sarebbe mai fermato fino a che non avesse portato a termine il proprio obiettivo.

Kyle trascinò Sarah con sé, strappandola alla presa del Terminator e difendendola ad ogni costo. Nel momento in cui Kyle trovò la morte, Sarah, che si era sinceramente innamorata di lui, smise di correre, di allontanarsi.

La donna guarderà il Terminator nei suoi occhi rossi, simili a rubini incastonati in un teschio di metallo, e troverà il modo di schiacciare quella macchina assassina sotto gli ingranaggi di una pressa idraulica. Fu la perdita di Kyle a mettere Sarah con le spalle al muro, a infondere in lei la forza e il coraggio necessari per rivolgere lo sguardo al Terminator e combatterlo senza più paura.

In “Avatar – La via dell’acqua” la morte di Neteyam, l’adorato figlio di Jake e Neytiri, scuote il protagonista. Egli avrebbe potuto cedere al dolore, allo sconforto, allo strazio di una morte ingiusta e terribile. La perdita di un figlio è per un padre e una madre il peggiore di tutti i mali, la più devastante delle sofferenze.

In quei frangenti, Jake e Neytiri cercano dentro il loro cuore la forza per tornare a combattere. Una forza che scaturisce in loro ancora una volta da un desiderio di protezione. Ambedue vogliono infatti proteggere la famiglia che è rimasta, trarre in salvo le due figlie che si trovano lontano, tra le mani del “demone” loro nemico.

Stringendo il corpo del figlio morente tra le braccia, Jake capisce di aver fallito. Si rende conto che per quanto un essere vivente si possa impegnare nel fare da scudo alla propria famiglia, la morte può colpire comunque, può strappare quanto di più caro si possiede. Realizzando questa amara verità, Jake torna ad essere un guerriero e sprona Neytiri a seguirlo, a riprendere arco e frecce per salvare le sue figlie.

Proteggere: è questo l’unico scopo del padre, l’unico scopo di Jake.

Payakan aveva mosso contro la nave del colonnello Quaritch. La forza di quell’essere che appartiene ad una stirpe pacifica si abbatté come uno tsunami che tutto travolge e sommerge.

Il mare incarnato da Payakan si era ribellato con tutta la sua potenza, giustiziando gli uomini che arrecano distruzione e dolore.

"Kiri" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Nel volgere della battaglia finale, la “nave” viene ferita, diverse aperture si formano nella struttura. Jake e il colonnello duellano mentre l’acqua invade le stanze, flagellando lo “scafo”. Nel frattempo, Neytiri è rimasta prigioniera in una camera con la figlia più piccola e l’acqua sale, inghiottendo i loro corpi. Sia Jake che Neytiri non trovano una via di fuga, sono prigionieri di uno spazio stretto e circoscritto, mentre l’acqua avanza senza sosta, implacabilmente.

Il mare, fino ad allora considerato come uno spazio meraviglioso, una finestra aperta su di un regno sottostante, colmo di delizie da amare e ammirare, viene adesso scrutato come un’insidia, come un luogo che può annientare una vita. L’acqua che invade ogni zona, che occupa ogni angolo, che aumenta senza fermarsi, che non conosce pietà, viene mostrata in tutta la sua gloria terrificante. La nave dove avviene lo scontro conclusivo tra Jake e il colonnello e dove i protagonisti rischiano di morire annegati rievoca per certi versi il Titanic, tanto amato dallo stesso Cameron, che affonda, martoriato dai marosi, trascinando con sé vittime ignare e per nulla colpevoli di ciò che sta accadendo.

Jake è stremato, è prossimo ad arrendersi. L’acqua lo ha quasi raggiunto, sta per fagocitare il suo volto non permettendogli più di respirare, ma suo figlio Lo’ak, proprio il figlio con cui Jake ha sempre avuto difficoltà a interagire e verso cui ha sempre mostrato maggiore severità e inflessibilità, lo raggiunge, gli sta vicino, lo calma, gli rammenta ciò che è l’acqua, i segreti e il potere in essa contenuti.

Al contempo, Kiri, la figlia adottiva di Jake e Neytiri, invoca delle piccole creature marine che sfavillano come lucciole del mare e illumina la strada sott’acqua, raggiungendo la madre e la sorellina e traendole in salvo. 

Jake nuota con Lo’ak, fidandosi completamente di lui, ma ugualmente fatica a risalire in superficie. Verrà aiutato da Payakan, che trascinerà entrambi su. In quell’attimo, Jake comprende quanto si fosse sbagliato. Non aveva dato la giusta attenzione al proprio figlio, non lo aveva riconosciuto, non aveva visto quanto fosse maturo. Lo’ak non si era soffermato alle voci del villaggio, aveva dato fiducia a Payakan. Jake aveva preferito fidarsi ciecamente del popolo che lo aveva accolto, non mettendo in discussione nulla del loro credo. Payakan li aveva aiutati a riemergere, li aveva salvati entrambi. Tutto ciò non sarebbe successo senza l’amicizia che Lo’ak aveva intessuto con tale creatura. Jake smette di giudicare il proprio figlio, lo vede finalmente per ciò che è e non per ciò che avrebbe voluto lui fosse. In quel mare, Jake e suo figlio hanno percorso la loro via, riscoprendosi e ritrovandosi.

Il defunto Neteyam verrà affidato all’abbraccio del mare. Il fondale diverrà la sua tomba, la sua dimora eterna. Per rivederlo, per piangerlo, a Jake e Neytiri basterà immergersi fra quelle dune d’acqua: lì dove vivrà per sempre una parte di loro, del loro amore, della loro carne, divenuta tutt’uno con quel mare che tutto accoglie e custodisce gelosamente.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Devo ammettere che non ero affatto a conoscenza delle pieghe che la storia avrebbe preso nel secondo capitolo della saga di “Terminator”. Eppure, un dubbio mi assalì quando guardai per la prima volta il lungometraggio del 1984. Osservando la caccia che coinvolse i fuggitivi, Sarah e Kyle, e che venne portata avanti con infaticabile devozione dal cyborg, a cui Arnold Schwarzenegger prestò le sue nerborute fattezze, non potei fare a meno di pormi il seguente interrogativo: se un Terminator venisse programmato per difendere, invece che per attaccare, cosa potrebbe accadere? Esso costituirebbe una difesa non solo “rocciosa”, ma pressoché indefessa. Il Terminator vigilerebbe giorno e notte sul soggetto verso cui le sue attenzioni sono state a ben riguardo “indirizzate”. Una macchina distruttrice si tramuterebbe in un protettore possente quanto infaticabile. Per me non rappresentava che una mera ipotesi. Rimasi comunque scettico circa la possibilità di poter vedere un cyborg di tale natura “tramutato” in una sorta di guardia del corpo. Mi ripetevo che, come descritti dal guerriero Kyle Reese, i “Terminators” non conoscessero paura, rimorso, stanchezza, pietà. Erano stati concepiti per annientare gli uomini, plasmati tra le fiamme di una fucina affacciata su una voragine infernale, al solo scopo di procurare dolore. Ciononostante, quando recuperai per la prima volta “Terminator 2” rimasi piacevolmente colpito. La macchina assassina era stata riprogrammata, e il T-800 vestiva adesso i panni di un vigilante.

James Cameron spiazzò le attese del periodo e realizzò un sequel innovativo e spettacolare. L’antagonista del primo film tornava mantenendo un aspetto del tutto somigliante a quello che aveva il suo tristo predecessore, tuttavia, il suo ruolo venne invertito, da efferato assalitore il Terminator di Schwarzenegger indossò le vesti dello stoico difensore di Sarah Connor e del figlio, il futuro guerriero John. Il T-800, questa volta, se la sarebbe dovuta vedere contro un nuovo Terminator, un modello T-1000, maggiormente potente e ancor più imbattibile. Se nel primo lungometraggio di Cameron, la sfida dell’uomo contro la macchina costituiva il fulcro narrativo dell’opera, per il sequel il cineasta scelse di porre su fronti opposti le due creazioni “partorite” dell’intelligenza artificiale Skynet. La macchina si scontrerà contro un’altra macchina, in un duello senza esclusione di colpi.

“Terminator 2 – Il giorno del giudizio” è un sequel stupefacente, che si pone ad un livello paritario se non addirittura superiore rispetto al capostipite della propria saga. Come spesso è accaduto per le produzioni del regista James Cameron, il budget per la realizzazione del film fu impressionante. I costi superarono i 100 milioni, ma i guadagni e i responsi critici ripagheranno ampiamente le spese: “Terminator 2” sarà il film di maggior successo dell’anno, e vincerà quattro premi Oscar su sei candidature. La pellicola è una lunga e inarrestabile corsa effettuata tra la notte e il giorno per ricercare una doppia salvezza: quella dei nostri protagonisti, Sarah e John, vigilati da un guardiano che farà quanto è in suo potere per difenderli, e quella relativa alla razza umana, sulla quale pende una minaccia per l’imminente creazione di Skynet. Il film è permeato da un’atmosfera avvincente, ed è in particolar modo scandito da fantastiche sequenze d’azione che lasceranno attoniti anche coloro i quali sono meno propensi a conturbarsi davanti ad un trucco scenico ben congegnato o ad un articolato effetto speciale.

“Terminator 2 – Il giorno del giudizio” riprende a raccontare la storia là dove si era interrotta. Sarah è molto cambiata da quella notte in cui perse la vita Kyle Reese per darle la possibilità di trarsi in salvo. Quando Reese spirò, ciò che restava del busto in endoscheletro metallico del Terminator riprese ad animarsi e, strisciando, continuò il suo folle proposito di neutralizzare la donna. Sarah riuscì a terminare definitivamente la macchina, schiacciandola sotto il peso di una pressa idraulica. Fu in quel momento che lei cominciò la sua ascesa. Sarah andrà incontro ad un’evoluzione evidente rispetto al primo film, nel quale era una giovane donna, dolce e spaventata, vittima di eventi avversi, di una caccia spietata perpetrata da un predatore impossibile da arrestare. Tale fuga, per scampare alle intenzioni fatali del terminator, l’aveva resa una preda indifesa, la cui unica tutela era garantita da un uomo, il padre del suo futuro figlio. In “Terminator 2”, Sarah verrà rappresentata come una donna forte, atletica, un’esperta di armi da fuoco e del combattimento corpo a corpo. Ella è pronta a battagliare per scongiurare l’olocausto nucleare che Kyle le raccontò. Sarah è una delle grandi protagoniste del cinema di James Cameron: come Ellen Ripley di “Aliens”, Sarah è audace, una madre che non contempla alcuna resa quando si tratta di difendere il suo unico figlio; e come Rose di “Titanic”, ella è una donna in grado di vivere con fierezza, di affrontare le asperità che la vita le pone sul proprio commino, e di restare eternamente legata al ricordo di un primo e indimenticabile amore.

Nel sequel di “Terminator”, colpisce la naturalezza con cui il pubblico instaura un feeling spontaneo con il T-800. Quel cyborg ha i medesimi connotati fisici del brutale assalitore che tentò, fino allo stremo e oltre, di uccidere la nostra protagonista, Sarah Connor, e che riuscì ad annientare il coraggioso guerriero Kyle Reese, compagno di Sarah e padre inconsapevole di John. Sebbene verso il robot non potremmo che, da subito, nutrire la stessa diffidenza provata da Sarah, quando questa si imbatterà nuovamente nella macchina che ha il medesimo aspetto del suo indimenticato assaltatore, noi spettatori riusciamo comunque a simpatizzare con l’agire sincero del Terminator: ciò perché senza remora alcuna riponiamo in lui la nostra fiducia. Con una scrittura curata e intelligente del personaggio, il T-800, da cattivo, venne mutato in un protagonista d’indiscussa caratura eroica, in grado di far breccia nel cuore del pubblico come un guardiano silenzioso scelto per essere l’estrema difesa.

E’ il concetto di “difesa” un aspetto interpretativo importante e ricorrente del film. In “Terminator”, Kyle Resse ammetteva d’essere tornato indietro nel tempo per proteggere Sarah, una donna la cui fama leggendaria precedeva la conoscenza del suo vero aspetto. In pochi sapevano realmente chi fosse Sarah Connor, e ancor di meno quale conformazione avesse il suo viso. Nessuno sapeva il colore dei suoi occhi, o che i suoi lunghi capelli erano, in verità, biondi. Eccetto Kyle, a cui John Connor, conscio d’essere suo figlio, darà una fotografia della madre in modo che Kyle cominci a conoscerla. Kyle si innamorerà dei lineamenti di quel volto, imparerà a scoprire ogni curva d’epidermide di quella giovane donna, immortalata in uno scatto fotografico a cui rimase tanto legato. Kyle era prontamente disposto a dare la sua vita per Sarah quando fu scelto per incarnare l’ultima difesa della donna: è questo l’atto d’amore più grande espresso dai due film di “Terminator”, quello relativo al “difendere” ciò che amiamo. Kyle morirà per dare una speranza alla sua amata, Sarah, la quale, a sua volta, sarà pronta a sacrificare se stessa pur di proteggere il figlio. La strenua difesa dei protagonisti umani subirà una nuova analisi in “Terminator 2 – Il giorno del giudizio”, quando il T-800 dimostrerà di poter essere anch’esso una difesa inossidabile.

La lotta spossante che coinvolge il T-800 con il T-1000 è una battaglia in cui il male, personificato nel Terminator di nuova generazione, non solo si manifesta come una forza oscura ma anche e di certo per nulla scalfibile. Se il T-800 poteva essere distrutto dopo una serie di violenti attacchi eseguiti con grosse armi da fuoco, il T-1000 vanta una capacità rigenerativa infusa in lui dal materiale con il quale è stato costruito; ad ogni colpo subito, la lega di metallo liquido che riveste l’androide pare deformarsi per poi tornare allo stato iniziale come se non fosse successo nulla. Ma non solo, tale lega mimetica gli permette di assumere la forma degli oggetti che lambisce o delle persone che tocca. Il male in “Terminator 2” potrebbe celarsi ovunque, usufruire di ogni forma e adoperare ogni possibile voce per attirare a sé le vittime designate.

Il Terminator mandato indietro nel tempo per proteggere John dovrebbe essere il primo T-800 “riprogrammato” per garantire un’azione non più votata all’eliminazione ma alla salvezza. Se in principio le macchine erano soltanto fautrici di morte, lui sarà il primo cyborg a farsi garante di un atto protettivo. Nulla lo avrebbe fatto demordere dalla sua missione, nessuna ferita, nessun patimento, niente avrebbe fermato il Terminator dal suo intento primario: difendere John e Sarah a qualunque costo. Il T-800 ripete proprio quella frase che Kyle disse alla donna di cui era innamorato: “vieni con me se vuoi vivere!”. In quest’affermazione trapela la testimonianza di un affetto votato alla protezione assoluta.

Il T-800 di “Terminator 2” è un androide atipico, il primo ad aver subito un cambiamento delle proprie direttive. Nella sua peculiare situazione, incentrata sulla difesa e non più sull’attacco omicida, il Terminator sembra “aprirsi” ad una maggiore comprensione dell’agire umano. Si domanderà, tra le tante cose, perché le persone piangono. L’interpretazione di Arnold Schwarzenegger, non più una maschera fissa e impenetrabile di rabbia e odio, rimarcherà questo aspetto della personalità della macchina. La mimica, in diverse scene, sembra cambiare, il Terminator non ha più un volto meccanico e indecifrabile, freddo e distaccato. In particolare, quando nella fonderia si rivolgerà a John e gli dirà di allontanarsi, il cyborg avrà uno sguardo comprensivo, e assumerà un’espressione che sembra trasmettere l’idea che il Terminator sia conscio dell’affetto che il giovane ha iniziato a provare per lui, considerandolo alla stregua di un padre. Ancora il T-800 dirà al giovane, quando la sanguinosa battaglia volgerà al vittorioso culmine, che ha ben capito perché noi esseri umani piangiamo, eppure, il suo sistema gli impedisce di poterlo fare.

“Terminator 2 – Il giorno del giudizio” sembra ricercare, mediante un’indagine introspettiva, un barlume di umanità negli ingranaggi meccanici del cyborg. Il rapporto empatico venutosi a creare con questo androide raggiungerà il suo massimo nella scena finale, in cui il Terminator sceglierà volutamente di uccidersi, facendosi sciogliere in una vasca di acciaio fuso. Con la sua dipartita, potrà cambiare gli eventi apocalittici previsti per il 1997. La sua mano sarà la sola parte del corpo che permarrà per qualche istante sopra la superficie del fluido incandescente: le sue dita simuleranno il gesto di un “ok”. In quell’ultimo saluto, il robot mimerà un cenno tipicamente umano.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Semplicità e complessità sono le due antitesi del cinema di James Cameron. Due dogmi che dividono il volto di Cameron e ne influenzano le rispettive visioni con cui i suoi occhi reinterpretano la realtà in arte filmica. Dalla semplicità di una trama di base si sviluppa una monumentale complessità di realizzazione, una ricerca esasperata dello sperimentalismo tecnico. Per James Cameron l’anima gemella dell’essenzialità è l’inestricabile, ed entrambi vanno congiunti in uno sposalizio scenico.

  • Storia cristallina, generi variegati

Dal suo primo grande successo “Terminator” all’ultimo dei suoi lungometraggi “Avatar”, il cineasta statunitense ha sempre voluto far sorgere le proprie storie su fondamenta robuste e trasparenti. Esse reggono il peso di una sovrastruttura delineata e candida. Le trame dei suoi film sono infatti comprensibili, caratterizzate preventivamente da una narrazione ordinata che evita digressioni da capogiro. La narratività di Cameron si forma sotto i nostri stessi occhi, come fossero parole in procinto d’imprimersi su pagine bianche. Le sue pellicole sono, per l’appunto, libri aperti, non contrassegnati da una copertina, ad onor del vero, già di per sé sfavillante di colori policromi; tomi da divorare famelicamente per saziare l’ingordo appetito di chi anela a gustare le prelibatezze di un banchetto dai più disparati sapori. La trama non è che un menù, ed il “menù” è una storia basilare che mescola i generi più variegati. Vengono, pertanto, servite portate d’inaspettata combinazione culinaria. Perdonate l’indugio metaforico, adoperato per evidenziare il talento di James Cameron nell’amalgamare vari stili cinematografici in “un sol corpo”, d’impossibile categorizzazione. Come fosse un rinomato chef, Cameron saggia, infatti, l’accostamento tra essenze diverse. La fantascienza si mescola al thriller, l’azione alla commedia, l’epicità al romanticismo.

  • La contraddizione del progresso tecnologico

La tematica più cara, quella che ha ispirato il credo artistico di Cameron sin dagli inizi della sua carriera, riguarda la tecnologia e i pericoli ad essa legati per via di un costante e progressivo avanzamento tecnologico. In “Terminator” il regista tratta il tempo come fosse un orologio a pendolo, oscillante da destra a sinistra e viceversa, ondulante tra un passato lontano e un futuro prossimo distopico e aberrante. Ispirato, probabilmente, da “Il mondo dei robot”, Cameron partorisce la storia di un cyborg e di un eroe umano giunti da un remoto avvenire per mimetizzarsi nell’ingenuo presente dell’indifferenza. “Terminator” fu un thriller di fantascienza notturno, una lunga fuga per la sopravvivenza compiuta da Sarah Connor e Kyle Reese, operata per sfuggire alle implacabili minacce di una macchina assassina. In “Terminator”, Cameron affronta per la prima volta il tema del progresso tecnologico, delle macchine che costruiscono macchine, vagliando la sinistra previsione che un giorno le intelligenze artificiali non soltanto si ribelleranno all’uomo ma creeranno esse stesse “la vita”. Si tratta, in tal caso, di un’esistenza meccanica che, nella concezione fantascientifica, porta ad una sorta di “evoluzione” della specie. Già in “Terminator” sono riscontrabili le impressionanti abilità di Cameron nel girare sequenze d’azione impegnative, che troveranno un’esaltazione spettacolare nel sequel “Terminator – Il giorno del giudizio”, in cui Cameron sovverte, in un certo senso, l’antagonista del primo capitolo trasformandolo nell’eroe.

La sicurezza che l’uomo pone nell’infallibilità delle proprie costruzioni è fonte di un’inquieta analisi per Cameron. Tale pensiero costituisce l’ispirazione analitica di “Titanic”, in cui il regista riporta alla vita quella che fu un tempo la nave più grande del pianeta. L’inaffondabile Titanic al momento della sua ultimazione era l’esito delle maestranze più bello del mondo, il simbolo del genio dell’uomo, nonché l’emblema dell’ingegneria navale britannica. Un “costrutto” di sublime, sopraffina ed impareggiabile bellezza. Doveva essere nata dalla fucina di Efesto, tanto meravigliosa era quella nave, eppure non era così, non perché il dio greco non l’avrebbe potuta fare d’egual fattezza, ma perché quella volta fu l’uomo ad anticiparne le doti. Il Titanic, secondo le previsioni e le aspettative del tempo, era prossimo a far genuflettere la vastità dell’oceano al proprio cospetto. Da qui, Cameron rielabora ancora una volta il tema del progresso tecnologico, sospinto al limite massimo in quegli anni dalla costruzione del Titanic, sorprendendo lo spettatore di fine Novecento con la bellezza restaurata della nave e terrorizzandolo con il patimento desolante cui andrà incontro.

Il più grande manufatto in movimento mai costruito fino a quel tempo verrà flagellato dai gelidi marosi, in una storica, e per questo didascalica, narrazione sequenziale sfruttata da Cameron per mostrarci come qualunque prodotto dell’uomo, anche quello apparentemente indistruttibile, possa rivelarsi poi inerme dinanzi alla forza della natura. L’egoismo umano-centrico viene così castigato da un fato avverso e crudele, e quella nave tanto amata da Cameron finisce per apparire sofferente come un vero protagonista della scena, in un drammatico materialismo.

Giungiamo, infine, ad “Avatar”, le cui opposizioni tra il popolo dei Na’vi, armato di archi, frecce e lance, e la gente del cielo, a capo di un esercito di armi avveniristiche, rimandano alla malvagità cui può essere soggetto il progresso tecnologico se adoperato per loschi scopi dall’uomo. Sarà anche in questo caso la natura, viva e selvaggia di Pandora, a respingere clamorosamente le avanzate degli uomini.

Innumerevoli scene d’azione dei suoi film possiedono un che di incredibile. Vi è però una sorta di contraddizione tra ciò che racconta Cameron in merito al progresso tecnologico e al modo in cui egli si approccia al lavoro. Cameron è uno dei maggiori fruitori dello sperimentalismo cinematografico, e per tale ragione attende pazientemente anche un decennio prima di girare nuovamente un film. Questo atteggiamento paziente è d’uopo per consentire un accrescimento. Egli desidera spingere il progresso nei mezzi visivi e speciali al massimo. Seppur predichi calma e timorosa riverenza nei suoi film per ciò che concerne la potenza delle tecnologie future, egli, in verità, è uno dei principali ricercatori nell’avanzamento delle tecniche di ripresa. Cameron vuol sempre scoprire nuovi modi per poter raccontare storie visive.

  • L’acqua come filtro di un nuovo mondo

Cameron nutre un rapporto speciale con il mare, e spesso, per diletto, ne mira le profondità e i segreti inesplorati con il supporto di appositi sommergibili. L’acqua viene riletta da Cameron come una sostanza liquida che fa da filtro al passaggio verso un nuovo mondo, come fosse un portale di esigua consistenza ma dalla forza devastante. In “The Abyss”, Cameron fa del mare il custode di un reame molto particolare, l’etereo regno dove si accresce una vita sconosciuta.

Sul fondale marino, nel buio e nel più riservato dei silenzi, giacciono i relitti che un tempo solcavano le acque in superficie. Laggiù, a quasi quattromila metri di profondità, riposano i resti del suo caro Titanic, in una tomba fatta d’acqua salata e di tenebre. Cameron utilizza il mare e i gelidi marosi dell’Atlantico per filmare la perentoria potenza delle acque, la cui pressione spezzò in due tronconi la nave a cui diede tale vigoria al cinema. Molte sono le sequenze in cui il regista esagita la terrificante potenza delle acque, capaci di sommergere con imparzialità i poveri passeggeri del Titanic: è un turbine di morte che sfocia come funereo fiume. Mare e acqua sono per Cameron, al contempo, mondo diversificato e potenza apocalittica.

  • Personaggi e scenari: un’interazione necessaria

La scenografia per Cameron va oltre lo scorcio, al di là dell’ambientazione e del fondale in cui i personaggi compiono l’azione. Spesso la scena assume un valore espressivo eloquente in un’estetica comunicativa dell’immagine. Basti pensare alla caratura che assume il Titanic stesso, e le cabine riprodotte con gli ornamenti architettonici e stilistici originari che quasi assurgono a una consistenza tangibile oltre le porzioni circoscritte della quarta parete. Cameron fa vivere gli ambienti, li rende suscettibili al senso della vista e ci illude di poterli toccare, come se potessimo davvero lambire e accarezzare le luminescenti e lussureggianti flore di “Avatar”. Cameron cura maniacalmente ogni dettaglio, e nei suoi film i personaggi interagiscono con la scena opportunamente pre-adibita. In “Aliens 2 – Scontro finale” l’arieggiata bellica è resa quasi respirabile nello spazio circoscritto, e la scenografia opprimente schiaccia i protagonisti generando un clima claustrofobico.

La precisione maniacale di Cameron nel ricreare le ambientazioni e le specifiche condizioni di un dato momento è tanto esagerata da portarlo, ad esempio, col supporto di un astrofisico, a tracciare nella volta celeste le precise disposizioni stellari della notte in cui il Titanic incontrò un Iceberg sul proprio cammino. Nulla viene lasciato al caso nella creazione della realtà fittizia di Cameron. Le creature fantastiche concepite in “Avatar”, ad esempio, non sono state semplicemente riprodotte ma furono rese vivide attraverso un’accurata concezione delle movenze e degli atteggiamenti specifici nonché peculiari che ogni razza avrebbe dovuto possedere.

Egli non si limita a filmare l’immaginazione, ma arde dal desiderio di rendere l’unicità della fantasia più reale possibile, non soltanto per i personaggi presenti sullo schermo, ma anche per lo stesso pubblico che può supporre di essere partecipe.

  • Amori eterni

Le coppie romantiche dei film di James sono tutte caratterizzate da un legame forte, concatenato in una rispettiva bramosia. Romanticismo terso e ardente passione vengono incarnati nel corpo e siffatti nello spirito, abbracciando in un equilibrio gli stadi dell’amore spirituale e carnale, in special modo in “Titanic”.  Sia l’uomo che la donna sono attratti da una forma di amore eterno.

Il sentimento che congiunge i protagonisti delle sue opere sboccia spesso in momenti di difficoltà. Kyle viene ricambiato da Sarah in “Terminator” quando i due sono braccati da una macchina portatrice di morte, e consumano il loro amore in una notte soltanto. In egual modo, anche tra Jack e Rose l’amore che nasce e si accresce fino a sfiorare le vette più estreme del sentimento corrisposto, avviene in pochi giorni ed è anch’esso destinato a interrompersi bruscamente. Eppure, Cameron, in tal modo, rende l’amore delle sue coppie durevole proprio nel troncamento di tale relazione. Sarah nel sequel “Terminator – Il giorno del giudizio” dimostra ancora di essere eternamente legata al ricordo di Kyle, e Rose in “Titanic”, con il trasporto emotivo con il quale ha rinarrato i suoi trascorsi, testimonia, senza esitazione alcuna, di non aver mai smesso di amare quel giovane che la salvò sul transatlantico.

Il modo in cui Cameron scrive e inscena l’amore è, a mio dire, più profondo di quanto parrebbe. Si tratta, infatti, di un amore paragonabile alla più intensa delle emozioni, quella che perdura ad albergare nel cuore. Non è un sentimento vincolato alla presenza fisica quanto alla sfera empirea del ricordo. Egli fa di relazioni di breve durata rapporti ben più solidi e duraturi di quelli che contemplano anni e anni di relazione. Perché è nel valore di quei singoli giorni che si può ricercare un qualcosa di così prezioso che può superare addirittura l’intensità di anni. Mediante le protagoniste dei suoi film, audaci e indomabili, le quali avranno in futuro altri rapporti condivisi, Cameron ci aiuta a comprendere l’importanza di andare avanti e come il vero amore possa scalfire nel nostro intimo un’effige inviolabile che aiuterà a sostenere e affrontare gli stadi successivi della vita. L’amore diviene ispirazione, motore palpitante del cuore che pulsa sangue nelle vene.

Un amore, questo, che si configura altresì come motivazione, senso astratto che guida il nostro agire, come fosse un frammento di anima che si unisce a quella di cui già disponiamo, arricchendola e incoraggiandola a vivere. Gli amori delle coppie nel cinema di Cameron sono duri e cristallini come un diamante scintillante, uniti tra loro e inossidabili come catene che garantiscono una libertà comune al posto di una prigionia. Tale amore viene perpetuato attraverso la valenza di un gesto o di un senso, sia esso la carezza di una mano (come avviene tra Jack e Rose in “Titanic”) sia esso il valore di uno sguardo corrisposto (come avviene tra Jake e Neytiri in “Avatar”).

  • Conclusioni

Con gli occhi di James Cameron miriamo un cinema epico, sensibile ma anche spettacolare, che fa dell’emozione una riflessione, dello stupore visivo il punto focale della propria arte. Cameron è un autore che arricchisce senza reinventare, ma è soprattutto un ricercatore sperimentale: le due antitesi da cui scaturiscono la semplicità e la complessità.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere altri articoli dedicati alle opere di James Cameron cliccando ai seguenti link:

"Recensione e analisi Terminator"

"Recensione e analisi Titanic"

"Un'anima dell'oceano - L'affondamento del Titanic tra cinema e realtà"

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La storia di “Terminator” comincia la notte del 12 maggio del 1984. Come un’incontrollata scarica elettrica di origine ignota, una sarabanda di luci abbaglia con fulminee intermittenze due zone periferiche di Los Angeles: da questi fasci di luci, due figure dall’aspetto umano giungono dal futuro. Una di esse è un Terminator, modello T-800, un organismo cibernetico d’impareggiabile abilità combattiva. Il Terminator è dotato di innesti di pelle umana, e possiede conseguentemente i connotati fisici di un uomo comune. Ma dietro l’involucro di umana consistenza, il Terminator, in effetti, è una macchina di malvagità, alimentata dalla sola direttiva specifica di “terminare” i propri avversari. Il Terminator ha un endoscheletro metallico invulnerabile ai colpi d’arma da fuoco, e il vero volto del robot ha le sembianze di un teschio d’acciaio su cui risaltano, come fossero rubini incastonati, due folgoranti occhi rossi. Le sembianze umane del Terminator gli permettono di mimetizzarsi con le persone comuni e cominciare la sua missione: scovare e uccidere una giovane donna di nome Sarah Connor.

Nel frattempo, l’altro viaggiatore del tempo, un guerriero umano chiamato Kyle Reese, si mette anch’egli alla disperata ricerca di Sarah mentre apprende che già due donne chiamate col medesimo nome della donna da lui agognata, sono state barbaramente uccise. Il Terminator sta infatti eseguendo una ricerca sistematica suggeritagli da un elenco telefonico. Egli ha infatti rintracciato in ordine alfabetico le residenze delle tre Sarah Connor che vivono a Los Angeles, si è recato nelle loro abitazioni e le ha uccise barbaramente. Kyle possiede una fotografia della giovane Sarah ed è cosciente del fatto che lei è ancora viva, ma sarà solo questione di tempo prima che il Terminator la rintracci.

A tarda notte, Kyle incrocia per strada Sarah e comincia a pedinarla fin quando la donna, notando il fare sospetto del tizio, entra in un locale per trovare riparo a quella che crede essere l’angheria di un maniaco. D’improvviso, il Terminator fa breccia nel locale e inizia a sparare all’impazzata, senza alcuna pietà, nel tentativo di uccidere la donna. Kyle, però, rimasto in continua veglia nei pressi del locale, contrattacca col suo fucile, salvando Sarah e fuggendo via con lei.

Nascostisi in un parcheggio, Kyle confessa a Sarah la verità: egli è un combattente venuto dal futuro per proteggerla dall’assalto del Terminator, anch’esso giunto dal futuro per ucciderla. Kyle spiega inoltre alla donna che quanto prima, una rete di difesa d’intelligenza artificiale nota come  Skynet raggiungerà l'autocoscienza ribellandosi all'umanità e scatenando un olocausto nucleare. John Connor, il futuro figlio di Sarah, raggrupperà i sopravvissuti e li guiderà in una ribellione che assumerà i contorni di una guerra di logoramento e porterà alla dipartita di Skynet. Il Terminator è stato mandato indietro nel tempo per uccidere Sarah prima della nascita di John, come estremo tentativo per evitare la creazione della Resistenza.

Da questo momento comincia una lotta per la sopravvivenza a cui prenderanno parte Kyle e Sarah per sfuggire agli assalti distruttivi del Terminator che non si fermerà davanti a nulla se non prima avrà adempiuto alla propria missione.

James Cameron stese la bozza iniziale del suo progetto “The Terminator” quando viveva in California, a seguito di un incubo. Linda Hamilton venne scelta per interpretare Sarah Connor, Michael Biehn fu chiamato per dare voce e corpo al personaggio di Kyle Reese, e infine, Arnold Schwarzenegger fu scritturato per vestire i panni del Terminator. Il grande successo del film consolidò la carriera dell’attore e fu per lui il grande passo verso il raggiungimento dello status d’icona dei film d’azione. La mimica facciale di Schwarznegger, dalla gamma piuttosto risicata, venne capovolta in un autentico punto di forza e per tale ragione il ruolo del cyborg parve gli fosse stato cucito addosso. La maschera di Schwarznegger fu quella di uno spietato androide, incapace di comunicare alcuna emozione se non la ferma volontà di porre fine alla vita della protagonista.

L’idea di realizzare un film fanta-horror affascinava profondamente Cameron, viste le influenze che il regista John Carpenter col suo remake de “La cosa” ebbe in quegli anni su molti cineasti alle prime armi. Cameron era uno di quelli, un visionario in attesa di plasmare un’idea e renderla visibile. Decise quindi di sperimentare una nuova ricetta, capace d’ingolosire il palato di chi su quella tavola imbandita voleva degustare sapori dal retrogusto variegato e mai assaggiati prima. Mescolò così il genere fantascientifico col thriller di strada, fatto di lunghi inseguimenti e fughe rocambolesche in scorci notturni. Infine, rilasciò nel proprio “calderone” un pizzico di quell’ingrediente segreto carpito dal genere horror. Ma “Terminator” pur senza eccedere in messe in scena orrifiche, predilige il senso d’angoscia al terrore ansiogeno. E’ la paura esagitata dall’istinto di sopravvivenza quella che viene esaminata e vagliata con accuratezza all’interno del film, non lo sgomento di una paura remota e difficilmente comprensibile.

L’aspetto umano del Terminator permette di rapportare questa suddetta paura al nostro più intimo sentimentalismo, perché nell’agire meccanico di questa macchina assassina scorgiamo le fattezze di un uomo. La malvagità del cyborg non permane contenuta nella corazza cibernetica ma tende a manifestarsi anche nell’aspetto esteriore e ciò porta il pubblico a provare timore non soltanto nei riguardi dell’entità robotica, ma paragonando tale entità all’essenza stessa dell’umanità. Con Terminator uomo e macchina vengono posti su due fronti opposti ma al contempo inglobati nell’agire violento del Terminator. Il film spiega come l’aspetto di questo primo T-800 sia stato opportunamente vagliato da Skynet per permettere alle macchine d’infiltrarsi tra gli uomini e ucciderli. Il terrore, così facendo, non è più perfettamente riconoscibile. Per tale ragione la linea di demarcazione che dapprima separava uomini e macchine viene fagocitata. Persino Kyle Reese ammette di non essere riuscito a capire chi fosse il Terminator fin quando non ha tentato di uccidere Sarah. Un costante senso di allerta domina le attenzioni di Kyle quando, scrutando la folla che circonda Sarah, fatica a comprendere chi possa essere il carnefice che l’assalirà.

Oltre questa mia analisi critica, il conflitto che si sviluppa tra Terminator e Kyle erige comunque un duello ben più limpido e cristallino: l’uomo contro la macchina. Tra le periferie di una Los Angeles ottenebrata si consuma un’estenuante corsa per scampare agli attacchi del Terminator. La maggior parte delle riprese sono state girate di notte. Il sole sembra non possa sorgere realmente per non dare la falsa illusione che una luminosa speranza pervada il cielo coi suoi raggi all’alba di un nuovo giorno. Non vi può essere, infatti, speranza alcuna finché il terminator avrà forza di movimento. “Terminator” è un film cupo, nebuloso, in cui l’opprimente immagine di un futuro ancor più buio perdura nell’oscurità di quelle tenebre che avviluppano i protagonisti persino quando si concedono un po’ di riposo.  

Il tema della progressione tecnologica viene perpetuato per la prima volta da Cameron in questo film. Skynet è stato creato dagli uomini, i quali non si sono posti minimamente il problema circa i possibili rischi della costruzione di una macchina dotata d’intelligenza artificiale. La tecnologia senziente che si rivolta all’uomo è uno dei topos narrativi più usati nella fantascienza, ma in “Terminator” assume un valore ancor più inquietante poiché la volontà di annientare viene resa come il principale fulcro vitale degli androidi.

Kyle e Sarah, accomunati da un destino arcano e infinito, trascorrono un’intensa notte d’amore. Dalla loro unione, Sarah resterà incinta di John. Scopriamo così che il destino riesce a farsi strada tra i paradossi del tempo, e che Kyle senza mai venirne davvero a conoscenza è, invero, il padre dell’eroe della ribellione, di quel simbolo di coraggio a cui lui stesso si era ispirato nel futuro da cui proviene.

Lo scontro finale di “Terminator” avviene all’interno di una fabbrica. Il T-800, oramai spogliatosi del suo ingannevole aspetto, e ridotto a muoversi col solo suo supporto scheletrico in metallo, affronta un'ultima volta Kyle, allo stremo delle forze. Kyle riesce a far saltare in aria il cyborg, prima di spirare tra le braccia di Sarah. Ancora una volta però, il Terminator, il cui busto non è stato domato, prosegue inesorabile a strisciare al suolo per afferrare Sarah. Ma la donna lo trascina fino a una pressa idraulica e lascia che il macchinario svolga il suo inconsueto compito: lo distrugge così definitivamente.

Il film si conclude con una ripresa in cui Sarah, incinta, fermatasi nei pressi di una pompa di benzina, memorizza le proprie parole su di un registratore, rivolgendosi al figlio nascituro. Un bambino le scatta una fotografia: sarà la stessa Polaroid che Kyle avrà con sé quando tornerà indietro nel tempo per cercarla. Sarah si avvia in auto verso l’orizzonte, dove si possono intravedere nubi grigie e minacciose. Ancora una volta “l’ambientazione” in “Terminator” sembra anticipare la prosecuzione degli eventi. Se prima le tenebre avvolgevano i nostri protagonisti per mistificare l’opprimente e tetra presenza del “predatore” a caccia delle sue vittime, adesso, quelle nuvole preannunciano la tempesta che si abbatterà sul futuro degli uomini.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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