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Jake e rose dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno. (Hermann Hesse)

Nessun passeggero si era intrattenuto in quei locali. Erano tutti fuggiti nel disperato tentativo di trarsi in salvo. Per tutta la sala e attorno alle colonne bianche che svettavano alte giacevano dozzine e dozzine di poltrone vuote. Già, non ve ne era occupata neppure una! Era il 14 aprile del 1912, l’ultima notte del Titanic. Di colpo era avvenuto uno snaturamento nel segmento proravia della nave: quei luoghi, così festosamente gremiti di gente nei giorni antecedenti, erano ora stati evacuati. Una piccola statua raffigurante la dea Artemide e un orologio a sveglia stavano in bella mostra sul camino di marmo in attesa d’essere raggiunti dall’avanzare inesorabile dell’acqua. Il ticchettio dell’orologio era l’unico suono percettibile nella grande sala. In fase di progetto, quella sala, denominata “la stanza di scrittura e lettura”, era appannaggio esclusivo dei passeggeri della prima classe, dove avrebbero potuto godere di un ambiente raffinato e munito di tutti i confort. Si poteva naturalmente ascoltare anche della buona musica e gustare un ottimo tè.  La sala, benché fosse di una sublime bellezza e vantasse un grande arco sostenuto da colonne con capitelli corinzi, perdeva parte della propria magnificenza estetica quando rimaneva “sola”. Le pareti apparivano improvvisamente fredde, non essendo più scaldate dagli accesi sproloqui degli uomini o dai coloriti pettegolezzi di donne d’alto lignaggio. Si guardò attorno sconsolato, Thomas Andrews, l’ingegnere e costruttore del Titanic, quando, nell’opera cinematografica di James Cameron, raccolse l’oriolo posto sul camino dell’ampia sala, aprì il vetro che ne preservava il quadrante e fece roteare le lancette, forse nell’illusione di poter arrestare il tempo o, al contrario, accelerarne il suo corso, nel tentativo disperato di far cessare quella straziante sofferenza a tutti i passeggeri. Andrews abbassò poi il capo e rimase a contemplare il pavimento, mentre l’acqua già invadeva la sala. Quando il lato di prua del transatlantico si inclinò, la sala subì le nefaste conseguenze: le poltrone iniziarono a cadere giù e a sbattere contro i pannelli divisori della stanza. Anche l’oriolo cadde sul pavimento e si frantumò. Il tempo registrato fino a quel momento di colpo si arrestò. Da prezioso artificio dell’ingegno umano, atto a seguire lo scorrere dell’attimo, l’oriolo diviene un artefatto, il testimone di uno squarcio nel tempo. Pur essendo fermo, un orologio riesce a segnare l’ora giusta due volte ogni giorno. E in egual modo continuano a farlo gli orologi a pendolo, quelli da taschino, e le sveglie andate perdute sul fondale oceanico. Ancora oggi, due volte nelle ventiquattr’ore, quegli strumenti, seppur inceppati, segnano l’ora esatta; l’ora in cui per il transatlantico il tempo si fermò per sempre.

E’ pronta a tornare sul Titanic?” - E’ la domanda che Brock Lovett rivolge a un’anziana Rose poco prima che la donna inizi a narrare il proprio trascorso. Per la protagonista tornare sul Titanic equivale a riannodare i fili che la legano ad una triste vicenda accaduta ben 84 anni prima. Se fosse così semplice riattivare il rotismo di un orologio con un semplice gesto non esiterebbe un solo istante a farlo; se spostare indietro quelle lancette comportasse un viaggio a ritroso nella dimensione spazio-temporale, non ci penserebbe su due volte. Ma nessun orologio dona al possessore il vero controllo del tempo, non offre che un’illusione. Padroneggiamo la mera osservazione dello scorrere dei secondi, ma non siamo che spettatori di un progredire che fugge dalla nostra gestione. Il cinema cattura una parte comprimibile dell’essenza del tempo, sebbene esso venga ricreato ad arte e reso in maniera fittizia. “Titanic” solca le acque di un tempo dalla duplice natura, che sia reale e illusorio. Gli spettatori restano ad osservare, prigionieri del tempo reale, lo sviluppo di una storia incastonata in un tempo immaginario, che dondola tra la giovinezza di allora e la vecchiaia della contemporaneità. “Titanic” fa del tempo un motore pulsante, che brucia enormi quantità di combustibile e alimenta il moto rotatorio di tre eliche che sospingono l’avanzata della nave. E’ un tempo basato sul vero vissuto: la tragedia del Titanic è conosciuta universalmente dai più, eppure non propriamente compresa se non da chi fu a bordo del bastimento e sopravvisse. “Titanic” fa della ricostruzione storica un demiurgo generante, e dalla storicità vera il film trae beneficio per raccontare una storia romanzata. E’ la coniugazione del tempo vero mescolato al tempo architettato dalla messa in scena. Il lungometraggio oscilla tra il presente narrato e il passato vissuto, e il tempo della narrazione si conforma alla consistenza del tempo veritiero, anzitutto nella sperimentazione della rievocazione di un'epoca trascorsa. “Titanic” è la navigazione di un percorso a ritroso che dà lustro e vivezza ai primi anni del Novecento.

La forza dei ricordi rende mirabile un trasporto nell’avvenuto. Ma le reminiscenze non sempre vengono conservate e richiamate alla mente con accurata nitidezza. L’anziana Rose ha centodue anni quando raggiunge il cacciatore di tesori Brock Lovett per raccontare la propria storia. I segni della sua veneranda età si notano solo in una candida sequenza, quando la donna si accinge a presentare la nipote al superficiale cercatore. Come terrà a precisare la ragazza alla nonna, invero, i due si erano già presentati sul ponte del transatlantico pochi minuti prima. Rose non lo ricordava affatto, nonostante fossero passati solo pochi minuti. Un’incertezza, una beffa mnemonica che mette in guardia i cacciatori in merito alla reale capacità della donna di rammentare ciò che è avvenuto sul Titanic. E’ una memoria, tuttavia, sorprendente quella di Rose, dettagliata, minuziosa, espressa verbalmente senza interruzione alcuna.  Sono un raggrumato scorrere di pensieri, un fluido fiume di parole le reminiscenze che serba. “Titanic” è l’esaltazione del cinema dei ricordi valenti e profondi, eternati e custoditi per essere tramandati.

“Titanic” è la riattivazione di un orologio rimasto fermo, che torna a ticchettare tramite l’influsso del racconto.

10 aprile del 1912. In un locale, nei pressi del porto di Southampton, Jack vince in una partita a poker i biglietti per la terza classe del transatlantico Titanic, prossimo alla partenza verso l’America. “Non gingillarti, Jack, il tempo non aspetta i ritardatari!” Il proprietario del locale tiene ad avvisare il protagonista, “il Titanic va in America…e fra cinque minuti”. Con la mano l’uomo indica un grosso orologio appeso al muro dimostrando di aver ragione. Mancano poco meno di cinque minuti alla partenza. Ancor prima dell’inizio del viaggio, il tempo si palesa sotto forma di strumento laconico e imparziale, distaccato e inespressivo. L’orologio sovrasta lo sguardo del giovane e lo mette in allarme. Si dipana, da quell’istante, una prima fuga per giungere all’appuntamento col destino, all’incontro con Rose.

  • “Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato.” (Walter Whitman)

Il tempo computato da un congegno torna a materializzarsi di tanto in tanto. Se ne resta inerte sullo sfondo della scena, come fosse un elemento decorativo. L’orologio più presente sulla scena è di forma circolare, ed è incassato nella parete prospicente la grande scalinata della prima classe, ornata di fiori e foglie di bronzo. Mentre aspetta che Rose lo raggiunga, Jack scruta silente quell’orologio con la quiete di chi interpreta il tempo concessogli come un dono, apprezzandone ogni flebile cambiamento. Possono solo pochi giorni compendiare un sentimento tanto profondo e assumere un peso che non potrà essere bilanciato neppure negli anni restanti?

Il tempo, riscontrabile nella rapidità con cui un istante cede il passo al successivo, è ineffabile ma al contempo catturabile. Un momento può essere acciuffato, fatto proprio, ghermito con la rapidità di un battito di ciglia. E’ un fenomeno che avviene nell’isolamento e nell’avulsione soggettiva da ciò che circonda. Accade così che i nostri sensi vengono acuiti da un solo soggetto, tale che il sospiro di Rose possa venire udito distintamente, come se i restanti frastuoni non sfiorino l’orecchio di chi non vuole ascoltare. La smorfia compiaciuta di un volto, il particolare della fossetta formatasi sulla gota durante l’esternazione di un sorriso, il dettaglio di una ciocca di capelli rossi arricciati da una giravolta: nell’innamoramento tra Jack e Rose il tempo si comprime e il credo di dare consistenza ad ogni singolo giorno si piega all’idea di dare importanza ad ogni attimo che, conformato ai successivi, rifinisce la forma cristallina di un ricordo.

Quello tra Jack e Rose è un amore smisurato come l’immensità di un cielo stellato in una calda notte d’agosto. La volta celeste stessa è soggetta al mutamento, al passaggio graduale dal giorno alla notte, dettato dal tempo che passa. In una scena esclusa dal montaggio finale, al calar della sera, Jack e Rose si soffermano ad osservare il firmamento sconfinato. Ne segue una breve riflessione sulla minutezza dell’uomo al cospetto dell’universo. Si avverte, per una frazione di secondo, la percezione d’essere piccoli, piegati alla meraviglia imperscrutabile dell’infinito. I due riescono a vedere una stella cadente. Jack rivela a Rose ciò che un vecchio adagio del padre recitava, ovvero che ogni stella che cade è un’anima che lascia la Terra e vola in paradiso.

Così l’uomo risulta ancora inerme se posto dinanzi alla maestosa presenza impalpabile del tempo. Una notte sul Titanic vola via come verso cantato al cielo, come parole portate via dal vento, un po’ come avviene in quella fredda notte con le rime canticchiate dai due innamorati nel brano “Come Josephine In My Flying Machine”.

Ma il tempo è inclemente, e viene rappresentato nuovamente nel film non più con l’immagine di un orologio, ma con l’azione crepuscolare di un tramonto. Il sole illumina per l’ultima volta la prua della nave, e in quell’addio costituito dagli ultimi bagliori di un raggio che sta per morire all’orizzonte, Jack e Rose si baciano per la prima volta, sgretolando la consistenza dei secondi.

Il Titanic stesso col proprio tragico trascorso ha abbattuto le barriere del tempo storico. L’amore, scritto e interpretato nell’opera di Cameron, è un amore concepito per non durare a lungo. Ma è nella consistenza di quei pochi giorni che si instaura un fervore celato nell’animo. Rose fa dell’ideologia del suo primo amore un’ispirazione che possa guidare, per i successivi 84 anni, il suo spirito inquieto. Conseguentemente l’essenza effimera delle ore, trasfigurata nell’ispirazione ideologica, diviene tempo imperituro, e nel ricordo si adempie una forma d’eterea e impalpabile immortalità.

  • “L'acqua che tocchi de' fiumi è l'ultima di quelle che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente”. (Leonardo Da Vinci)

Tempo realmente vissuto e tempo propriamente inscenato si intrecciano in una narrazione filmica ad ampio respiro. I giovani innamorati Jack e Rose si contrappongono ai coniugi Straus, vissuti realmente e periti insieme durante l’inabissamento del Titanic. Sono due coppie accomunate da un legame profondo e indivisibile ma tanto distinte. Isidor e Ida Straus nel kolossal compaiono solo in un breve frangente, distesi sul letto della loro cabina, stretti in un abbraccio quando la loro camera viene invasa dall’acqua. Durante le operazioni di salvataggio, Ida ebbe la possibilità di salire a bordo di una scialuppa che era prossima ad essere ammainata ma si rifiutò di lasciare il marito. I due attesero la fine della loro vita così come avevano vissuto: insieme. Tra Jack, Rose e i coniugi Straus può esistere una comparazione analitica in merito al tempo concesso in una vita di comunanza. Fu un’esistenza vissuta con pienezza per i due sposi, quella di Jack e Rose, invece, fu una separazione immantinente, troncata nella giovinezza. Jack e Rose non invecchieranno insieme, non trascorreranno il tempo terreno nella reciproca vicinanza. E’ l’inclemente giudizio pronunciato e compiuto dal giudice del fato.

Nel movimento perpetuo dei marosi dell’Atlantico si configura la metafora di un tempo in divenire, che accelera il proprio sviluppo per giungere a conclusione. Le acque gelide dell’oceano parevano così remote, prima d’invadere gli scomparti della nave. Il mare, filtro di un mondo sommerso, è per Cameron anche strumento di morte. Sebbene l’uomo cerchi d’imporsi sulla natura essa è regolata dalle leggi del creato, dalle quali è impensabile prescindere. L’ultima volta che l’orologio del grande salone viene inquadrato dalla cinepresa, la massa d’acqua è salita sino all’altezza del quadrante che segna le 2:15.

Mancano soltanto cinque minuti al definitivo tracollo della nave e al conseguente fermo del tempo.  In quell’addio tra le onde, alla morte di Jack, si disperde il tempo presente. Rose smarrisce in quei fluttui il frammento più palpitante del suo cuore, e da quel giorno, ogni progressione della vita futura sarà dettata dall’ispirazione di un credo carpito nel momento passato.

  • “Sogna come se dovessi vivere per sempre, vivi come se dovessi morire oggi”.

“Titanic”, come ho scritto, è la celebrazione di un ricordo, inteso non soltanto in senso lato, ma come testimonianza di una vita perduta. Nulla può catturare l’incanto di un gesto come può fare un ricordo conservato e raccontato per far prendere coscienza a chi ascolta della bellezza di un periodo ormai andato. La fotografia può immortalare un atto, la scrittura glorificare un evento, ma nel ricordo personale si può compendiare con emozione un volto, una voce, una personalità, una vita. Attraverso le proprie parole, Rose porta a compimento la propria questione in sospeso, l’ultimo passo della propria vita: restituire il ritratto di un uomo scomparso. E solo lei poteva farlo, perché era la sola ad averlo a cuore, e nel racconto della propria esperienza gli ha reso la facoltà di poter essere tramandato.

"La persistenza della memoria" di Salvador Dalì

 

Gli orologi del Titanic, così come tutti gli altri strumenti per misurare lo scorrere del tempo, riposano da quella tragica notte sul fondale buio e sabbioso dell’oceano, fermi a segnare le 2:20. Come saranno oramai? Saranno arrugginiti, ricoperti da microrganismi, oppure schiacciati dall’enorme pressione, come fossero orologi dipinti da Dalì, molli, pendenti e scivolosi, cosparsi dell’austerità del tempo perduto. Gli orologi sono freddi calcolatori che però non possono nulla se confrontati alla persistenza della memoria della donna protagonista, che dà spessore, colore, forma, splendore e straziante dolore a un ricordo vissuto nella fugacità di un tempo soggettivo e, per tale ragione, incalcolabile.

Adempiuta l’ultima volontà di Rose sulla Terra, giunge il momento della ricongiunzione. La volta celeste, colma di stelle luminose, può lasciarne cadere una, la più tardiva, così che un’anima possa prendere il suo posto nel paradiso. E’ l’allegoria conclusiva di un richiamo: è Jack che reclama Rose per il raggiungimento di un tempo senza tempo. Nell’ultimo sogno di Rose, la donna torna nelle profondità degli abissi dell’oceano così come del tempo, e nella paradisiaca nave traghettatrice di anime la meraviglia originaria degli ambienti torna a materializzarsi sotto i nostri occhi.

Il finale di “Titanic” è, a mio dire, paragonabile ad alcuni toccanti passi finali delle fiabe di Hans Christian Andersen. Come accaduto per Jack e Rose non è nella vita terrena che si è potuto vivere un amore tanto intenso, un concetto, quest’ultimo, preminente nelle fiabe dello scrittore danese, nelle quali l’amore non vissuto completamente sulla Terra, essendo immortale, trova compimento nella vita dopo la morte. Jack e Rose si rincontrano nella dimensione metafisica, dove il tempo e lo spazio cedono il passo all’etereo. L’uomo attende, come un tenace soldatino di stagno che resta pazientemente in piedi da più di ottant’anni ad aspettare la donna amata, una ballerina che rapì il suo cuore con un passo di danza in terza classe. Quando si volta, l’orologio alle spalle di Jack segna ancora le 2:20. E’ l’ultima apparizione di un tempo interrotto. Un orario non più riscontrabile, posto là dove la giovinezza non svanisce mai, dove l’amore può albergare per sempre e dove ogni singolo giorno è reso eterno.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

"Titanic negli abissi del tempo" è l'ultimo capitolo dei nostri articoli sull'opera cinematografica e sulla tragedia del Transatlantico. Potete leggere tutti i nostri articoli su "Titanic" cliccando ai seguenti link:

"Recensione e analisi: Titanic - 1997"

"I simbolismi di Titanic - 1997"

"Un'anima dell'oceano - L'affondamento del Titanic tra cinema e realtà"

"Speciali di cinema - Con gli occhi di James Cameron"

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Jake e rose dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Era il 1997, quasi due decenni fa, quando James Cameron vestiva i panni di un moderno Prometeo donando al mondo un’opera cinematografica entrata a pieno titolo tra i grandi simboli del cinema moderno. Se nel mito greco il Titano all’uomo, il suo essere prediletto, donava il fuoco per potersi scaldare dal tempo inclemente, Cameron offriva, invece, al modico prezzo di un biglietto d’ingresso: “Titanic”. Perché “Titanic” è idealmente paragonabile al “fuoco”, in quanto come esso è un elemento primario dalla forza dirompente, implacabile, generata dal semplice sfregamento di due pietre focaie. E’ solo una piccola scintilla da cui può divampare una fiamma imperitura. Per capire ciò che davvero abbiamo dinanzi, possiamo, in tutta tranquillità, allungare la mano e lasciare che venga lambita da queste “fiamme”, un po’come Mosè ne “Il principe d’Egitto” quando, impaurito, tentava di comprendere come fosse possibile che la vampa non consumasse le foglie e i rami del folto roveto, volgendo il braccio verso il rogo: ci lasceremmo accarezzare da quel tepore amico durante l’ennesima visione di una pellicola divenuta ormai un film di culto. La sua carica ardente ci circonda, ci avviluppa, diventa parte di noi, senza però riuscire a bruciarci; perché “Titanic” possiede in sé l’arte, l’essenza di non far dimenticare l’innesco che ha permesso a quella fiamma, prima così flebile, di diventare col trascorrere del tempo inestinguibile, tanto da continuare ad ardere ancora oggi in maniera viva e palpitante nel cuore di intere generazioni.

“Titanic” è un “elemento” della natura, perché è probabilmente il film più famoso di tutti i tempi. Si possono davvero contare sulla punta delle dita le persone che ammettono con disarmante naturalezza di non aver mai visto né sentito parlare del lungometraggio che vede protagonisti Kate Winslet e Leonardo DiCaprio. Come riusciamo a rammentare la sola, semplice idea di un qualcosa di così naturale e scontato per noi tutti come il fuoco, così possiamo richiamare, con la medesima facilità, l’immagine di alcune delle scene più evocative dell’opera. “Titanic” è un film entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo, persino nel parlare comune. Su esso si è disquisito ampiamente sin dalla sua uscita nelle sale, per non smettere poi di riportarlo in auge negli anni successivi, tra repliche mai passate inosservate in televisione e copie in VHS prima e DVD e Blu-Ray dopo, che hanno accompagnato molte delle serate in cui alla domanda “cosa guardiamo?” in tanti, specie i più romantici, inevitabilmente finivano per rispondere: “Titanic!”. Questo Kolossal è un film lineare, mai prolisso quanto perfettamente modulato nelle tempistiche, dal comparto tecnico, sonoro e visivo all’avanguardia per il periodo, così magistralmente amalgamato alla lavorazione, da risultare tutt’oggi straordinariamente contemporaneo. “Titanic”, però, dopo aver fatto battere forte il cuore a molti degli spettatori che ebbero la fortuna di vederlo al cinema, è diventato col tempo un film vittima del proprio successo, assistendo lentamente al disfacimento del proprio fascino innato che lo rendeva un prodotto cinematografico d’autore e d’intrattenimento al tempo stesso. La sua voglia di puntare sia alla mente che al cuore dello spettatore si è rivelata un’arma dal funzionamento impeccabile, ma purtroppo dall’effetto a doppio taglio. Perché “Titanic” nel suo successo planetario si dovette scontrare inevitabilmente con pareri diversi di valutazione, come, per esempio, l’essere stato considerato per molto tempo come un film alla portata di tutti. “Titanic” divenne infatti la più grande e pluripremiata opera commerciale che si era mai vista.

Il lungometraggio fu prodotto dalla 20th Century Fox, dalla Paramount Pictures e dalla Lightstorm Entertainment, casa di produzione di James Cameron che stanziarono un budget di 200 milioni per l’intera realizzazione della pellicola. Si trattava della lavorazione più costosa della storia del cinema. Al termine della sua lunga corsa ai botteghini mondiali, il film segnò un incasso stimato di poco inferiore ai due miliardi, che, senza tenere conto dell’inflazione, rese “Titanic” come il film di maggior successo della storia della settima arte. L’opera rappresentò un vero e proprio fenomeno di cultura di massa, con migliaia di persone che ritornavano nelle sale per provare nuovamente quelle intense emozioni col film che tanto li aveva coinvolti. “Titanic” aumentò la sua aura di successo irripetibile bissando il traguardo storico di vittorie agli Oscar, ben undici statuette, eguagliando così il record del capolavoro “Ben-Hur”, rimasto imbattuto nonché ineguagliato da 38 anni. Come il monumentale lungometraggio di Wyler, anche quello di Cameron si distinse per la corposa durata, che permise un dipanarsi completo e dettagliato della storia ambientata durante il tragico viaggio inaugurale della colossale nave, orgoglio dell’allora marina britannica.

Jack e Rose sono i due amanti a cui tanto il film deve il suo impressionante successo. Essi, così distanti, appartenenti a due classi sociali diametralmente opposte, incrociano i rispettivi destini a bordo del lussuoso transatlantico. Per Jack è il viaggio più importante della sua vita, conquistato grazie alla vincita di una partita a carte che metteva in palio i biglietti per un posto in terza classe verso la tanta agognata America. Il confine statunitense rappresentava il miraggio dell’indipendenza incarnato dalla Statua della Libertà che domina il porto di New York. Ci scherza su Jack, come se già a miglia di distanza riuscisse a vederla, minuscola all’orizzonte dalla prua della nave. Quel viaggio per Jack prende lentamente la forma della speranza, di quella speranza tanto attesa, l’unica possibilità per poter trovare un lavoro e costruirsi un futuro, fino a quel momento solo una chimera, poiché, per sua stessa amissione, egli vive giorno per giorno con entusiasmo senza però riuscire a intravedere un obiettivo concreto. Per Rose invece, salire su quella nave è una condanna perenne. La sua vita si defilerà così come la madre ha già stabilito: una volta approdata sul suolo americano dovrà sposare l’avido fidanzato verso cui non sembra provare alcun sentimento amorevole e dovrà vivere nell’agiatezza pagata con il sacrificio della libera scelta. Jack vede Rose per la prima volta sul ponte, mentre lei si sporge delicatamente da una delle ringhiere che delimitano i confini della nave. Jack la mira dal basso verso l’alto, in una costruzione artistica che circoscrive simbolicamente e nell’immediatezza, la demarcazione che intercorre tra i due. Lei appare così incantevole, portatrice di una grazia tanto meravigliosa quanto difficilmente raggiungibile poiché sita su di un rango sociale che la pone inevitabilmente al di sopra di un giovane modesto come lui. Egli sembra perdersi nella bellezza della donna, fantasticando sull’esigua possibilità di poterla avvicinare anche solo per un rapido scambio di parole, per poter ascoltare soltanto il suono della sua voce. I due si incontrano una notte, proprio quando la ragazza sta per compiere un insano gesto. Jack salva Rose dal disperato tentativo di togliersi la vita, gettandosi tra le gelide acque dell’Oceano Atlantico. E’ l’incontro tra due mondi posti agli antipodi, due realtà così diverse che cercano di avvicinarsi, ma per il momento si sfiorano appena. Jack diventa per Rose l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi nella straziante agonia di una vita monotona che le si prospetta davanti, resa ancor più triste dalla mancanza di affetti, e amplificata a dismisura dalla grandezza sconfinata dell’oceano, metafora dell’abbandono in cui Rose sarebbe sprofondata se non si fosse imbattuta nel suo salvatore e nuovo amico. Rose, già dalle prime scene, mostra una profonda ammirazione per l’arte quando depone delicatamente alcuni quadri, ad oggi d’inestimabile valore, sui divani dell’elegante cabina della prima classe del Titanic. Rose, nutrita e sorretta dal suo grande amore per l’arte, scopre il talento di Jack nel ritrarre le varie realtà delle persone emarginate, riuscendo a cogliere non soltanto le peculiari caratteristiche fisiche ma rappresentando in esse anche i tratti di un riflesso del turbamento emotivo e passionale che traspare da quei soggetti. Lei non si innamora del suo essere così diverso né della sua abilità artistica, quanto del sentimento che il “povero” riesce a scrutare negli occhi di chi sta osservando con tanta attenzione. Rose si innamora della mente dell’uomo ancor prima che del suo agire.

Jack la porta a ballare; ma si tratta di una festa improvvisata, ricavata tra i miseri locali della terza classe. E’ così che la ragazza comincia a conoscere tutto un mondo di cui lei, forse, ne aveva sentito solo parlare, quello delle persone meno abbienti, di chi riesce a godere anche del poco che ha, e di chi riesce a cercare e trovare la vena più gioviale anche nelle piccole cose. Jack strappa così Rose dalla sofferenza che nel silenzio lacerava il suo animo nella quotidianità della sua esistenza. Jack si innamora subito di quella dolce visione di donna e vorrebbe immortalarne lo splendore della sua giovinezza su un foglio di carta. Rose per sua espressa volontà vuole farlo senza veste né veli, con addosso solamente la collana del cuore dell’oceano in una delle scene più delicatamente sensuali mai mostrate sul grande schermo. Sciolta la vestaglia di color nero con alcuni ricami dalle tonalità dorate che scorrono sul leggiadro tessuto in seta, Rose si mostra nuda nella sua formosa bellezza dinanzi al volto imporporato di Jack. La donna si distende sul divano, dove poggia il capo su di un morbido cuscino volgendo il braccio sinistro quasi all’altezza dei suoi rossi capelli, e la mano destra poco distante dal viso, all’altezza delle candide gote. Lo sguardo di Rose resta fisso sull’uomo che comincia a ritrarla in un disegno che manterrà la propria magnificenza per quasi un secolo, dimenticato all’interno di una cassaforte adagiata sul fondo dell’oceano fino al suo ritrovamento. Il ritratto di Rose diviene così il simbolo artistico dell’amore tra i due naufraghi, una raffigurazione tangibile della loro passione riuscita a sopravvivere alla straziante tragedia cui la nave andrà incontro. La letizia del loro intenso amore trova la sublimazione nella notte trascorsa insieme all’interno di un’auto nella Sala Postale, proprio nel ventre della nave, lontani da quelle cabine così formali, così aristocratiche, tanto da rimarcare l’evidente divisione tra le varie classi sociali d’appartenenza. Laggiù, nelle viscere della nave, essi sono finalmente soli e magicamente insieme, proprio come due innamorati uniti nella medesima “realtà”: sarà il loro ultimo momento di sincero appagamento, di pura esaltazione amorosa.

Da lì a breve li attenderà la disperata fuga per trovare scampo alle acque gelide dell’oceano, che faranno di tutto per annientare la gloria dell’ingegno umano e la sapiente opera di tutte le maestranze che nulla possono contro la negligenza e la testardaggine di pochi, specie se un destino avverso vi aleggia intorno. L’acciaio si squarcia al forte impatto con l’enorme massa di ghiaccio e ben presto la nave viene letteralmente invasa dalle acque, prima di spezzarsi in due grossi “tronconi” e quindi inabissarsi, dove ancora oggi giace tra le profondità dell’oceano. L’apporto sonoro roboante e gli impressionanti effetti speciali rendono drammatica la disfatta del Titanic, che perde lentamente la propria possanza, venendo assoggettato alla potenza della natura.

Jack e Rose aggrappatisi disperatamente alla ringhiera della poppa della nave, dove si erano scambiati le loro prime parole, finiscono in mare. Rose trova riparo sui resti di una porta che galleggia, mentre Jack la esorta a vivere una vita piena, libera e soddisfacente, proprio come quella libertà che i due avevano avuto modo di provare solo fugacemente in quei giorni oramai giunti tragicamente a conclusione. Jack muore nell’assordante silenzio di oltre 1500 anime, anch’esse spentesi tra le gelide onde. Rose bacia le mani dell’amato, quelle che l’avevano dolcemente riportata a bordo, quando istintivamente voleva lasciarsi cadere in mare. Le bacia più volte, forse per dimostrare a Jack, anche se ormai esanime, l’amore che per sempre proverà per lui e per seguitare a ringraziarlo di averla salvata dal suo destino. Lo bacia un’ultima volta prima di lasciarlo scomparire nell’oscurità dell’oceano.

Arrivata sana e salva in America, Rose non potendo più vivere la vita che avrebbe sognato insieme a Jack, decide comunque di onorarlo, legando il suo “io” identificativo alla figura dell’amato perduto, assumendo il cognome Dawson che l’accompagnerà per il resto della vita. Una Rose centenaria, nel presente della narrazione, si arrampica sulla ringhiera dell’imbarcazione per tentare di rivivere un’ultima volta cosa provò quando finse di “volare” restando stretta all’abbraccio dell’amato sulla prua del Titanic. Rose, che ha vissuto una vita priva di rimpianti come aveva richiesto il suo grande amore, è riuscita nel suo ultimo desiderio: far sì che qualcun altro, oltre lei, possa ricordarsi di Jack e del loro emozionante vissuto. Ha restituito alla memoria di noi tutti, ascoltatori e spettatori oramai dagli occhi inumiditi, le gesta del proprio amato e pertanto, può finalmente accomiatare i ricordi lasciando cadere “il cuore dell’oceano” in mare, proprio laggiù, dove la carica di ogni suo battito si è mantenuta tra le onde di quell’infinità in cui riposa la reminiscenza del suo eterno amore. Addormentatasi profondamente forse per l’ultima volta, Rose si ricongiunge con Jack nella toccante scena finale del film, in un’immagine onirica che si perde nel bacio passionale dei due innamorati.

Cameron si erge a poeta dell’immagine, permettendoci di scrutare la raffinatezza del relitto tornato al suo originario splendore che fa da scorcio ad una grande storia d’amore. “Titanic” con le sue molteplici sfaccettature interpretative coniuga la veridicità storica con l’emozionante finzione narrativa. Il viaggio viene conseguentemente usato come strumento allegorico della “scoperta” e dell’incontro. La tragica disavventura della nave permette alla protagonista di strapparsi di dosso le vesti borghesi che da troppo tempo le comprimevano, in una “morsa straziante”, l’animo ferito. La traversata diviene così similitudine di una progressiva crescita nel cuore e nella mente della donna che scopre il primo amore e l’ispirazione che per sempre guiderà la sua vita. Jack, concepito come l’archetipo dell’eroe romantico, conquista Rose con la devozione di chi sa ascoltare il suo lamento, e con l’estro coinvolgente di chi anela a mutare la smorfia sofferente della donna in un sorriso emozionante a colpi di ballo. Egli fa volteggiare l’amata, danzando con lei in una serie di giravolte dove Rose si perde in un sincero sorriso di gioia: il compiuto innamoramento tra i due è da ricercarsi in questi intensi frangenti. La struggente morte dell’uomo coincide con la fine del viaggio dei due innamorati e la distruzione stessa della nave, di quella “creatura” concreta nella sua creazione ma al contempo astratta poiché figurata nel cuore dei due giovani, che non rappresentava altro che il luogo dove si consumò il loro amore. Jack muore perché ha compiuto il suo breve percorso, trovando la propria limpida felicità nell’amore di Rose, e dando la sua vita per lei. L’anima dell’uomo sembra attendere la donna con intramontabile devozione quando sul finire delle vicende, la scorge salire la grande scalinata che sormonta l’accesso alla prima classe del Titanic, segno che la loro storia nata in quell’indimenticato viaggio non potrà che ritornare a vivere eternamente in quell’apparente realtà. L’interpretazione e la palpitante alchimia dei protagonisti unita ad una regia d’alta scuola che esalta la cura del dettaglio scenico, sono tutti elementi che hanno reso questo film un capolavoro indiscusso che, tuttavia, ebbe un solo grande difetto, se così si può definire: l’essere stato un prodotto dal clamoroso richiamo mediatico. Una sorta di cassa di risonanza. “Titanic” divenne infatti un’opera ad ampio retaggio, essendo stata amata probabilmente in egual misura dai più esperti cinefili che dai meno avvezzi all’apprezzamento di questa nobile arte. In definitiva, detto così con poche parole, “Titanic” piace proprio a tutti. Con gli anni il film ha attirato attorno a sé un circolo di “detrattori” che polemizzano sulla smodata assegnazione di premi e sul suo successo così universale. Si è sviluppata la calunniante idea che se piace davvero a tutti allora non può essere una vera “opera d’arte” in quanto essa può anche suscitare diverse emozioni in ognuno ma resta comunque un qualcosa che solo i più “sensibili” o i più inclini al lato artistico possono davvero comprendere. A mio modesto parere, quando di una data cosa si parla continuamente o se ne riporta spropositatamente all’attenzione un qualsiasi particolare del suo “essere”, perde il proprio valore, la sua aura di unicità e di grazia cristallina, scadendo nell’essenza della realizzazione commerciale che antepone il guadagno economico al credo artistico. “Titanic” è caduto vittima dell’adorazione eccessiva del pubblico comune che tende appunto a idolatrarlo ossessivamente, venendo involontariamente meno ai credi dell’arte: essere a servizio di tutti ma meritevole dell’attenzione eloquente di pochi.

“Titanic” però, secondo me, insegna che l’arte può davvero essere un dono offerto a noi tutti, essendo essa capace di combinare la grandiosità del Kolossal con la sentita semplicità dell’intrattenimento romantico. Come il “fuoco” stesso anche “Titanic” finisce per divenire un qualcosa di “comune” che mantiene tuttavia lo stupore e l’importanza della sua prima volta, restando eternamente “giovane”, come in un sogno dove nulla è cambiato, esattamente come la visione finale in cui Jack e Rose, ancora giovani, ancora con indosso gli abiti che più li rappresentano, si ritrovano e, stringendosi in un forte abbraccio, si baciano una volta ancora.

Voto: 10/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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